In tutto il mondo i popoli indigeni sono le prime vittime del cambiamento climatico. Che vivano nell’Artico o nel Subartico, nelle foreste amazzoniche, in Africa centrale o nel Sudest asiatico, nelle isole del Pacifico o nella savana africana, il loro stile di vita a stretto contatto con la natura fa sì che essi siano quasi sempre i primi a subire le conseguenze drammatiche di questo cambiamento. Come se non bastasse la diminuzione delle risorse, della terra a disposizione, delle foreste e in generale lo sfruttamento indiscriminato di materie prime come legno, petrolio, gas e corsi d’acqua contribuiscono notevolmente alla distruzione degli habitat che danno da vivere a decine di popolazioni indigene e rischiano di generare nuove migrazioni e nuovi conflitti. Per questo l’Associazione per i Popoli Minacciati (Apm) chiede che la ricerca scientifica sul clima tenga maggiormente conto delle popolazioni indigene che da anni sperimentano e vivono sulla loro pelle le conseguenze della febbre del Pianeta. Come? “I programmi di ricerca sul clima dovrebbero tenere conto e includere nella ricerca la profonda conoscenza accumulata dalle popolazioni indigene” e “i finanziatori dei programmi di ricerca pongano come condizione base l'inclusione di rappresentanti indigeni nei programmi”.
La maggiore parte degli scienziati che si occupa di clima spera di contribuire con il proprio lavoro al miglioramento delle condizioni di vita delle vittime del cambio climatico, ma vi potranno essere risultati concreti in tal senso solo coinvolgendo le prime vittime di questo fenomeno, cioè i popoli indigeni e solamente se i finanziatori lo accetteranno come scopo specifico della ricerca. Per l’Apm il coinvolgimento nella ricerca scientifica dei popoli indigeni non è di per se una novità, ma è un indirizzo che va potenziato. La Nuova Zelanda, per esempio, vanta già ricerche esemplari nel campo del clima che hanno tenuto conto delle conoscenze delle popolazioni indigene. Il programma di ricerca neozelandese “Visione Matauranga”, finanziato da importanti fondazioni, vede, infatti, la partecipazione dei Maori che utilizzano la loro ancestrale conoscenza per individuare soluzioni concrete e applicabili per permettere alle persone di adattare il proprio stile di vita ai cambiamenti ormai in corso. Durante il convegno internazionale dei Giovani ricercatori delle regioni polari, tenuto lo scorso maggio in California, diversi scienziati europei, statunitensi e giapponesi hanno specificamente chiesto di poter collaborare nelle loro ricerche scientifiche con rappresentanti indigeni e di poter tenere conto delle loro conoscenze. Sono i primi segnali di un cambio di paradigma? Forse sì!
Intanto, però, la battaglia del nostro “modello economico” contro i popoli indigeni continua. Lo scorso settembre in Russia è stato arrestato Alexander Gabyshev, un rappresentante degli Yakuti che dalla Siberia voleva raggiungere Mosca a piedi per “cacciare gli spiriti negativi che circondano il presidente Putin”. In Siberia centinaia di persone rischiano di scomparire a causa dello sfruttamento indiscriminato di petrolio, gas, e di altre risorse dell’area artica, che distrugge la base vitale delle popolazioni che vivono dell'allevamento tradizionale delle renne. Per l’Apm “alla maggior parte degli scienziati occidentali il gesto di Gabyshev sembrerà a dir poco assurdo, ma l'intento dello sciamano yakuta altro non era che un disperato grido d’aiuto, che dovrebbe farci ragionare su quanto grave sia in realtà la situazione vissuta dai popoli indigeni siberiani”. Lo stesso grido lanciato in questi giorni dalla COP25 di Madrid da Greta Thunberg e in agosto in Brasile dal Forum nazionale delle donne indigene, dove più di 2.000 donne indigene hanno discusso dei metodi per resistere al cambiamento climatico e al governo del presidente di ultradestra Jair Bolsonaro, che ha ripetutamente affermato di voler sacrificare la terra indigena a favore delle grandi società agrarie. In occasione della 74esima Assemblea generale delle Nazioni Unite Bolsonaro ha ricordato che “È un errore affermare che l'Amazzonia è patrimonio dell'umanità e un malinteso confermato dagli scienziati dire che le nostre foreste amazzoniche sono i polmoni del mondo”. Figuriamoci poi se ad avanzare diritti sull’Amazzonia sono le popolazioni indigene.
In questa occasione il presidente Bolsonaro ha accusato i media internazionali di aver mentito sulla situazione reale della foresta: “Non è successo quello che i giornali internazionali hanno raccontato. Erano tutte bugie” ha polemizzato Bolsonaro smentendo platealmente scienziati, foto satellitari e Ong che da sempre si occupano di ambiente e definendo gli interventi dei leader mondiali a favore del salvataggio dell’Amazzonia, “colonialisti”. “La mia amministrazione - ha precisato - si è impegnata in uno sviluppo sostenibile del Paese, uno dei più ricchi di risorse naturali al mondo. L’Amazzonia è un patrimonio, ma alcuni paesi invece di aiutarci a preservarlo, con spirito coloniale mettono in discussione la nostra sovranità. Attacchi sensazionalistici come quelli di quest’estate da gran parte dei media internazionale hanno sollevato la nostra suscettibilità. In ogni battaglia, inclusa quella per la protezione dell'Amazzonia deve prevalere il rispetto per la libertà e la sovranità di ognuno di noi”. Secondo il neo presidente brasiliano, inoltre, “Molti degli indigeni che vivono in Brasile puntano sullo sviluppo e la globalizzazione per poter essere liberati dalle catene”, precisando che proprio a questo mirano "molte delle nuove politiche del mio Governo".
In realtà, come ha ricordato Regina Sonk, la referente dell’Apm che ha partecipato in aprile all’Acampamento Terra Livre a Brasilia “di recente il FUNAI, l’autorità indigena per la distribuzione della terra è stata di fatto esautorata da Bolsonaro. Da allora, la deforestazione della foresta pluviale ha raggiunto proporzioni senza precedenti. Gli attacchi ai leader indigeni sono in aumento e le possibilità di intervento per le ong si stanno riducendo”. Proprio per questo è particolarmente importante che anche il mondo della ricerca ponga la sua attenzione sull'attuale situazione drammatica dei popoli indigeni, aggrediti sia dal clima, che dalle politiche neoliberiste. “Resistiamo per poter esistere - hanno ricordato quest’estate le rappresentanti del Forum nazionale delle donne indigene - Qui a Brasilia ci sono donne che rappresentano un totale di 115 nazioni indigene e, tutte insieme, non accetteranno mai le pratiche ingiuste di questo e di altri governi. Per i nostri antenati e per le generazioni future, continueremo a difendere i nostri diritti e la nostra Madre Terra”.
Alessandro Graziadei
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