Se l’indipendenza e l’integrità territoriale di Kiev sono questioni centrali nella “politica estera” Europea (con Washington solo apparentemente più defilata), Taiwan sembra essere la questione più importante e delicata nelle relazioni tra Washington e Pechino. Ma sono gli unici fronti critici della geopolitica mondiale? Ha destato una certa sorpresa l’annuncio del ministero degli Esteri indiano, poi confermato da Pechino, che le truppe indiane e cinesi hanno iniziato a ritirarsi dal 12 settembre dall’area contesa di Gogra-Hot Springs. L’area si trova nella regione indiana del Ladakh, ma Pechino l’ha sempre rivendicata come propria. Il territorio è situato nell’Himalaya occidentale, e da anni è teatro di scontri sanguinosi tra gli eserciti dei due Paesi. Scontri combattuti all’arma bianca, spesso con bastoni e mazze ferrate, per la proibizione di utilizzare armi da fuoco. Da alcuni mesi Delhi aveva accelerato la costruzione di nuove infrastrutture utili a fini militari lungo tutta la frontiera con la Cina. Da tempo Pechino faceva lo stesso. I due giganti asiatici condividono un confine di 3.488 km in questa regione dell’Himalaya, per il quale hanno combattuto una breve ma sanguinoso guerra nel 1962. Delhi rivendica ampi settori dell’Aksai Chin (che i cinesi hanno ottenuto dal Pakistan); Pechino avanza pretese sullo Stato indiano dell’Arunachal Pradesh. I due Paesi in latente conflitto da sessant’anni hanno schierato in modo stabile sul fronte tra i 50.000 e i 60.000 soldati e un quantitativo crescente di armamenti pesanti lungo il confine, che è da alcuni anni il più militarizzato al mondo dopo quello russo-ucraino. Nell’autunno del 2019 la situazione era già molto tesa e in occasione di un viaggio in Ladakh ho potuto osservare il continuo spostamento di truppe lungo il confine, che nel giugno 2020 ha portato truppe indiane e cinesi ad uno scontro a fuoco proprio nella valle di Galwan, tra il Ladakh indiano e l'Aksai Chin cinese. Il bilancio è stato di 20 soldati indiani morti e un numero mai confermato di vittime cinesi e a quanto ho potuto vedere un anno prima è andata bene, visto la quantità di soldati presenti lungo questo confine che è provvisorio dal ’62.
Ma la sfida tra queste due superpotenze atomiche (l’India non ha mai aderito al Trattato di non Proliferazione Nucleare) non è solo militare. In luglio, il premier cinese Li Keqiang aveva annunciato la realizzazione di due nuove arterie autostradali che in prospettiva preoccupano gli indiani. I due progetti fanno parte di un piano nazionale per costruire 461mila chilometri di autostrade e superstrade entro il 2035 con l’intento di potenziare la mobilità, i rapporti commerciali, oltre che facilitare il controllo dei territori di confine, visto che la prima collegherà il Tibet con lo Xinjiang, vicino al confine con l’India; l’altra congiungerà lo Xinjiang con la frontiera sino-pakistana. Il tutto sotto gli occhi di Delhi che aveva minacciato di portare il totale della guarnigione frontaliera a circa 200mila unità anche come rappresaglia verso i ripetuti raid di aerei ed elicotteri sulle aeree di “frizione” condotti dall’aviazione cinese (tattica usata anche con Taiwan). A quanto pare però colloqui di pace avviati tra le due parti hanno per ora risolto lo stallo che vedeva il rifiuto cinese di ritirarsi dalla zona di Gogra-Hot Springs, nel Ladakh orientale, visto che Delhi non voleva ridurre le proprie truppe nelle pianure di Depsang.
