Il monte Roraima è il più famoso dei numerosi “tepuis” che costellano la regione amazzonica della Gran Sabana. Si estende su tre stati: Venezuela, Brasile e Guyana, i confini dei quali si incontrano proprio sulla sua sommità. Un luogo incredibile che ho conosciuto per caso, una decina di anni fa, al Festival del Cinema di Montagna a Trento grazie alla pellicola di Philipp Manderla “Roraima – Climbing in the Lost World” che racconta, dopo un rito sciamanico di buon auspicio a base di misture allucinogene, l’avvicinamento e la salita ai 2.700 metri del Monte Roraima di Kurt Albert, Holger Heuber e il campione d'arrampicata sportiva Stefan Glowacz. Questo altopiano di roccia situato nel cuore della giungla più selvaggia, sacro ed inviolabile per molti indigeni locali, con pareti vertiginose e cascate d’acqua spettacolari, spesso avvolto in una coltre di nebbia impenetrabile tra piogge torrenziali, insetti di ogni ordine e temperature che raggiungono i 40 gradi, sembra uscito da un immaginario preistorico. Eppure ai piedi di questa montagna vivono da sempre popoli indigeni e all’interno del confine brasiliano, se fino agli anni Ottanta c’erano solo foreste e fiumi e un commissario inviato dal governo federale di Brasilia, ora c’è uno degli Stati federali di frontiera del Brasile che affronta sfide sociali enormi, come l’emigrazione dal Venezuela, la mentalità “produttivista” dei grandi coltivatori e allevatori dal Sud del Brasile in cerca di terre vergini da sfruttare e il “garimpo”, cioè la ricerca di oro sui fiumi utilizzando il mercurio che inquina e fa morire i pesci, elemento base nella catena alimentare degli indigeni. Tutte situazioni che si scontrano quotidianamente con i diritti e la cultura indigena di preservazione della foresta con il suo habitat, che è la loro comune casa.
Una sfida, quella dei diritti delle popolazioni indigeni minacciate e della tutela della biodiversità di quest’area di Amazzonia che è stata abbracciata anche dalla Chiesa. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, infatti, i monaci benedettini presenti in Roraima si schierarono da subito con gli indigeni e i piccoli coltivatori, mostrando che il gioco dei grandi fazendeiros, i proprietari terrieri che arrivavano da tutto il Brasile e che acquistavano le loro terre o semplicemente le occupavano per lavorarle, portava soltanto a nuove schiavitù. I benedettini hanno svolto un’opera sociale imponente in difesa dei loro diritti fondamentali e anche grazie a questi monaci si è arrivati alla determinazione delle terre indigene, l’unico baluardo contro il dilagare del latifondismo. Quella tradizione è stata raccolta dai padri della Consolata che oggi continuano la difesa di tutte le popolazioni in queste terre dove anche la Diocesi di Padova dal 2017 ha avviato un impegno missionario ai confini con il Venezuela e la Guyana inglese. In Brasile dal 1951, i missionari padovani non hanno dimenticato il sacrificio di don Ruggero Ruvoletto, fidei donum padovano ucciso barbaramente a Manaus nel settembre del 2009 proprio per il suo impegno per la causa indigena. La sua esperienza missionaria a Manaus ha aperto gli occhi e il cuore della Chiesa di Padova che ha accolto il grido dei popoli dell’Amazzonia e del Roraima in particolare, la cui Diocesi con i suoi 230mila chilometri quadrati di estensione, copre tutto il territorio dell’omonimo Stato brasiliano ancora immerso in un contesto di ingiustizie sociali e di sfruttamento ambientale quotidiano. Un dovere missionario ben ricordato nel 2020 anche nell’Esortazione Apostolica post-sinodale di Papa Francesco “Querida Amazonìa” le cui idee vengono da lontano, con il documento di Santarem del 1972, dove la Chiesa in Amazzonia si impegnava a fare decisi passi nella valorizzazione delle culture nelle quali si inseriva.
Nel 2022 Don Lucio Nicoletto missionario fidei donum della Diocesi di Padova e Vicario generale della Diocesi amazzonica ricordava che i diritti indigeni in Amazzonia sono ancora un problema enorme. “Bisogna pensare alle dimensioni dell’area, grande come l‘Europa, il senso di isolamento si tocca con mano. Ad esempio: la legge dice che quella terra è di una popolazione indigena, magari 20.000 indigeni sparsi su un territorio vasto come due provincie italiane. Nel frattempo un gruppo di fazendeiros mette gli occhi su una porzione di quella terra, “compra” i certificati di proprietà, ovvero li ottiene in maniera spesso illecita, complici apparati corrotti dell’amministrazione dello Stato. La occupa, disbosca, lucra sul legname tagliato e poi sull’allevamento o sulla produzione di soia. Nel frattempo la comunità indigena denuncia l’occupazione, ma chi dice che è occupazione se i proprietari sventolano certificati che ne comprovano la proprietà con tanto di timbri dello stato? Questo genera ancora oggi grandi conflitti in Amazzonia”. Lo scorso anno proprio in Roraima è almeno incominciata da parte dell’Agenzia brasiliana di Protezione Ambientale (Ibama) l’operazione contro i ricercatori d’oro, i cosiddetti “garimpeiros”, che agiscono illegalmente nella riserva indigena Yanomami dell’Amazzonia. Il principale obiettivo dell’operazione, tanto atteso dalle comunità indigene e avviata anche grazie alla collaborazione con il Dipartimento agli affari Indigeni (Funai) e le Forze nazionali di pubblica sicurezza, è la distruzione dei macchinari utilizzati nell’estrazione di minerali nel territorio degli indigeni. Come ha rivelato un recente rapporto della Hutukara Associação Yanomami, approfittando dell’emergenza Covid-19, l’estrazione illegale di oro nella riserva degli Yanomami non si è mai fermata dal 2019 e ha interessato più di 3.272 ettari di foresta dove i minatori hanno costruito aree illegali e siti estrattivi che a causa dell’utilizzo del mercurio sono dannosi per l’ambiente e in particolare per i fiumi e la pesca, centrale nell’economia locale.
