sabato 6 agosto 2016

Quanto "costa" la biodiversità?

Quanto "costa" la biodiveristà, o meglio quanto "paga"? Possiamo dare un prezzo ai depositi di minerali o alle riserve di combustibili fossili e non darne uno a fiumi, foreste o popolazioni ittiche? Due anni fa uno dei padri della moderna “economia ecologica”, Robert Costanza dell’Australian National University, guidò un team di ricercatori internazionali nella redazione dello studio “Changes in the global value of ecosystem services” che stimò il valore dei “servizi ecosistemici” del Pianeta in 142 trilioni di dollari l’anno. Lo studio, pubblicato sul Global Environmental Change, sottolineava che la valutazione dei servizi ecosistemici non equivale alla loro mercificazione: “Molti servizi ecologici è meglio considerarli beni pubblici o come un pool di risorse comuni” che vanno dalla produzione alimentare alla protezione dalle mareggiate, dalla depurazione delle acque alla prevenzione dell’erosione del suolo o allo stoccaggio di CO2. Senza questi servizi ecosistemici la civiltà umana non funzionerebbe o funzionerebbe peggio, ma è difficile dar loro un prezzo e quindi gli ecoservizi restano in gran parte invisibili e sottovalutati dai mercati e dalla politica anche se il loro contributo al benessere umano è di circa due volte quello del Pil mondiale (circa 71,8 trilioni di dollari).

Per quanto lo studio non sia stato esente da critiche, sicuramente ha segnato un nuovo modo di guardare al nostro patrimonio naturale permettendoci di sapere il “costo” degli "stock naturali", anche se l’ampiezza delle misurazioni suggerisce che il Pil è in realtà un indicatore non sempre adeguato per descrivere la sostenibilità e il benessere di una società che perde la propria biodiversità. Al momento, come ci ricorda il Global Footprint Network, una sola cosa è certa: “la società umana vive in uno stato di overshoot ecologico già dagli anni ’70, perché ogni anno consumiamo e inquiniamo più capitale naturale e biodiversità di quanto l’ecologia globale possa ricostruirne naturalmente in un anno”.  Quindi se il capitale naturale è in declino, lo è anche il flusso di servizi ecosistemici che ci fornisceQuest'anno per esempio l’Overshoot Day, il giorno del sovrasfruttamento calcolato dal Global Footprint Network, cadrà l'8 agosto, in anticipo di 5 giorni rispetto al 13 agosto dello scorso anno. 

Fuori dalla metafora economica lo studio “Has land use pushed terrestrial biodiversity beyond the planetary boundary? A global assessment”, pubblicato in questi giorni su Science da un team internazionale di ricercatori, guidati da Tim Newbold dell’University college di Londra, ci chiarisce meglio le conseguenze: “I politici si preoccupano molto delle recessioni economiche, ma la recessione ecologica potrebbe avere conseguenze ancora peggiori, e il danno alla biodiversità che abbiamo subito aumenta il rischio che ciò accada - ha commentato Newbold - fino a quando non saremo in grado di invertire il trend, giocheremo a una roulette ecologica”. Per gli studiosi la perdita di biodiversità non più entro il limite di sicurezza suggerito dagli ecologisti: “i più grandi cambiamenti sono avvenuti in quei luoghi dove la maggior parte delle persone vive e questo potrebbe influenzare il loro benessere fisico e psicologico. Per farvi fronte, dovremmo preservare le restanti aree di vegetazione naturale e rigenerare i territori utilizzati dagli umani”. 

Lo studio in particolare ha analizzato i dati relativi a 39.123 specie e 18.659 luoghi sulla Terra raccolti all’interno del Predicts project, osservando che “nel 58,1% della superficie terrestre, dove vive il 71,4% dell’umanità, la perdita di biodiversità è tale da compromettere già la capacità degli ecosistemi di sostenere le società umane”. “Sappiamo che la perdita di biodiversità interessa la funzionalità dell’ecosistema, ma come questo avvenga non è del tutto chiaro – ha ammesso Newbold –. Quello che sappiamo è che in molte parti del mondo ci stiamo avvicinando ad una situazione in cui potrebbe essere necessario l’intervento umano per sostenere la funzionalità dell’ecosistema”. Senza questo intervento potrebbe non essere più possibile godere di un ambiente confortevole e predisposto alla vita.

Che fare? Per ora siamo ben lontani dall’individuare un punto di equilibrio verso uno sviluppo sostenibile, ma far finta che il problema non esista non farà che allontanare la soluzione. Ecco se proprio dobbiamo contabilizzare la natura leggendo queste informazioni come un rapporto finanziario annuale sul Pianeta terra non possiamo non accorgerci che stiamo buttando il valore e la vivibilità dei nostri beni comuni più importanti e non sorprende che, la politica asservita all’attuale sistema economico, senza un paragone monetizzabile, non si renda conto di distruggere ogni giorno un valore cruciale per il benessere mondiale. “Questa dinamica somiglia al vendere stock option dal proprio portafoglio di investimenti più velocemente di quanto si accumulino gli interessi, alla fine il valore del portafoglio decade” ha concluso Costanza.

Come mai? Come ha scritto anche il Climate Progressuno dei motivi centrali per il quale le economie umane continuano a emettere massicce quantità di anidride carbonica, nonostante l’incombente minaccia del cambiamento climatico, è che non c’è alcun costo per  tali emissioni. Gli accordi di Kyoto, l'ultimo di Parigi o il Social cost of carbon (Scc) "sono stati un tentativo di mettere un cartellino del prezzo su queste emissioni: dice ai policymakers quali costi si dovrebbero imporre agli emettitori quando si progettano un sistema di cap-and-trade, una carbon tax o norme ambientali simili”. Ecco perché studi come quello dell’Australian National University che cercano di rendere il valore degli ecosistemi naturali visibile anche ai mercati sono importanti e servono a ricordareci che se il capitale naturale può ricostituirsi nel tempo, e non sempre è vero, a volte può essere consumato troppo in fretta e bisognerebbe urgentemente prenderne atto. 

Alessandro Graziadei

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