sabato 29 febbraio 2020

Hikikomori: i ragazzi in disparte

Al momento in Giappone ci sono di oltre 500.000 casi accertati di hikikomori, ma secondo le associazioni che se ne occupano il numero potrebbe arrivare addirittura a un milione, interessando quasi l’1% dell'intera popolazione nipponica. Si tratta dunque di un fenomeno incredibilmente vasto, eppure in pochi ne hanno sentito parlare, soprattutto al di fuori del Giappone. “Hikikomori” è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte” e viene utilizzato generalmente per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale (da alcuni mesi fino a diversi anni), rinchiudendosi nella propria stanza senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno, se non attraverso la tecnologia digitale. È un fenomeno che nel Belpaese riguarda principalmente giovani tra i 14 e i 30 anni e di sesso maschile, anche se il numero delle ragazze "isolate" potrebbe essere ancora sottostimato, ha spiegato l’associazione Hikikomori Italia, che anche grazie al suo impegno ci ricorda come “Anche in Italia l’attenzione nei confronti del fenomeno stia aumentando”. L’hikikomori, infatti, non è una sindrome culturale esclusivamente giapponese, ma un disagio sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo. 

Come associazione nazionale stimiamo che nel nostro paese ci siano almeno 100 mila casi”, ma il fenomeno non è facile da quantificare ha spiegato Marco Crepaldi, fondatore dell’associazione Hikikomori Italia, perché “stare in disparte” dai coetanei, dalla famiglia, dalla società intera “è una problematica non ancora riconosciuta, né a livello di DSM (il manuale che include e descrive i disturbi mentali) né a livello di Sistema Sanitario Nazionale”. Eppure chiunque abbia a che fare con adolescenti o giovani adulti si sta accorgendo che la tendenza all’isolamento sociale è in grandissima crescita tanto che dal 2014 ad oggi i ragazzi con diagnosi di disturbo adattivo sociale e conseguente ritiro sociale grave sono quasi raddoppiati. Come mai? La causa principale sembra l’aumento della competitività  che di conseguenza aumenta anche la pressione di realizzazione sociale su tutti noi e, in particolare, sui giovani. Tutto può diventare occasione di biasimo o di ostilità e “La diffusione di internet e dei social network ha esasperato il confronto tra la vita delle persone e, dunque, anche tra il proprio grado di realizzazione e quello degli altri” ha spiegato Crepaldi. Non è raro che un ragazzo si avvii così verso la reclusione volontaria a seguito di un evento che potremmo definire traumatico e che lo ha portato a considerare negativamente tutte le relazioni sociali.  

Ma un evento traumatico da solo non basta. Dietro all’isolamento di un hikikomori ci sono almeno due grandi fattori: “la paura del giudizio sociale e una motivazione più razionale che viene costruita psicologicamente per giustificare la propria condizione e che vede la società come particolarmente negativa e respingente”. Aiutare questi ragazzi sembra particolarmente difficile perché spesso siamo davanti ad un problema di difficile comprensione e perché secondo l’associazione Hikikomori Italia gli stereotipi attorno a questo fenomeno sono ancora molti. Per esempio gli hikikomori non sono ragazzi svogliati, "in genere si tratta di individui profondi, introspettivi e con una spiccata sensibilità che non si ritirano nella loro stanza perché non hanno voglia di andare a scuola”. Questo regime di autoreclusione è fuor di dubbio più gravoso che andare in classe o in qualsiasi altro contesto sociale e affrontare i propri doveri. Inoltre sono da distinguere due fattori connessi: "il ritiro e l’uso, spesso abuso, di tecnologia che sono fenomeni in qualche modo una conseguenza l’uno dell’altro perché la rete diventa l’unico mezzo di contatto con il mondo esterno”. Di conseguenza impedire loro di usare la rete significa condannarli a un isolamento totale.  

Il principale obiettivo dell'associazione Hikikomori Italia è quello di informare, sensibilizzare e tentare di accendere una riflessione critica sul fenomeno. Lo scopo è quello di capire, affrontando il problema senza stigmatizzarlo e senza giudicarlo. Un secondo obiettivo, non di inferiore importanza, è quello di fornire ai ragazzi italiani che si sentono vicini all’hikikomori, così come ai genitori che hanno un figlio in questa condizione, la possibilità di potersi confrontare attraverso gli spazi online o all’interno dei gruppi di mutuo aiuto dedicati ai genitori. Una possibilità molto importante visto che molti hikikomori ritengono di non avere alcun problema e ripetono di voler essere lasciati in pace e solo i genitori più determinati, dopo lunghe battaglie, riescono a convincere i figli a recarsi da uno psicologo, ma i percorsi psicoterapeutici possono rivelarsi inconcludenti quando non vi è una reale motivazione intrinseca da parte degli hikikomori a cambiare il proprio stato. Spesso chi accetta di essere seguito da un professionista lo fa solamente per “fare contenti gli altri” e per far cessare le pressioni dei famigliari. Per l’associazione di Crepaldi “Il punto principale è che gli hikikomori spesso sottostimano gravemente l’impatto che la propria scelta avrà sul loro benessere futuro. Lo sottostimano o, semplicemente, evitano di pensarci, non gli importa. Ma il diritto che ognuno ha di vivere la propria vita come meglio crede cessa nel momento in cui la propria scelta grava sulle spalle di altri".

Ma è possibile aiutare qualcuno che non vuole essere aiutato? Per Crepaldi sì. Non solo è possibile, ma è anche un dovere farlo. L'importante, però, è che si tengano sempre in mente alcuni punti  fondamentali: “l'obiettivo non deve essere quello di spingere nostro figlio a vivere la vita che noi riteniamo essere più giusta per lui, ma semplicemente aiutarlo a trovare la sua strada, la vita che speriamo possa renderlo più sereno, anche se non corrisponde al nostro modello di vita ideale; È doveroso provare ad aiutare una persona che riteniamo essere in pericolo, ma allo stesso tempo, non possiamo agire per conto di quella persona e la nostra responsabilità sulle sue scelte è, giustamente, ridotta. Ognuno è padrone della propria vita, anche nostro figlio” e infine “bisogna sforzarsi di continuare a condurre una vita normale senza farsi prendere dalla frenesia e dal panico. La parola d'ordine è sempre pazienza”. Questi consigli sono il frutto del confronto con centinaia di genitori di ragazzi hikikomori e non sono ovviamente la soluzione al problema, ma solo un primo passo.  Se questa è probabilmente una delle sfide più difficili che un genitore può trovarsi a dover affrontare è doveroso pensare che possiamo essere tutti parte di una comunità educante e che stigmatizzare modelli sociali negativi e respingenti che sono alla base di questa patologia è un nostro dovere. Come sempre prevenire è meglio che curare e farlo assieme è sicuramente più efficace.

Alessandro Graziadei

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