Dai 15.000 ai 27.000 Yanomami hanno subito le conseguenze di questa “invasione”. Le comunità situate entro un raggio di 10 km dalle aree minerarie hanno subito violenze sessuali, stupri, omicidi, i giovani indigeni sono stati attratti dall’attività mineraria e i bambini yanomami muoiono di malnutrizione a un ritmo 191 volte superiore alla media brasiliana. “Sono stanco di sentire il pianto delle madri e dei padri Yanomami che hanno perduto i loro figli”, ha detto Davi Kopenawa Yanomami, noto leader e presidente dell’organizzazione Hutukara. Nel dicembre 2022, sorvolando il Roraima, i membri di Greenpeace Brasile e dell’Istituto Socioambiental (ISA) avevano individuato una strada illegale all’interno della riserva Yanomami, lunga 150 chilometri, oltre a quattro escavatori idraulici. “Quella strada è la strada per il caos. Trasformerà la terra indigena Yanomami in un vero e proprio inferno”, aveva dichiarato Danicley de Aguiar, attivista della campagna per l’Amazzonia di Greenpeace Brasile. “Un ennesimo attacco alle comunità indigene, e a chi cerca da oltre 50 anni di difendersi dagli invasori e dalle azioni illegali a lungo sostenute e difese dall’ex presidente Jair Bolsonaro”. Nel 2019 l’ex presidente brasiliano, infatti, si preoccupò di tagliare i finanziamenti alle agenzie federali responsabili della protezione ambientale e dei diritti degli indigeni, favorendo le occupazioni di circa 20.000 minatori illegali. “La morte dei nostri bambini non è colpa degli Yanomami. Noi Yanomami siamo esseri umani, ma Bolsonaro ha distrutto la nostra salute e la nostra terra. Un crimine che si sta verificando nella nostra comune casa. Oltre a urgenti cure sanitarie, la cosa di cui abbiamo più bisogno è la protezione permanente e totale della nostra terra, in particolare nelle aree di frontiera dove vivono i Moxihatetea. Ciò che è accaduto non deve ripetersi mai più” ha detto Kopenawa.
Un segnale importante in questa direzione è arrivato dal neopresidente Luiz Inácio Lula da Silva. Lula che ha istituito il Ministero per le popolazioni indigene diretto dall’attivista Sonia Guajajara a pochi giorni dal suo insediamento nel gennaio 2023, aveva dichiarato che “Più che una crisi umanitaria, quello che ho visto in Roraima è stato un genocidio. Un crimine premeditato contro gli Yanomami, commesso da un Governo insensibile alle sofferenze del popolo brasiliano”. L’operazione avviata dell’Agenzia brasiliana di Protezione Ambientale contro i ricercatori d’oro è la conseguenza di queste parole. Adesso, secondo Sarah Shenker, direttrice in Brasile di Survival International “Oltre a espellere i minatori, serve un massiccio intervento sanitario per contrastare la crisi. Per smantellare e consegnare alla giustizia le bande criminali che occupano l’area e hanno sparso il terrore nel territorio degli Yanomami, occorrerà una reale volontà politica. Questa operazione arriva appena in tempo. È vitale che le autorità caccino i minatori e li tengano fuori per sempre. Per troppo tempo hanno flagellato le vite degli Yanomami provocando miseria e distruzione indicibili. Anche se verranno espulsi e tenuti lontani, ci vorranno molti anni prima che gli Yanomami e la loro foresta si possano riprendere”.
Non sarà facile però, perché il 14 dicembre scorso, con 321 deputati contrari e 137 favorevoli e 53 senatori contrari e 19 favorevoli, il Congresso Nacional del Brasile ha bocciato parte dei veti del presidente Lula sul disegno di legge 2903, ora legge 14.701/2023, trasformando così in legge la famigerata proposta di Marco Temporal della destra riunita nella Bancada ruralista e approvando quelli che l’Articulação dos Povos Indígenas do Brasil (Apib) definisce «Altri crimini contro le popolazioni indigene». Per la Direttrice generale di Survival International, Caroline Pearce, questa legge, che stabilisce come il diritto di usufrutto esclusivo non possa prevalere sugli interessi della politica di difesa nazionale e di sovranità, "Fa a pezzi molte delle protezioni legali sulle terre indigene garantite dalla Costituzione, e le butta nella spazzatura. Dà a grandi aziende e bande criminali che stanno dietro la maggior parte della deforestazione e delle attività minerarie in Brasile ancora più libertà di invadere i territori indigeni e di farvi ciò che vogliono. Segna la rovina di gran parte dell’Amazzonia e di tutte le foreste del Brasile". Per molti leader indigeni questo "Potrebbe aprire la porta alla violazione del godimento esclusivo dei popoli indigeni con il pretesto dell’“interesse della politica di difesa”. La legge, tuttavia, presenta difetti di incostituzionalità e questo potrebbe farla arenare prima che possa compromettere la “Querida Amazonìa” e i suoi popoli.
Alessandro Graziadei
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