L’Associazione per i Popoli Minacciati (Apm) ha denunciato la creazione di un ghetto nella città birmana di Sittwe, nello stato federale del Rakhine, in cui sono di fatto rinchiuse da alcune settimane 4.300 persone appartenenti alla minoranza mussulmana dei Rohingya. “Negli scorsi giorni la polizia e le forze di sicurezza birmane hanno definitivamente isolato il quartiere di Aungmingla costruendo una palizzata di bambù e bastoni. I Rohingya, di fede musulmana, che da decenni vivono nel quartiere, non possono più uscire, non possono accettare lavori in altri distretti né ricevere visite” ha spiegato l’associazione che dal 2008 da voce alle popolazioni vittime di violazioni dei diritti umani. Ora l’unico modo per entrare nel quartiere sembra essere quello di corrompere gli agenti di guardia. Altrimenti per il momento “Due volte in settimana sei persone possono lasciare il ghetto in compagnia degli agenti di sicurezza per andare a fare provviste per l'intera comunità mentre l'assistenza medica viene fornita da Medici Senza Frontiere che possono entrare nel ghetto tre volte in settimana. Le visite però non bastano e non vi è alcuna assistenza per le emergenze” ha aggiunto l’Apm.
Il conflitto etnico e religioso in quest’area ha radici lontane. Anche se molte famiglie Rohingya hanno vissuto per generazioni in Birmania e potrebbero rientrare a pieno titolo nelle minoranze etniche del Paese, il governo li considera da sempre alla stregua di immigrati clandestini del Bangladesh. Già a partire dagli anni ‘40 del secolo scorso con l’indipendenza della Birmania i Rohingya sono stati ripetutamente vittime di grandi operazioni militari che hanno distrutto i loro villaggi e causato innumerevoli morti. Con la legge sulla cittadinanza del 1982 che non riconosce i Rohingya come uno dei 135 gruppi etnici del Paese, i Rohingya hanno definitivamente perso il diritto alla cittadinanza e con esso ogni diritto civile.
Se in passato la giunta militare al governo era molto attenta a non far trapelare la gravità di queste notizie, adesso il lento processo democratico intrapreso dalla Birmania aiuta l’informazione, ma non è riuscito, o non ha voluto sedare la violenza che è tornata ad esplodere a fine maggio del 2012 (quando una donna buddista è stata violentata e uccisa da tre uomini di fede mussulmana) nel Rakhine, uno snodo molto importante per il commercio perché punto di origine di un oleodotto e gasdotto costruito dalla Cina, che porta energia fino allo Yunnan. Da quel momento i delicati rapporti tra la minoranza musulmana, circa 800.000 persone (il 4% della popolazione locale), e la maggioranza buddista sono degenerati e ora si è quasi perso il conto delle ritorsioni e tra le due comunità.
Se in passato la giunta militare al governo era molto attenta a non far trapelare la gravità di queste notizie, adesso il lento processo democratico intrapreso dalla Birmania aiuta l’informazione, ma non è riuscito, o non ha voluto sedare la violenza che è tornata ad esplodere a fine maggio del 2012 (quando una donna buddista è stata violentata e uccisa da tre uomini di fede mussulmana) nel Rakhine, uno snodo molto importante per il commercio perché punto di origine di un oleodotto e gasdotto costruito dalla Cina, che porta energia fino allo Yunnan. Da quel momento i delicati rapporti tra la minoranza musulmana, circa 800.000 persone (il 4% della popolazione locale), e la maggioranza buddista sono degenerati e ora si è quasi perso il conto delle ritorsioni e tra le due comunità.
Secondo i resoconti di alcuni testimoni oculari, ripresi dall’Apm lo scorso 14 gennaio, forze dell’ordine birmane e gruppi di buddisti estremisti avrebbero attaccato il villaggio di Du Chee Yar Tan nel distretto di Maungdaw dello stato federale di Arakan uccidendo 60 persone e mettendo in fuga la maggior parte dei 4.000 abitanti del villaggio. Le autorità birmane negano l’aggressione al villaggio rohingya, ma allo stesso tempo negano a osservatori internazionali e a persone appartenenti alla minoranza mussulmana l’accesso al villaggio.Nel distretto di Maungdaw le tensioni tra la maggioranza buddista e la minoranza Rohingya sono aumentate in modo massiccio nel 2014 in seguito all'arrivo lo scorso dicembre di monaci buddisti appartenenti al movimento estremista “969”. “Al loro arrivo - si legge in un comunicato stampa dell’Apm - i monaci hanno cominciato a passare di villaggio in villaggio invitando la gente attraverso altoparlanti a isolare i Rohingya e a cacciarli dai villaggi”. Il movimento 969 con il suo leader Aishin Wirathu è noto per la sua propaganda di odio contro la popolazione di fede islamica del Myanmar ed è arrivato a chiedere al Governo una legge che proibisca alle donne buddiste di sposare uomini non-buddisti senza uno speciale permesso delle autorità locali.
Ora anche se le autorità birmane hanno giustificato la creazione del ghetto con “motivi di sicurezza e di protezione dei Rohingya”, per l’Apm “la presunta salvaguardia dei Rohingya è un’evidente menzogna visto che le autorità non hanno avviato alcun processo di pacificazione tra i gruppi etnici dei Rakhine buddisti e dei Rohingya musulmani”. Nonostante la tanto declamata volontà di porre fine alle tensioni religiose, il governo del Myanmar continua di fatto a impedire l’accesso nelle regioni in conflitto a diplomatici stranieri, agli ispettori delle Nazioni Unite, ad attivisti per i diritti umani e alle organizzazioni umanitarie. Per questo l’Apm teme che la creazione del ghetto, “che costituisce una gravissima violazione dei diritti umani dei Rohingya, ne impedisce la libertà di movimento e mette a rischio la loro salute”, sia piuttosto un primo passo verso la deportazione dei Rohingya dal quartiere in cui vivono ai campi profughi allestiti fuori dalla città di Sittwe, una strategia parte di una politica più ampia che mira all’allontanamento forzato dei Rohingya dal Paese.
Per scongiurare questo nuovo apartheid l’Apm ha in questi giorni chiesto alle autorità birmane e alla Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi di “prendere una chiara posizione a favore del rispetto dei diritti umani così come sanciti dalla Convenzione dei Diritti Umani di Ginevra”. Al Governo birmano l’Apm chiede inoltre di rispettare la Convenzione internazionale sui Diritti dell’Infanzia, firmata e ratificata dal Governo bimano, secondo la quale nessun bambino può essere discriminato e svantaggiato in base alla sua fede o quella dei suoi genitori e di eliminare immediatamente le barriere che creano il ghetto in cui vengono trattenuti i Rohingya. Ora occorre pensare anche a livello internazionale a come tutelare quella che l’Onu ha più volte definito “la minoranza più perseguitata al mondo” tramite “reali e concrete politiche di pacificazione e di rispetto dei diritti”, mentre 800.000 persone, intanto, aspettano di tornare ad essere cittadini birmani.
Alessandro Graziadei
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