Il processo funziona così: per abbattere i costi e incrementare i profitti le imprese delocalizzano le loro produzioni in Paesi in via di sviluppo dove è possibile concedere salari da fame in assenza di diritti e organizzazioni sindacali. Il settore dell’abbigliamento è stato tra i più “lungimiranti” in questo campo e il made in Cina o in Bangladesh, come quello in Romania o Moldavia ne sono un esempio lampante, al pari delle conseguenze, come nel caso del crollo del Rana Plaza a Dhaka, in Bangladesh dove il 24 aprile 2013 oltre 900 lavoratori tessili sono morti e più di mille sono rimasti feriti dopo che un edificio di 9 piani è crollato intrappolandoli sotto tonnellate di macerie e macchinari. Alla base della tragedia le condizioni delle strutture, l’assenza delle più elementari norme di sicurezza e la totale non curanza per i diritti dei lavoratori.
La situazione, da allora, non sembra essere migliorata e secondo il rapporto Tessuti difettosi (.pdf) uscito il 28 ottobre scorso grazie al Centro di Ricerca sulle Imprese Multinazionali (SOMO) e il Comitato Indiano dei Paesi Bassi (ICN), due organizzazioni non governative olandesi, si capisce che ancora oggi le lavoratrici del distretto tessile indiano nel Tamil Nadu (simile a molti altri distretti del tessile sparsi per il mondo) sono ancora sottoposte a condizioni di lavoro spaventose paragonabili al lavoro forzato. Utilizzatori finali dei prodotti? Come sempre molte imprese occidentali e anche se negli ultimi anni alcuni marchi e grossisti di abbigliamento che acquistano tessuti nel sud - est asiatico hanno attivato controlli e azioni correttive sulle imprese di primo livello, con cui hanno rapporti diretti, sono ancora rari gli acquirenti che spingono la propria attività di controllo sulle aziende di secondo livello.
Problemi dei Paesi in via di sviluppo, quindi, lontani, esotici, per lavoratori spesso minorenni di qualche “periferia del mondo” impegnati a cucire e incollare per il nostro mercato semi-globale? Non proprio, almeno stando a quanto ci racconta il nuovo Report sulla situazione del settore tessile e calzaturiero italiano redatto attraverso una ricerca realizzata in tre regioni italiane: Veneto, Toscana, Campania dove si concentrano i principali distretti del settore (l’abbigliamento a Prato, la pelletteria a Firenze, le calzature a Riviera del Brenta e il sistema moda nella provincia di Napoli). Presentato dalla Campagna dalla Campagna Abiti Puliti il 23 gennaio scorso “Quanto è vivibile l’abbigliamento in Italia” (.pdf) racconta come la costruzione della filiera, anche nel Belpaese, si basa sull’idea che è sempre possibile trovare manodopera a bassi salari da sfruttare a proprio vantaggio mentre una massa crescente di altri lavoratori sempre più impoveriti è obbligata a comprare vestiti e calzature a basso costo, ma di pessima qualità.
Come? Per la Campagna “dopo avere messo in ginocchio i piccoli produttori italiani, esportando la loro produzione in Romania, Moldavia, o perfino Cina, ora qualche grande marca sta tornando in Italia a godersi i risultati che essi stessi hanno prodotto negli anni scorsi”. Succede ad esempio a Riviera del Brenta, area a cavallo tra le province di Padova e Venezia, dove si producono calzature femminili. “Dopo un ventennio di delocalizzazioni di piccoli e medi imprenditori contoterzisti, che se volevano lavorare se ne andavano in Romania o chiudevano, oggi giganti come Luis Vuitton, Armani, Prada, Dior, sono tornati per comprarsi degli stabilimenti o aprirne di nuovi. E mentre Prada ha acquistato la Giorgio Moretto, Louis Vuitton ha aperto un nuovo stabilimento a Fiesso d'Artico”.
