Marzo normalmente è un mese particolarmente difficile per la diaspora tibetana e per i cittadini tibetani. Si commemorano le numerose insurrezioni represse nel sangue dall’esercito di Pechino. Il primo anniversario risale all’invasione maoista del 1957, quando scoppiò una rivolta nel Tibet orientale che si estese a Lhasa nel 1959. Nello stesso anno l’Esercito di liberazione popolare cinese schiacciò la rivolta e costrinse il Dalai Lama alla fuga. Il 17 marzo il leader buddista lasciò il Palazzo del Norbulingka travestito da soldato e scappò in India dove costituì il Governo tibetano in esilio. Sempre in marzo, sia nel 1988 che nel 1989, centinaia di persone si sollevarono per ricordare i 30 anni dalla repressione maoista. I rivoltosi vennero duramente repressi dall’allora Segretario locale del Partito, Hu Jintao, che in seguito divenne presidente della Repubblica popolare. L’ultima grande sollevazione risale al marzo 2008. Per la prima volta dalla rivolta di 20 anni prima, in occasione delle Olimpiadi di Pechino, dai monasteri di Lhasa uscirono 400 religiosi per sfilare in corteo e chiedere il rilascio di un gruppo di religiosi e laici arrestati e il rientro del Dalai Lama in patria. Anche in questa occasione il Governo cinese ha reagito con la violenza e ad oggi è ancora ignoto il numero ufficiale delle vittime e degli arresti.
Oggi il governo cinese usa ogni mezzo, compresa la diplomazia, per evitare problemi con i tibetani. Liu Guangyuan, direttore generale del Dipartimento per la sicurezza estera, ha visitato il Nepal per chiedere un impegno diretto di Kathmandu contro possibili manifestazioni anti-cinesi e Jhabindra Aryal, alto funzionario nepalese, lo ha in queste settimane rassicurato: “Lavoriamo per migliorare la cooperazione nell’interesse comune. Il Nepal sostiene la politica dell’unica Cina e non permetterà che il suo suolo sia usato contro i nostri vicini”. Così negli ultimi anni, davanti alle repressioni e alla completa chiusura istituzionale del Governo cinese, molti monaci tibetani hanno scelto di darsi fuoco per protestare contro l’occupazione del Tibet e chiedere il ritorno a casa del Dalai Lama. La disperazione è troppa: o si uccide o ci si uccide. I monaci per rispetto preferiscono la seconda, la cosiddetta “self immolation” che dal 2009 ad oggi conta 145 persone che si sono bruciate vive per la causa del Tibet.
Gli ultimi in ordine di tempo, il 29 febbraio scorso, sono stati il monaco buddista tibetano Kalsang Wangdu e un ragazzo di appena 16 anni, Dorjee Tsering, che hanno deciso di darsi fuoco per “fare qualcosa” per la causa del Tibet. Mentre Kalsang è morto mentre veniva portato in ospedale, Dorjee è morto dopo tre giorni di atroci sofferenze. Da un ospedale di Delhi, dove era stato ricoverato dopo la protesta, è stato trasportato a Dharamsala per i funerali. Anche se Pechino accusa il leader religioso di fomentare questi atti “per il suo tornaconto personale”, il Dalai Lama ha più volte invitato i suoi seguaci a non sacrificare la propria vita, ma a “trovare altre forme di protesta” e alla voce del Lama si è aggiunta anche quella di Nyima Yangkyi la madre di Dorjee. Ai funerali, che si sono svolti a Dharamsala, la donna si è appellata ai giovani presenti: “Ascoltate davvero il nostro leader spirituale, ascoltate i suoi desideri. Abbiate buone intenzioni e rimanete in vita”. “Avete molti modi per servire il vostro Paese e il Dalai Lama, nostro grande leader spirituale. Dovete studiare, dovete lavorare per la nostra patria. Ma non auto-immolatevi! Mi appello a tutti voi: rimanete vivi". Ha poi concluso ricordando ai ragazzi presenti: "Sono una semplice casalinga e non so molto del mondo, ma era per me importante dirvelo”.
Anche Tenzing Jigme, il presidente del Tibetan Youth Congress, si è unito all’appello della donna: “La morte di Dorjee Tsering rappresenta un sacrificio incommensurabile. È molto difficile dire alle persone cosa fare e cosa non fare, in modo particolare a coloro che vivono dentro il Tibet e subiscono repressioni giornaliere. Tuttavia, chiedo anche io ai giovani di considerare altri modi per contribuire alla causa del Tibet. Le vostre vite sono preziose”. In passato anche la scrittrice e poetessa tibetana “Tsering Woeser” (Invisibile Tibet), che nel marzo del 2013 aveva ricevuto il Premio Internazionale delle Donne di Coraggio ha fatto appello agli attivisti che si battono per la libertà del Tibet affinché smettano di compiere gesti di autoimmolazione. Per la scrittrice, che di fatto vive agli arresti domiciliari, in Cina, a Pechino, “i tibetani possono sfidare l’oppressione solo restando vivi come chiesto dal Dalai Lama, che ha più volte affermato di non aver mai appoggiato l'immolazione per la causa tibetana”.
Intanto, ad oggi, è difficile pensare ad una soluzione da parte del Governo della Repubblica Popolare Cinese, anche se il Tibet non rappresenta un problema costituzionale o istituzionale, ma esclusivamente politico. Con l’articolo 31 della sua Costituzione, la Cina, infatti, ha previsto per Hong Kong e Macau una distinta configurazione istituzionale denominata “un paese e due sistemi” che potrebbe essere utilizzata anche per il Tibet. “Si tratta di un approccio politico pragmatico che tiene conto degli interessi sia dei tibetani, sia dei cinesi” ha spiegato Jigme. Tuttavia, per il momento quando si tratta di Tibet, la leadership cinese non tiene conto né delle normative già contemplate nella sua costituzione, né ha mai mostrato la volontà politica di risolvere pacificamente la questione.
Alessandro Graziadei
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