Nel mondo ci sono sei continenti. Per chi se lo chiedesse, il sesto è un’enorme discarica di plastica che galleggia nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Formatasi negli anni grazie alle correnti, “l’Isola dei rifiuti”, meglio conosciuta come “Pacific Trash Vortex”, è un disastro di decine di chilometri quadrati avvistata per la prima volta nel 1997 da Charles Moore, navigatore, ambientalista e fondatore dell'Algalita Marine Research Foundation per la protezione dell’ambiente marino. La situazione dagli anni ’70 non è migliorata, anzi. La plastica è oggi un inquinante sempre più presente e persistente negli oceani e a causa della sua pessima gestione da risorsa è diventata un rifiuto scaricato quotidianamente negli ecosistemi marini. Basandosi sul recente report intitolato “Stemming the Tide” (Arginare l’onda) l’Ocean Conservancy ha ricordato come dei circa 275 milioni di tonnellate di plastica prodotte ogni anno dalle 192 nazioni che si affacciano sul mare, una media di 8 milioni di tonnellate finisca annualmente sugli oceani: “è come se ogni minuto un camion della spazzatura si recasse in spiaggia e scaricasse il proprio contenuto sul mare”. Entro il 2025 quindi “i nostri oceani potrebbero contenere una tonnellata di plastica per ogni tre tonnellate di pesci”. Anche stando alle stime dei ricercatori della Sea Education Association, pubblicate lo scorso anno sulla rivista Science, lo scenario è destinato a peggiorare: "se non si interverrà quanto prima per migliorare lo smaltimento dei rifiuti nelle zone costiere e adottare sistemi di riciclo più efficienti, la quantità di plastica nei nostri mari potrebbe aumentare di dieci volte entro il 2025”.
Il problema è particolarmente sentito anche in Italia, dove il mare più inquinato dalle sostanze plastiche è l’Adriatico, seguito dal Tirreno e dallo Ionio. Come ha evidenziato Legambiente a novembre scorso con il rapporto Marine litter, “il 95% dei 2.597 rifiuti galleggianti in 120 chilometri quadrati di mare è fatto di plastica”. Al primo posto, fogli e buste, letteralmente letali per la fauna. Che fare allora? Sì potrebbe cominciare col ripensare l’uso, il riuso, il riciclo e lo smaltimento delle infinite materie plastiche che occupano il pianeta, ma intanto c’è qualcuno che forse ha trovato un modo per rimediare ai danni fin qui prodotti, ed è una gran bella notizia per celebrare questo 22 marzo la Giornata Mondiale dell'acqua, ricorrenza istituita dalle Nazioni Unite nel 1992 e prevista all'interno delle direttive dell'agenda 21 uscita dalla conferenza di Rio. Un’équipe di scienziati del Kyoto Institute of Technology guidati dal professore Shosuke Yoshida ha appena isolato una specie di batterio, l’Ideonella sakaiensis 201-F6, in grado di mangiarsi la plastica, utilizzandola come fonte di sostentamento e crescita. I dettagli della scoperta, appena pubblicati su Science, sembrano provare l’efficacia di questo batterio particolarmente goloso di polietilene tereftalato, il comune PET, una delle plastiche più diffuse al mondo con i suoi 50 milioni di tonnellate prodotti all’anno soprattutto per scopi alimentari (bottiglie e contenitori per cibi e bevande), ma anche per la realizzazione di etichette, involucri, tubi e pellicole. Dal punto di vita chimico, si tratta di una plastica estremamente resistente al processo di biodegradazione, cioè di distruzione da parte di agenti biologici e finora si riteneva che solo due funghi, tra gli organismi conosciuti, fossero in grado di decomporre parzialmente il PET. Almeno fino a quando è stato identificato l’Ideonella sakaiensis.
Il batterio è stato scovato dagli scienziati analizzando oltre 250 campioni prelevati da un sito di riciclaggio di bottiglie in PET, ed è assolutamente unico nel suo genere. In particolare il team di Yoshida ha identificato i due enzimi chiave nella reazione di decomposizione della plastica: “Il primo si chiama PET-ase, ed è secreto dal batterio quando questi aderisce alle superfici plastiche. Il secondo si chiama MHET-idrolase, ed è quello responsabile della rottura delle catene di PET in molecole più piccole e innocue come l'acido tereftalico e il glicole etilenico”. Il processo, hanno aggiunto gli scienziati, è purtroppo abbastanza lento e "la degradazione completa di una piccola pellicola in PET impiega circa sei settimane alla temperatura di 30 °C", nonostante ciò, “la scoperta potrebbe avere implicazioni molto importanti per il riciclo delle plastiche, così come per lo studio dei principi dell'evoluzione degli enzimi”.
La ricerca è solo all'inizio ed è intenzionata a capire come intraprendere azioni di bonifica degli ecosistemi marini e se è già possibile utilizzare il batterio anche per isolare l’acido tereftalico e riutilizzarlo per la produzione di nuova plastica, il che consentirebbe di evitare l’uso di nuovo petrolio. Intanto una possibile soluzione concreta al problema dello smaltimento della plastica sembra arrivare anche da Bioclean, un progetto coordinato dall’Università di Bologna al quale partecipano altri 19 partner europei e che da alcuni anni mira ad individuare i microrganismi più adatti a degradare vari tipi di polimeri sintetici. Dopo l’isolamento e la selezione di microorganismi prelevati da diversi siti marini ad alto tasso di rifiuti plastici, oltre che da discariche, da impianti di trattamento anaerobici e da siti industriali contaminati, i ricercatori hanno valutato i batteri e i funghi più adatti al processo di degradazione e detossificazione non solo del PET (che ricordiamolo rappresenta un sesto della plastica prodotta nel mondo). Ad oggi è stato stilato un elenco di organismi che combinati con dei pretrattamenti chimici e fisici, provati su una larga gamma di rifiuti plastici, hanno potenziato il processo di biodegradazione dei rifiuti plastici.
Ovviamente per entrambe le scoperte occorrerà procedere con molta cautela anche perché il batterio e i microorganismi potrebbero liberare nell’ambiente additivi tossici e collateralmente dannosi per gli ecosistemi, ma intanto entrambe le ricerche fanno ben sperare per il futuro degli ecosistemi marini.
Alessandro Graziadei
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