Un'ottima notizia, anche se non del tutto inaspettata. Secondo il generale indiano a riposo Vinod Bhatia, sentito da AsiaNews, “Un conflitto nell’Himalaya non era nell'interesse della Cina, perché Pechino è concentrata sulla competizione tra grandi potenze con gli Usa”. In ogni caso “Il dispiegamento a specchio dell'India ha per ora evitato un’escalation militare dopo gli scontri nella Valle di Galwan”. Secondo l’ex militare, ex direttore generale delle operazioni militari di Delhi, la “deterrenza” indiana ha avuto finora successo perché il suo Paese “È riuscito ad affrontare la Cina da una posizione di relativa forza e lo schieramento vicino al confine con la Cina del sistema di difesa aerea e missilistica S-400, acquistato dalla Russia, cambierà le carte in tavola e accrescerà la capacità dell’India di contrastare i blitz aerei cinesi”. Solo deterrenza o l'avvio di nuovi scenari geopolitici? Dal 18 al 31 ottobre truppe indiane e statunitensi condurranno esercitazioni nell’Uttarakhand, a meno di 100 km dal confine conteso tra Delhi e Pechino e lo scorso ottobre l’India ha testato con successo Agni-V, un missile balistico intercontinentale con capacità nucleare dalla gittata di oltre 5mila km e un alto grado di precisione. Il lancio avvenuto nel Golfo del Bengala ha dimostrato che Delhi può colpire quasi tutta la Cina continentale e ha fatto entrare l’India nel club ristretto delle nazioni armate con vettori intercontinentali composto da Stati Uniti, Cina, Russia, Francia e Gran Bretagna. Il dicastero indiano della Difesa ha sottolineato però che l’esperimento missilistico rientra nell’orientamento ufficiale dello Stato di avere una “deterrenza minima credibile” e ha ribadito la volontà di “non usare per prima ordigni nucleari", ma solo in risposta a un attacco. In ogni, caso secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), lo scorso anno Delhi ha aggiunto sei testate nucleari al proprio arsenale, raggiungendo i 156 ordigni, la Cina addirittura 30, arrivando a 320 bombe atomiche.
Appare chiaro che il test dell’Agni-V è stato anche un avviso per la Cina che un anno fa, in ottobre, attraverso il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, ha approvato il provvedimento che stabilisce che la sovranità e l’integrità territoriale della Cina sono “sacre e inviolabili”. Per gli indiani una presa di posizione contraria all’impegno cinese di trovare un accordo “giusto” e “reciprocamente accettabile” per risolvere i contrasti frontalieri in Himalaya; per i cinesi anche una risposta allo sviluppo di missili da crociera supersonici realizzati in collaborazione con la Russia. Come ha ricordato AsiaNews “Questi missili intercontinentali oltre a essere armi da poter impiegare in un possibile conflitto diretto con Pechino, interessano anche Vietnam, Filippine e Indonesia. I tre Paesi contestano le pretese territoriali di Pechino su quasi tutto il Mar Cinese meridionale. Negli ultimi anni la crescente militarizzazione della regione da parte della Cina ha portato a ripetuti incidenti con le marine di Hanoi, Manila e Jakarta”. Attualmente però ad ostacolare l’export di questi missili nei Paesi del sud-est asiatico non sono tanto gli equilibri geopolitici regionali, ma il rischio che l’India possa incorrere nelle sanzioni Usa del Countering America’s Adversaries Sanctions Act (Caatsa). Votato dal Congresso Usa nel 2017, può imporre misure punitive a quei Paesi che compiono “significative transazioni” militari con Mosca. Una posizione diventata intransigente dopo l’invasione Russa dell’Ucraina. E adesso? L'inaspettata "pace" tra India e Cina indica un probabile riposizionamento dell’India nello scenario internazionale. Sin dai tempi di Nehru e Mao Zedong i due Paesi sono stati avversari, ma ora il premier nazionalista indù Narendra Modi sta cambiando strategia. Probabilmente il lungo stato di semi-guerra con Pechino gli sembra meno importante della possibilità di isolare l’Occidente mediante il rafforzamento dell’Alleanza BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), strategia che già stanno mettendo in pratica Vladimir Putin e Xi Jinping.
Anche se la Federazione Indiana fa parte dell’alleanza informale “QUAD” (Dialogo quadrilaterale di sicurezza) assieme a Stati Uniti, Giappone e Australia, fondata nel 2017 per frenare l’espansionismo cinese nell’area dell’Indo-Pacifico, i rapporti non ottimali con Joe Biden (mentre erano buoni quelli con Donald Trump), e la diffusa percezione dell’attuale debolezza occidentale, spingono il premier indiano a battere altre strade. Così si spiega anche la partecipazione di un contingente di New Delhi alle manovre militari “Vostok 2022”, organizzate da Putin nell’Estremo Oriente russo con la partecipazione di truppe di Cina, Bielorussia, Algeria, Armenia e altri Paesi (tra cui una piccola rappresentanza della Corea del Nord). Se questa pace sia funzionale all'apertura di nuovi fronti lo capiremo solo nei prossimi mesi.
Alessandro Graziadei
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