Fin qui tutto bene! Riaprono le fabbriche aumentano i posti di lavoro. A Fiesso d’Artico per esempio ci lavorano 360 persone fra cui molti artigiani che svolgono attività di studio e progettazione per l’intera gamma di calzature Louis Vuitton. Dallo stabilimento escono ogni anno ottocentomila paia di calzature di tutti i tipi. Stivali, mocassini, calzature da sera, sportive e ballerine. Tuttavia si legge nel Report “la filiera produttiva dei grandi marchi che rilocalizzano in Italia risulta composta da un’ampia rete di subfornitori medi e grandi, che a loro volta subappaltano fasi di lavoro a piccole imprese artigianali”. Le condizioni di lavoro cambiano a seconda del posto occupato dall’impresa nella filiera globale di produzione. Ma queste catene del lavoro sono difficili da riscostruire, anche perché i marchi non sono disponibili a pubblicizzare i nomi dei loro fornitori.
Secondo la ricerca i salari migliori si trovano fra i lavoratori alle dirette dipendenze dei grandi marchi, qui i lavoratori sono più organizzati e solitamente riescono a ottenere l’applicazione dei contratti collettivi e premi di produzione a livello aziendale. Ovviamente non mancano le eccezioni. “Dalle testimonianze raccolte - si legge sul Report - Prada pare sia la griffe con rapporti sindacali più difficili e condizioni di lavoro più critiche. D’altra parte, Prada è l’unica delle grandi case del lusso nella Riviera del Brenta che pur producendo calzature applica il contratto collettivo del cuoio. E non a caso, perché il contratto del cuoio è peggiorativo rispetto a quello calzaturiero per quanto riguarda sia le paghe sia gli aspetti normativi”. Ma non c’è limite al peggio se in ballo c’è il profitto. Così, più si scende nella filiera, più magri sono i salari e peggiori le condizioni di lavoro, fino a potersi imbattere nel lavoro nero, che ovviamente sfugge alle grandi griffe solo perché, come accade nei Paesi in via di sviluppo, "loro il rapporto lo tengono solo col primo anello della subfornitura".
La ricerca ha appurato che per tutti, italiani e non che provengono dalle classi meno abbienti e con scarsi livelli di istruzione, le condizioni di partenza in questo settore sono le stesse. I salari dei lavoratori nei livelli contrattuali più bassi, cioè la stragrande maggioranza, quando va bene, “non vanno oltre i 1100-1200 euro netti al mese, che secondo un calcolo dell’Istat, nel Nord Italia non bastano per tirare avanti una famiglia di quattro persone neanche se si abita in campagna”. Ma c’è anche chi si ritrova chino sulle macchine da cucire fino a diciassette ore, per una paga tra i due-tre euro all’ora. Quaranta euro totali, senza buste paghe o contributi. Per mangiare e dormire il problema è stato risolto costruendo nel capannone dei loculi-alloggi in cartongesso, come nel distretto della moda a Prato dove il 1 dicembre 2013 morirono 7 cinesi in un incendio.
Una situazione che la stessa Campagna definisce “post-occidentalizzazione" riferendosi alle condizioni di lavoro prima riscontrabili nell’Europa dell’Est e nel lontano Oriente e ora visibili anche nel Vecchio Continente: "la dimostrazione che dopo la lunga discesa verso il fondo ora è tempo di risalire, prima che sia troppo tardi”. Per invertire la rotta la Campagna Abiti Puliti chiede poche semplici mosse: richiamare le imprese italiane alla responsabilità per rispettare i diritti umani, pagare un salario dignitoso e rafforzare l’attività dell’Ispettorato del lavoro e dei sindacati, per aumentare la capacità di controllo e favorire l’emersione del lavoro illegale. A noi rimane la possibilità di scegliere come vestirci e da chi comprare (le alternative etiche ci sono), perché mai come adesso l’abito fa il monaco, anche in Italia!
Alessandro Graziadei
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