Mentre l'Europa cerca le soluzioni migliori per far fronte alla crisi economica innescata dal Covid-19 ad inizio anno il direttore scientifico del Kyoto club, Gianni Silvestrini ci ricordava che “Solo per gestire i rifiuti nucleari l’Europa dovrà spendere nei prossimi anni 500 miliardi di euro, 100 in più rispetto alla precedente valutazione dell’Unione europea. La metà delle risorse per il Green deal”. È stato questo il commento all’ultimo rapporto della Commissione europea sul “Radioactive waste” secondo il quale l’esperienza nucleare europea si trova oggi a fare i conti con una gestione di scorie e rifiuti radioattivi lunga e complessa. Secondo la Commissione “entro il 2030 i rifiuti con livello di radioattività molto basso raddoppieranno, mentre le altri classi cresceranno del 20-50%”. Visto che le scorie più pericolose necessitano controlli costanti e uno stoccaggio in sicurezza garantito per migliaia di anni, la Commissione ha proposto di mobilitare investimenti pari a 1.000 miliardi di euro per la transizione ecologica del Vecchio continente. Al momento non si può fare altrimenti, visto che la mole di rifiuti radioattivi che tutti gli Stati membri generano non arriva solo dalle centrali nucleari attive in Europa, ma da attività che spaziano dalla produzione di elettricità alla ricerca scientifica, fino alle più comuni applicazioni mediche.
Ad oggi, però, sono le centrali nucleari a gravare maggiormente sui fondi dell’Unione, visto che sono ancora operative in 14 Paesi, mentre altri due, cioè Italia e la Lituania, hanno sì abbandonato i loro programmi nucleari, ma stanno portando avanti un lento e oneroso smantellamento degli impianti presenti sul loro territorio. Nel loro complesso, questi 16 Stati “nucleari ed ex nucleari” producono il 99,7% dei rifiuti radioattivi europei: in totale si tratta di 3.466.000 m3 di scorie da gestire, in aumento del 4,6% negli ultimi tre anni. Un dato che è destinato a crescere ancora molto, contando che nel 2019, al momento della stesura del rapporto, erano ancora in funzione 126 reattori nucleari, con una capacità totale pari a 119 GWe. Così, se secondo il precedente report della Commissione sarebbero bastati “solo” 400 miliardi di euro per gestire i rifiuti nucleari, adesso si immagina che i “costi radioattivi” possano aver bisogno di altri 566 miliardi di euro e questo nonostante la Commissione abbia rilevato “progressi significativi nello sviluppo e nell’adozione dei programmi nazionali per la gestione dei rifiuti", quadro nel quale spicca però il silenzio del nostro Paese.
“Oggi - ha osserva la Commissione - tutti gli Stati membri hanno notificato i loro programmi nazionali finali, tranne l’Italia”. Proprio per questo lo scorso luglio la Corte di giustizia dell’Unione europea ha accolto il ricorso della Commissione Ue contro l’Italia per non aver ancora comunicato il programma nazionale per la gestione del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi a distanza di 4 anni dal termine previsto. Di fatto l’Italia continua a pagare per i suoi ritardi e adesso rischia di sborsare sempre di più, perchè ai quasi quattro miliardi spesi in vent’anni e pagati da noi contribuenti in bolletta per mettere in sicurezza i reattori delle vecchie centrali, si aggiungono non solo i ritardi nell’iter per la realizzazione del deposito nazionale, ma anche quelli per la messa in sicurezza dei siti già esistenti. L’attività di gestione dei rifiuti radioattivi in Italia è affidata alla Sogin, che a bilancio ha costi individuati in 7,2 miliardi di euro, e tra il 2001 e il 2018 ha già speso 3,8 miliardi di euro per un programma di smantellamento che è arrivato a realizzare circa un terzo delle attività previste. Attualmente sono oltre 30mila i metri cubi di rifiuti radioattivi italiani sparsi in 7 depositi regionali, mentre una buona parte è temporaneamente stoccata in Francia e Regno Unito.
Entro quest'anno si aspetta il via libera per realizzare il deposito unico nazionale che dovrà ospitare in sicurezza i nostri rifiuti: un progetto da 1,5 miliardi di euro che nessuno ha ancora idea di dove sarà realizzato. Nel 2015 con l’avvio della definizione di una Carta nazionale delle aree idonee (Cnapi) a ospitare il deposito nazionale sono stati individuati 100 possibili siti, ma una scelta definitiva non è ancora stata fatta. Eppure il futuro deposito nazionale delle scorie nucleari dovrebbe iniziare a funzionare a partire dal 2025, mentre l’avvio dei lavori è previsto per il 2021. Almeno sulla carta, perché dalla pubblicazione definitiva della Cnapi, la legge prevede solo 44 mesi per avviare la costruzione del sito, ma il dibattito pubblico e politico che sicuramente accompagnerà l’individuazione del sito, potrebbe richiedere tempi anche più lunghi. Questo tuttavia non sembra essere l’unico problema perché sulla questione delle scorie di “alta attività”, cioè quelle potenzialmente più pericolose che necessitano di infrastrutture ad hoc con elevati livelli di sicurezza, c’è un’incongruenza tra i due documenti che tracciano la strada per la costituzione del deposito nazionale: il decreto legislativo 31 del 2010 e la Guida tecnica n.29 dell’Ispra. Se il primo stabilisce che il deposito nazionale debba essere costituito per ospitare un parco tecnologico, un impianto per lo smaltimento dei rifiuti a bassa e media attività e un deposito temporaneo di lungo periodo (50-100 anni) per i rifiuti ad alta attività, l’Ispra indica i criteri di localizzazione solo per il deposito di smaltimento dei rifiuti a bassa e media attività.
Come se non bastasse l’attuale impianto regolatorio per la realizzazione del deposito nazionale è quello precedente al referendum abrogativo del 2011 e per questo è stato configurato pensando alla costruzione di nuove centrali nucleari e allo stoccaggio di molti più rifiuti di quelli che l’Italia oggi produce, oltre che per svolgere attività di ricerca sul trattamento del combustibile e dei rifiuti radioattivi all’interno del parco tecnologico. Più economico sarebbe adottare la strategia del “brown field”, ossia la trasformazione degli attuali siti temporanei in depositi permanenti. Potrebbe così delinearsi l’ipotesi che le scorie rimangano dove sono, ossia nelle quattro ex centrali nucleari di Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta) e negli impianti del combustibile di Saluggia (Vercelli), Bosco Marengo (Alessandria), Casaccia (Roma) e Rotondella (Matera). In ogni caso l’eredita, soprattutto economica, verso questa tecnologia efficiente almeno quanto pericolosa e non rinnovabile, sembra ancora gravare, in Italia come in Europa, sullo sviluppo e il sostegno a nuove forme di energia rinnovabile più sicure, economiche e pulite. Quelle che gli italiani hanno evidentemente scelto con il referendum del 2011.
Alessandro Graziadei
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