L’Europa per tutelare il pianeta e la sua popolazione, deve fare la sua parte e garantire che sul mercato europeo non arrivino prodotti legati alla distruzione delle foreste o alla violazione dei diritti umani. Come? La certificazione è stata per anni uno degli strumenti principali per provare a bloccare legno e carta provenienti da filiere poco sostenibili quando non addirittura illegali. Ha funzionato? Lo studio “Destruction: Certified” pubblicato in marzo da Greenpeace International ha sollevato non pochi dubbi attorno al sistema delle certificazioni. Secondo l’ong ambientalista, infatti, “i prodotti legati alla distruzione degli ecosistemi, alle violazioni dei diritti indigeni e comunitari continuano ad accedere al mercato dell’Unione Europea grazie ai bollini verdi assicurati da numerosi schemi di certificazione e auto-certificazione spesso poco affidabili”. Analizzando i criteri utilizzati per certificare prodotti come il legno, la carta, l’olio di palma e la soia per l’alimentazione animale, Greenpeace ha rilevato che “nessuno di queste certificazioni è riuscita a tutelare completamente la distruzione dell’ambiente e le violazioni dei diritti umani” anche se alcuni di questi programmi di certificazione sono stati approvati dalla Commissione Europea nella Direttiva sulle Energie Rinnovabili come garanzie di conformità ai requisiti di europei di sostenibilità.
Secondo Sini Eräjää, di Greenpeace, “I sistemi di certificazione scaricano troppo spesso sui consumatori la responsabilità di proteggere le foreste, e al tempo stesso li incoraggiano ad acquistare di più, causando una crescita della distruzione. Ma proteggere le foreste e i diritti umani non deve essere una scelta lasciata al consumatore, come la scelta tra patatine alla paprica o al pepe. Proteggere le foreste e i diritti umani è una necessità”. Ecco perché è urgente per l’Europa stabilire regole sempre più stringenti per impedire l’accesso al mercato europeo a prodotti in qualche modo legati alla distruzione delle foreste o alla violazione dei diritti umani. Il caso della sostenibilità della carta è eclatante. Dopo decenni di deforestazione e violazioni dei diritti umani, nel 2012 la Asia Pulp & Paper (APP), una delle più grandi multinazionali del settore, si è impegnata a fermare la deforestazione avviando una campagna di greenwasching utile a presentarsi come una leader globale della sostenibilità, anche grazie alla stessa Greenpeace, che dal 2013 al 2018 ha fornito suggerimenti nel processo di miglioramenti della politica forestale della APP. Ma nel 2018 grazie alle analisi delle immagini satellitari, Greenpeace ha scoperto che alcune imprese forestali legate anche alla APP continuavano illegalmente a sfruttare ettari di foresta e di torbiere indonesiane. Già nel 2017 un’indagine condotta dall’Associated Press aveva rivelato che le piantagioni di APP, spesso nascoste dietro una struttura aziendale fatta da un caleidoscopio di aziende minori, erano ancora legate alla deforestazione e agli incendi forestali in sud est asiatico. Il rapporto “Conflict Plantations” pubblicato nel 2019 da una coalizione di organizzazioni indonesiane assieme all’Environmental Paper Network (EPN) aveva infine certificato come la APP, non solo non avesse mantenuto le promesse di “responsabilità ambientale”, ma fosse anche coinvolta in centinaia di conflitti territoriali con le comunità locali delle isole indonesiane di Sumatra e del Borneo.
Ancora oggi, secondo le analisi contenute in Destruction: Certified, “invece di promuovere cambiamenti nel mercato portando alla protezione delle foreste e degli altri ecosistemi, le certificazioni hanno di fatto dipinto di verde prodotti che sono ancora legati a tale distruzione. In alcuni casi, l’uso di sistemi di certificazione volontaria ha persino ostacolato l’adozione di ben più efficaci misure, come la legislazione o la riduzione del consumo di prodotti che causano la distruzione dell'ambiente”. Per questo Greenpeace ha chiesto ufficialmente all’Unione europea “che le aziende che vendono in Europa dimostrino in modo trasparente che i loro prodotti siano esenti dalla distruzione delle foreste e di altri ecosistemi, nonché dalle violazioni dei diritti umani” visto che, secondo l'associazione ambientalista, usare la certificazione per questo scopo è una scorciatoia che si è spesso dimostrata inefficace e aggirabile. Senza sollevare completamente l’Unione dalla sue responsabilità occorre però ricordare che questo percorso di verifica a tutela di foreste e diritti umani non è sempre così facile. Come ha ricordato in gennaio il network internazionale Salva le Foreste già il sistema legale indonesiano ha molte difficoltà a identificare ed agire contro i criminali del legname. Secondo l’associazione locale Kaoem Telapak coadiuvata da un team di ricerca britannico dell’Agenzia per le indagini ambientali (EIA) i massimi sforzi di Giacarta per contrastare il disboscamento illegale e la deforestazione sono seriamente compromessi da una applicazione della legge discrezionale e parziale: “Su oltre 50 aziende indagate per aver commerciato direttamente o indirettamente in legname illegale, un’azione di contrasto attraverso i tribunali locali è stata intrapresa contro solo una manciata di queste”. Dall’analisi forense di diversi casi giudiziari degli ultimi due anni, raccolti nel report Crimanl Neglect, emerge che i tribunali indonesiani ignorano regolarmente le leggi e le direttive ministeriali e le sentenze sono mantenute segrete (in violazione alla legge sulla divulgazione di informazioni pubbliche) proteggendo così i criminali e penalizzando gli operatori onesti. “Questa mancanza di trasparenza, unita ad alcune decisioni apparentemente irrazionali di vari tribunali, comporta il rischio che molti criminali restino impuniti o vedano ridotte le loro pene senza giustificazione alcuna” ha detto David Gritten dell’EIA.
Così anche se negli ultimi anni il Governo indonesiano con il suo Ministero dell’ambiente si è fortemente impegnato nel contrastare la deforestazione illegale, appena i casi di criminalità forestale raggiungono i tribunali, vengono affossati. Uno degli esempi più eclatanti è il caso di Henoch Budi Setiawan (meglio noto come Ming Ho), proprietario e direttore di due imprese che hanno tentato di trafficare 81 container di merbau, un prezioso legname protetto. Nell’ottobre 2019, il tribunale distrettuale di Sorong ha condannato Ming Ho a cinque anni di prigione e gli ha inflitto una multa di 2,5 miliardi di Rupie (circa 178.200 dollari). La sentenza è stata confermata dall'Alta corte di Jayapura nel dicembre successivo, ma nel luglio del 2020 la Corte Suprema ha ridotto la sua pena a due anni e ha ordinato la restituzione dei 1.936 metri cubi del legname illegale sequestrato alle sue imprese. “È frustrante che la squadra del Ministero dell’ambiente indonesiano si stia impegnando tanto nella repressione del commercio di legname illegale, mentre sembra che i tribunali stiano vanificando gran parte di tale lavoro”, ha dichiarato Abu Meridian, attivista di Telapak. EIA e Telapak hanno più volte chiesto alle autorità competenti perché ci siano stati così pochi procedimenti penali, perché le imprese colpevoli sono ancora autorizzate a operare e perché i verdetti dei tribunali siano rimasti segreti, ma ad oggi alle ong non è giunta alcuna risposta credibile e l’ipotesi più sensata sembra quella corruttiva.
Alessandro Graziadei
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