Nel 2010 la portata dell’economia oceanica è stata stimata in circa 1,5 trilioni di dollari e, prima della pandemia di Covid-19, si prevedeva che nel 2030 sarebbe aumentata a 3 trilioni di dollari. Tuttavia, sebbene l’oceano ci fornisca le risorse essenziali per la sopravvivenza, tra cui cibo, occupazione e persino ossigeno, il mondo lo sta danneggiando e impoverendo più velocemente che mai. Secondo il rapporto “Financing a sustainable ocean economy”, pubblicato quest'estate su Nature Communications da un team internazionale di ricercatori guidati dall’Università della British Columbia (UBC) “Sarà necessario un aumento significativo della sustainable ocean finance per garantire un’economia oceanica sostenibile a vantaggio della società e delle imprese, sia nei Paesi in via di sviluppo che in quelli sviluppati”. Il rapporto individua i principali ostacoli al finanziamento di un’economia che comprenda tutte le industrie oceaniche, come la produzione di pesce, il trasporto marittimo, le energie rinnovabili e i beni e servizi ecosistemici, come la regolazione del clima e la protezione delle coste. Per il principale autore dello studio, Rashid Sumaila della Fisheries Economics Research Unit dell’UBC, “Un’economia oceanica sostenibile richiede ecosistemi marini sani e resilienti, che attualmente sono gravemente minacciati dalle pressioni antropiche e climatiche. Ci sono molte opportunità per i governi, le istituzioni finanziarie e altri players per ottenere guadagni finanziari in questo tipo di economia sostenibile, ma ci sono anche molte barriere che devono essere ancora superate”.
Prodotto con il supporto del segretariato dell’High-Level Panel for a Sustainable Ocean Economy, un’iniziativa di 14 leader mondiali impegnati per un’economia oceanica sostenibile, nella quale protezione efficace, produzione sostenibile e una prosperità equa vadano di pari passo, e finanziato dal World Resources Institute, dall’Ocean Canada Partnership e dal Social Sciences and Humanities Council of Canada, quello che fa ben sperare di questo rapporto è che rappresenta nazioni con prospettive oceaniche, economiche e politiche molto diverse: Australia, Canada, Cile, Fiji, Giappone, Ghana, Indonesia, Jamaica, Kenya, Messico, Namibia, Norvegia, Palau e Portogallo, ed è sostenuto dall’inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per l’Oceano. Lo studio identifica quattro principali ostacoli allo sviluppo di una vera e propria economia oceanica sostenibile: Un ambiente poco favorevole ad attrarre finanziamenti; investimenti pubblici e privati insufficienti nell’economia oceanica a causa della mancanza di progetti di alta qualità; una capacità limitata delle persone di visualizzare e sviluppare progetti che siano attraenti per gli investitori; il profilo di rischio relativo più elevato degli investimenti oceanici, dove non esiste un ambiente favorevole per l’assicurazione e la mitigazione del rischio.
Per Sumaila, tuttavia, c’è ancora spazio per raccogliere fondi dagli utilizzi dell’oceano e per migliorare la sua gestione: “Il gap nel finanziamento della conservazione per tutti gli ecosistemi, che include fondi per un’economia oceanica sostenibile, è stato stimato in 300 miliardi di dollari a livello globale. Questo è meno dell’1% del PIL globale. Potete immaginare cosa avremmo a disposizione se i governi rendessero disponibile il 2 o 3%? Questo comporterebbe l’incentivazione delle istituzioni finanziarie a investire e lo sviluppo di un ambiente favorevole, con gli attori del settore privato interessati a incoraggiare iniziative verdi che promuovono lo sviluppo degli oceani”. Ma se continuiamo con il “business as usual”, allora dovremo affrontare il costo della protezione costiera, del trasferimento delle persone e della perdita di terra a causa dell’innalzamento del livello del mare, un costo che si prevede aumenterà da 200 miliardi di dollari a un trilione di dollari all’anno entro il 2100. Anche per questo nell’Oceano Indiano occidentale sono state istituite 143 Aree marine e costiere protette che si estendono su 553.163 Km2, il 7% della zona economica esclusiva totale della regione. Secondo il rapporto “The Marine Protected Areas Outlook” pubblicato in luglio dall'United Nations environment programme (Unep) dal Nairobi Convention, dal Western Indian Ocean e dall’ong Marine Science Association, "circa il 63% dei chilometri quadrati dell’area di Oceano su cui si affacciano Comore, Kenya, Madagascar, Mauritius, Mozambico, Seychelles, Sudafrica e Tanzania è stata sottoposta a protezione nei 7 anni trascorsi dall’adozione nel 2015 dell’obiettivo di sviluppo sostenibile 14.5, che ha impegnato i Paesi a conservare almeno il 10% delle loro aree marine e costiere entro il 2020".
Un impegno notevole. Nel solo 2019, le Seychelles hanno protetto il 30% della loro Zona economica esclusiva, salvaguardando gli habitat di 2.600 specie, mentre il Sudafrica ha dichiarato 20 nuove Aree marine protette, il che ha consentito a entrambi i Paesi di superare l’obiettivo del 10%. Le più povere Comore hanno sviluppato una nuova legislazione specifica per le aree protette, mentre in tutta la regione sono state dichiarate oltre 300 Aree marine gestite a livello locale, cioè aree in cui le comunità costiere si assumono il ruolo di tutela della conservazione. Il rapporto ci ricorda anche le decine di Aree marine protette proposte e in corso di istituzione nei Paesi africani dell’Oceano Indiano, che se realizzate coprirebbero altri 50.000 chilometri quadrati o più. Se la regione potrebbe, anche a causa della crisi economica generata dalla pandemia di Covid-19, non essere più in grado di contare sui numerosi posti di lavoro e benefici economici, valutati in 20,8 miliardi di dollari, che l’Oceano Indiano occidentale fornisce, le aree marine protette offrono una delle migliori opzioni per invertire queste tendenze.
Per Yamkela Mngxe, direttrice ad interim dei progetti integrati e del coordinamento internazionale del Dipartimento forestale, pesca e ambiente del Sudafrica “Le aree marine protette ben gestite possono apportare significativi benefici economici, sociali e ambientali a un Paese. Possono aumentare la sicurezza alimentare prevenendo l’eccessivo sfruttamento degli stock ittici, creare e proteggere posti di lavoro nei settori del turismo e della pesca, costruire la resilienza ai cambiamenti climatici e proteggere specie e habitat”. Se questa lungimirante politica ecologica continuerà i Paesi della regione potranno salvaguardare l’immensa bellezza naturale e le risorse dell’Oceano Indiano occidentale per le generazioni a venire e sostenere un nuovo slancio economico senza venir meno agli obiettivi del post 2020 biodiversity framework e dell'Agenda 2030 perso Sviluppo Sostenibile.
Alessandro Graziadei
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