domenica 26 aprile 2020

Conservazione vs Covid-19

Che senso ha parlare di riserve naturali e progetti di conservazione in piena emergenza Covid-19? Proviamo a capirlo partendo da lontano. Già nel 1992, consapevoli dell’accelerata crisi della biodiversità, 195 governi (compreso quello italiano) hanno firmato la Convention on biological diversity (Cbd), che richiede di proteggere e conservare non solo le specie, ma anche i loro processi evolutivi. Eppure negli ultimi decenni abbiamo distrutto rapidamente il nostro ecosistema, e molte specie animali e vegetali hanno dovuto adattarsi per sopravvivere, compresa la nostra, che forse per la prima volta in questi mesi sta affrontando una crisi epocale, cercando di tamponare le conseguenze sanitarie ed economiche della pandemia da Covid-19.  A confermare questa perdita di biodiversità è lo studio Global conservation of species’ niches”, pubblicato su Nature il 25 marzo scorso da un team di ricercatori internazionale del quale fanno parte anche Carlo Rondinini, del Dipartimento di biologia e biotecnologie “Charles darwin” dell’Università la Sapienza di Roma, e Gentile Ficetola del Dipartimento scienza e politica ambientale dell’Università Statale di Milano, che hanno misurato quanto le aree protette del mondo riescono a tutelare le specie animali scoprendo che “Le nicchie del 90% degli animali a rischio non sono tutelate adeguatamente dalle aree protette”.

Il team di scienziati guidato dall’australiano Jeffrey Hanson della School of biological sciences dell’università del Queensland ha sviluppato mappe degli habitat per 20.000 specie di mammiferi e le ha combinate con le mappe dei climi e delle aree protette di tutto il mondo, con risultati non ottimistici. Lo studio dimostra che la rete di aree protette esistente deve essere migliorata per preservare il potenziale adattativo di molti animali, visto che “Parchi e riserve non sono attualmente in grado di conservare tutte le popolazioni necessarie per la loro sopravvivenza a lungo termine di molte specie”. Per far fronte a questa emergenza occorre pensare a nuove aree protette che devono essere distribuite in modo strategico per far sì che ogni specie abbia una tutela adeguata e poiché le risorse disponibili sono sempre limitate, “è necessario ottimizzare questo processo con particolari strumenti di calcolo statistico”. Proprio grazie a modelli matematici lo studio ha identificato alcune aree prioritarie per la conservazione delle nicchie di specie, che possono essere combinate con le aree protette attuali. Si tratta di ambienti unici, dei veri e propri hot-spot di biodiversità, “quali le Ande tropicali, il Madagascar, l’Himalaya e l’Indonesia”, anche se “Diverse aree prioritarie si trovano anche in Europa, e l’Italia è tra i Paesi europei con la maggiore densità di aree prioritarie”.

È un’emergenza ambientale che va tenuta in seria considerazione nonostante alcuni adattamenti sorprendenti che si sono fino ad oggi osservati in molte specie minacciate. I ricercatori italiani fanno l’esempio della rana di Lataste (Rana latastei): “È un piccolo anfibio minacciato, che normalmente vive esclusivamente negli ultimi frammenti di foresta nella Pianura Padano-Veneta. Le popolazioni di questa rana sono state capaci nel tempo di evolvere e adattarsi alle differenze di clima di alcune aree collinari diverse della Pianura Padana.  Purtroppo, anche questa rana non è tutelata adeguatamente dalle nostre aree protette e molte popolazioni nonostante l’adattamento stanno scomparendo”. Come ha spiegato Ficetola “Le popolazioni infatti possono evolvere per adattarsi all’ambiente e la capacità di evolvere è essenziale per sopravvivere in un pianeta che cambia. Ma conservare i processi evolutivi significa che riserve e progetti di conservazione dovrebbero proteggere non solo le specie, ma anche la diversità delle condizioni nelle quali si sviluppano”.

Una riflessione di grande attualità visto nelle scorse settimane l’United Nations environment programme (Unep) ha ricordato che le malattie da zoonosi, come il Covid-19, cioè le malattie trasmesse dagli animali all’uomo, “sono in aumento anche perché le attività antropiche continuano a causare una distruzione senza precedenti degli habitat selvatici”. Secondo lo studio “The Coevolution Effect as a Driver of Spillover”, pubblicato un anno fa su Trends in Parasitology da un team di ricercatori dell’Auburn University, esistono alcune preoccupanti evidenze tra la perdita di habitat e l’emergenza globale provocata dalle malattie infettive come Ebola, virus del Nilo occidentale, SARS, virus di Marburg e lo stesso Covid-19.  Per spiegare i meccanismi alla base di questa associazione il team dell’Auburn ha approfondito un’ipotesi nota come effetto di diluizione, che risale all’inizio di questo secolo ed “È essenzialmente l’idea che la conservazione della biodiversità possa proteggere l’uomo dalle malattie infettive emergenti.  L’effetto di diluizione evidenzia il ruolo fondamentale che la conservazione della fauna selvatica può svolgere nella protezione della salute umana”.  Seguendo questa ipotesi gli scienziati hanno ipotizzato che, mentre gli esseri umani alterano il territorio con la perdita dell’habitat, i frammenti di foresta fungono da isole e la fauna selvatica e i microbi che causano le malattie al loro interno sono spinti verso una rapida diversificazione. In un territorio frammentato vedremmo, quindi, un aumento della diversità dei microbi che causano malattie, “aumentando la probabilità che uno di questi microbi raggiunga le popolazioni umane con un salto di specie”. 

Lo studio, quindi, introduce un meccanismo evolutivo per spiegare l’associazione tra frammentazione dell’habitat e diffusione delle malattie nelle popolazioni umane. Per Dean Janaki Alavalapati, decano della Auburn, i risultati dello studio sembrano convincenti: “I dati dello studio forniscono spunti di rilievo nel campo delle malattie infettive emergenti e delle forze motrici che sono dietro di loro. Queste scoperte potrebbero comportare un cambiamento significativo nel modo in cui vengono percepite e spiegate alcune malattie”. Come abbiamo già ricordato, se adesso possiamo rispondere all'emergenza solamente con la responsabile scelta Io resto a casa”, in futuro per impedire l’emergere di zoonosi sarà sempre più importante affrontare le molteplici minacce, spesso interdipendenti, che pesano sugli ecosistemi e la fauna selvatica, a cominciare dalla perdita e frammentazione degli habitat. Intanto secondo il professor Hanson “Sforzi coordinati tra tutti i paesi sono necessari per migliorare la rete di aree protette e tutelare le nicchie delle specie. Alla fine del 2020 i Paesi che hanno firmato la Convenzione sulla Biodiversità si dovrebbero incontrare [Covid-19 permettendo] per ridefinire le politiche di conservazione del prossimo decennio”. Questa sarà un’opportunità fondamentale per proteggere al meglio la biodiversità e la vita sulla Terra, compresa la nostra!

Alessandro Graziadei

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