sabato 24 novembre 2012

Turchia e diritti: Mavi Marmara vs minoranza curda


La coerenza non è mai facile, quando i soggetti sono gli Stati e l’argomento i diritti allora la situazione si complica. La Turchia non fa eccezione e nonostante le dichiarazioni del premier turco, che in questi giorni ha accusato lo Stato ebraico di compiere una vera e propria pulizia etnica a Gaza, Recep Tayyip Erdogan raramente parla di quella che ha colpito i curdi in Turchia. Capita così di leggere che il 9 novembre si è finalmente conclusa la prima fase del processo penale a carico di quattro alti comandanti militari israeliani per l’assalto, occorso il 31 maggio 2010 in acque internazionali, alla nave turca Mavi Marmara in cui furono uccisi dalle forze speciali israeliane 9 civili di nazionalità turca e pensare alla vittoria della giustizia turca sulle armi e la violenza. Ma durante la stessa settimana è stato possibile ascoltare le dichiarazioni, dati alla mano, dell’Associazione per i Diritti Umani (Ihd) che denuncia come nei primi 9 mesi del 2012 in Turchia si sarebbero registrate ben 26.939 violazioni dei diritti umani e un aumento esponenziale di decessi nelle aree a maggioranza curda e dover questa volta pensare alla sconfitta della giustizia turca sulle armi e sulla violenza.
Ma andiamo con ordine e iniziamo dalla buona notizia. Nel maggio scorso un pubblico ministero turco presso la VII Alta Corte Penale Çağlayan Courthouse di Istanbul ha incriminato quattro ex alti ufficiali dell’esercito di Gerusalemme, con l’accusa di “istigazione all’omicidio, mediante crudeltà o torture” per l’aggressione all’imbarcazione che nel 2010 trasportava attivisti e aiuti umanitari diretti a Gaza, con l’obiettivo di forzare il blocco imposto dal governo israeliano e portare sostegno alla popolazione palestinese della Striscia stremata dall’embargo (e appena uscita da un attacco militare). Gli imputati, giudicati in contumacia e difesi da due legali d’ufficio perché decisi a non comparire in aula, sono il generale Gabi Ashkenazi, l’ex capo della marina vice-ammiraglio Eliezer Marom, l’ex capo dell’intelligence Amos Yadlin e l’ex capo dell'aeronautica Avishai Lev. Se per Israele il commando ha agito per legittima difesa, dopo essere stato attaccato dagli attivisti turchi a bordo della nave ed ha bollato il processo come un “atto politico unilaterale, privo di qualsiasi credibilità giudiziaria” un'inchiesta delle Nazioni Unite già nel 2011 ha stabilito che anche se i corpi speciali israeliani hanno incontrato “una opposizione significativa e organizzata” al momento di salire a bordo della nave, l’ordine di assaltare le imbarcazioni e l’uso sostanziale della forza sono stati “eccessivi e irragionevoli”.
Inoltre, ha spiegato Davide Tundo, dottorando in Diritti Umani, Giustizia Internazionale e Democrazia dell’Università di Valencia (Spagna) e collaboratore del Palestinian Centre for Human Rights di Gaza (Pchr-Gaza) “la Mavi Marmara venne poi dirottata dai militari israeliani verso il porto israeliano di Ashdod e i civili che vi erano imbarcati vennero espulsi dopo un periodo di detenzione privi della dovuta assistenza legale e consolare, anche durante gli interrogatori a cui vennero sottoposti. Diversi sono stati i casi di trattamento disumano e degradante, sofferto in custodia dai civili e successivamente denunciato alle autorità turche”.
In attesa di conoscere gli sviluppi del processo che, dopo questa prima fase di raccolta e verifica delle testimonianze, ripartirà il prossimo 21 febbraio 2013 con un “lungo iter prevedibilmente affiancato da intromissioni politiche improprie - ha continuato Tundo - è importante sottolineare una prima vittoria del diritto: aver portato sotto accusa in un aula di tribunale e all'attenzione dell'opinione pubblica i metodi repressivi e le violazioni dei diritti umani perpetrate dall’apparato istituzionale israeliano in relazione al conflitto israelo-palestinese” senza contare gli scenari che si aprirebbero dinanzi la possibile emissione in futuro di un ordine di cattura per i quattro imputati.
Ma c’è l’altra faccia della medaglia che arriva dall’Associazione per i Diritti Umani (Ihd) e da Amnesty International: la Turchia non è la patria del diritto. Le associazioni umanitarie hanno denunciato l’aumento del numero di violazioni dei diritti umani nelle aree curde dove “Non si è registrato nessun progresso nella prevenzione dei casi di tortura e di maltrattamento così come nella rimozione degli ostacoli alla libertà di pensiero e di espressione” ha dichiarato il segretario di Ihd-Dyarbakir Raci Bilici. Per Bilici il Paese è stato trascinato nel caos quest’anno a causa delle politiche del governo che hanno aumentato gli scontri, mentre ci si aspettava una risoluzione del problema curdo per vie democratiche. Così solo nei primi 9 mesi del 2012, “3.177 persone sono state messe in custodia e 1.162 arrestate, sono 35 i civili uccisi, 665 i casi di tortura, 634 le pubblicazioni vietate, 12 i villaggi evacuati e dati alle fiamme e decine i partiti, sindacati, associazioni e istituzioni culturali chiusi o oggetto di attacchi.
“Il governo - ha proseguito Bilici - non ha presentato alcun piano concreto per fermare questo spargimento di sangue, nonostante tutti gli inviti provenienti della società civile. Le autorità hanno invece imposto l’isolamento del leader del PKK Abdullah Öcalan, in violazione dei diritti umani”. Il miglioramento delle condizioni di Öcalan, in isolamento da 14 mesi, è una delle richieste principali dei quasi 700 detenuti in 66 diverse carceri sparse per la Turchia in sciopero della fame a tempo indeterminato dal 12 settembre scorso. Non tutti gli scioperanti sono membri del PKK, il partito della guerriglia attivo sulle montagne dell'Anatolia; moltissimi sono deputati, sindaci, amministratori e militanti del Partito per la Pace e la Democrazia (BDP) che può contare su un consistente numero di eletti nel parlamento di Ankara e nelle istituzioni locali. Allo sciopero della fame si sono affiancate le violente proteste di piazza delle scorse settimane in supporto dei prigionieri e delle loro rivendicazioni che adesso non riguardano solo il “genocidio politico” perpetrato contro il popolo curdo, ma anche la possibilità di studiare e di parlare nella loro lingua madre.
Preoccupazione per gli scioperanti è stata espressa il 6 novembre anche dalla Human Rights Joint Platform IHOP piattaforma indipendente di associazioni per i diritti umani, con una dichiarazione congiunta in cui esortano le autorità ad agire per proteggere il diritto alla vita dei detenuti in sciopero della fame, le cui condizioni di salute stanno rapidamente degenerando. Alcuni avvocati hanno denunciato ad Amnesty International che i loro clienti si sono visti negare anche l’accesso alle cure mediche. Secondo il co-presidente del BDP, Selahattin Demirtaş, questa protesta potrebbe rappresentare un'occasione importante per la pace e il dialogo se le richieste degli scioperanti venissero evidenziate e discusse. Al contrario, se questo episodio dovesse finire in tragedia e i detenuti dovessero perdere la vita, la fiducia del popolo curdo verso il governo potrebbe venire compromessa definitivamente.
Alessandro Graziadei

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