La filiera agroalimentare rappresenta un settore importante per la popolazione e per l’economia, ma da decenni, soprattutto nelle sue modalità intensive, ha enormi impatti ambientali, come ha evidenziato nelle scorse settimane anche l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) esaminando con il rapporto Italian emission inventory 1990-2018 tutto l’andamento delle emissioni di gas serra e di inquinanti nel Belpaese dal 1990 al 2018, integrato da una stima preliminare del 2019 e alcune considerazioni sul primo trimestre del 2020. In particolare nel Focus sulle emissioni da agricoltura e allevamento gli scienziati dell’Ispra hanno evidenziato come in questi settori “Dal 1990 le emissioni sono scese del 13% a causa della riduzione del numero dei capi, delle superfici delle produzioni agricole, dell’uso dei fertilizzanti sintetici e dei cambiamenti nei metodi di gestione delle deiezioni”. Tuttavia da questi comparti agroalimentari, senza tener conto di tutta la filiera (quindi escludendo le produzioni di mangimi e il trasporto), arriva annualmente il 7% delle emissioni di gas serra italiane, mentre a livello globale l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) stima che solo gli allevamenti producano 14,5% dei gas serra mondiali, quindi circa 30 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti all'anno.
Come ha spiegato l’Ispra nel suo Focus, la maggior parte delle emissioni del settore, quasi l’80%, deriva dagli allevamenti, in particolare dalle categorie di bestiame bovino per il 70% e suino per il 10%. In particolare, per gli allevamenti, le emissioni prevalenti derivano delle emissioni deriva dalla fermentazione enterica dei ruminanti e dalla gestione delle deiezioni, che con il loro stoccaggio e spandimento generano grandi quantità di ammoniaca, uno dei principali componenti dell’inquinamento da particolato. Questo aspetto è stato recentemente messo sotto la lente di ingrandimento anche dalla trasmissione di Rai3 Report, che ha analizzato un position paper della Società italiana di medicina ambientale che ipotizza “che il pm10 abbia favorito la diffusione del Coronavirus in Pianura Padana”. Anche se queste “relazioni pericolose” tra inquinamento e Covid-19 non sono ancora delle certezze e le emissioni di ammoniaca del comparto sono diminuite del 23% rispetto al 1990, secondo l’Ispra nel 2018 queste emissioni ammontavano ancora a 345.000 tonnellate/anno, un dato che rappresenta più del 90% di tutte le emissioni nazionali. L’80% di queste emissioni di ammoniaca deriva direttamente dagli allevamenti e come ha evidenziato anche Report, si genera nelle fasi di gestione delle deiezioni nei ricoveri, negli stoccaggi e durante lo spandimento al suolo.
Ma è possibile arginare il problema dell’inquinamento zootecnico senza limitare la produzione? Premesso che il consumo di carne e di derivati dell’allevamento andrebbe drasticamente ridotto da parte di noi consumatori, se vogliamo sperare di “salvare il mondo prima di cena” e in fretta. Per Arla Foods, la più grande cooperativa agricola lattiero-casearia d’Europa, “è possibile neutralizzare tutta la CO2 prodotta dai caseifici dei nostri 10.300 soci e rendere a emissioni zero tutte le nostre attività entro il 2050”, con cambiamenti radicali e lo sviluppo di nuove tecnologie “in tutta la catena di produzione e approvvigionamento”. Un teorema che per Will Gildea della britannica Vegan Society è falso, visto che “Non c’è modo di rendere il prodotto di un caseificio rispettoso del clima. I gas che aiutano a riscaldare l’atmosfera e contribuiscono al cambiamento climatico sono un sottoprodotto dell’industria lattiero-casearia. Le mucche producono grandi quantità di metano, un gas molto dannoso per il nostro pianeta, anidride carbonica e protossido di azoto, prodotti da imballaggi, trasporti e fertilizzanti. Le emissioni di metano riscaldano il pianeta nel breve termine, il che significa accelerare la corsa verso i cambiamenti climatici”. Dello stesso parere è Joseph Poore, docente dell’Università di Oxford, secondo il quale “Non è chiaro quali emissioni sarebbero state incluse nell’obiettivo di Arla. Se si tratta solo di anidride carbonica, questo è un obiettivo minimale. Se includono il metano, il protossido di azoto e la produzione di mangimi, che sono le principali fonti di emissioni di un caseificio, questo è un obiettivo molto ambizioso”. Forse troppo.
Indipendentemente dalle buone intenzioni di Arla Foods e di altre multinazionali dell’allevamento, la sostenibilità ambientale di questa filiera non è l’unico problema che occorre affrontare. Secondo Greenpeace, infatti, “L’allevamento intensivo ha anche un ruolo ben noto sia per l’emersione che la diffusione di infezioni virali simili al Covid-19. Si stima che il 73% di tutte le malattie infettive emergenti provenga da animali e che gli animali allevati trasmettano agli esseri umani un grande numero di virus, come i coronavirus e i virus dell’influenza. È probabile che gli allevamenti intensivi, in particolare di pollame e suini, nei quali gli animali sono tenuti a stretto contatto e in numero molto elevato, oltre che movimentati su grandi distanze, possano far aumentare la trasmissione di malattie”. Per l’ong “Per ridurre il rischio di future pandemie, l’Unione europea e i governi nazionali devono bloccare il sostegno all’allevamento intensivo nei pacchetti di salvataggio o con altri sussidi pubblici, salvando invece l’zootecnia su piccola scala”. Attualmente il settore zootecnico europeo, nell’ambito dell’attuale Politica Agricola Comune (Pac) riceve già dall’Unione, direttamente e indirettamente attraverso la produzione di mangimi, tra i 28 e i 32 miliardi di euro all’anno in sussidi pubblici, cioè il 18-20% del bilancio totale dell’Ue. La stragrande maggioranza di questi contributi sostiene le aziende intensive più grandi, che forniscono oltre il 72% dei prodotti di origine animale nell’Unione, mentre le aziende più piccole, dove gli animali stanno di norma meglio, continuano a scomparire. Quasi tre milioni di allevamenti, un terzo di tutti gli allevamenti europei, hanno chiuso tra il 2005 e il 2013, mentre l’Italia, tra il 2004 e il 2016, ha perso oltre 320 mila piccole aziende, circa il 38% del settore.
Che fare? Occorre cambiare paradigma e occuparsi seriamente e subito del benessere animale. Del resto, come ha recentemente ricordato Ilaria Capua, direttrice dell’One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, “Migliorare la salute dell’uomo e degli animali, insieme a quella delle piante e dell’ambiente, è l’unico modo per mantenere e preservare la sostenibilità del Pianeta. La salute umana è indissolubilmente legata alla salute degli animali e della natura. Avremo un Pianeta e una vita sani solo se cambieremo drasticamente il modo in cui trattiamo gli altri esseri viventi," compresi gli animali negli allevamenti.
Alessandro Graziadei
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