Mentre in queste settimane viviamo l’emergenza del terremoto in Equador, che il 16 aprile ha causato ad quasi 600 morti accertati, centinaia di dispersi e più di 25.000 sfollati, è difficile non tornare con la memoria in Nepal il 25 aprile del 2015, quando un terremoto con un epicentro situato a circa 80 km da Kathmandu di magnitudo 7,8, seguito il 12 maggio da uno di magnitudo 7,3, “ha distrutto - secondo le stime dell’Onu - 605.254 case e danneggiato altre 288.255 abitazioni lasciando senza un tetto quasi 700mila famiglie, producendo milioni di sfollati e causando 8.961 vittime oltre a più di 22.000 feriti”. Da allora è trascorso un anno, un monsone, un inverno e mentre un nuovo monsone è alle porte, la ricostruzione in molte delle aree colpite non è ancora cominciata. Perché se la prima emergenza fu gestita in maniera eccellente dal Governo nepalese, che distribuì 15mila rupie (circa 150 dollari) agli sfollati, fornì soccorso ai feriti, seppellì i morti evitando epidemie e distribuì lamiere ondulate e tende a migliaia di persone (anche grazie agli aiuti internazionali), le operazioni di ricostruzione invece hanno stentato a decollare e molta gente convive ancora con la fame e il freddo.
"Dopo un anno non abbiamo ancora un tetto sopra la testa. Quanto ci vuole per ricostruire una casa? Per quanto tempo ancora dovremo aspettare?”. La domanda di Om Bahadur Ghale è la stessa di migliaia di cittadini nepalesi nella zona di Barpak, epicentro del sisma. Il terremoto qui ha distrutto case, ospedali, scuole, templi indù, carceri e si calcola che almeno 8mila persone vivano ancora nelle tende allestite dalle squadre di recupero solo qui. Come mai? Il 20 settembre il paese ha approvato una nuova costituzione: la nazione è diventata una repubblica laica e federale formata da sette stati, ma questo cambiamento ha provocato le proteste delle minoranze madhesi e tharu, nella regione al confine con l’India, che per ritorsione ha bloccato con un embargo il trasporto di beni e il rifornimento di carburante da cui dipende l’intero fabbisogno nazionale. La conseguenza è che le attività di sostegno alla popolazione sono rallentate e i prezzi delle derrate alimentari essenziali (olio per cucinare, riso, lenticchie, zucchero e sale) sono cresciuti del 50-60%.
Anche per questo l’Autorità per la ricostruzione nazionale, la National Reconstruction Authority (Nra), formata dal Governo per lavorare alla ricostruzione del post terremoto distribuendo i circa 4 miliardi di aiuti raccolti dalla comunità internazionale, non si è ancora mossa per incontrare la gente e per raccogliere dati sulla loro situazione e i loro bisogni. Secondo le stime del Governo i costi della ricostruzione andranno dai 5 agli 8 miliardi di dollari e visto che nel paese la percentuale di popolazione sotto la soglia di povertà è pari al 25%, se gli aiuti tarderanno ancora ad arrivare entro il 2016 altri 700mila nepalesi rischiano di rientrare nella fascia di chi vive con meno di un dollaro al giorno. Per Sushil Gyanwali, capo della Nra “Le divisioni politiche e i ritardi non ci hanno permesso di affrettare il nostro lavoro. Ma adesso ci stiamo muovendo bene e presto potremo portare il nostro sostegno a tutti gli sfollati rimasti senza casa”.
Per Ian Wishart, di Plan International Australia: “L’embargo indiano ha bloccato tutto. I materiali non sono arrivati, il carburante non è stato distribuito, persino l’elettricità viene razionata. Soltanto da poco le cose sono ripartite. Riteniamo però che le enormi somme di denaro orbitate intorno alla ricostruzione abbiano attirato troppe persone, e la corruzione qui è sempre in agguato. Speriamo di poter partire presto con il nostro progetto, la ricostruzione delle scuole primarie” ha dichiarato l’associazione. Per via di questa situazione ancora poco chiara l'International Commission of Jurists (Icj), ong impegnata nella difesa dei diritti umani, ha lanciano un appello alle massime autorità del Paese affinché rispondano in modo efficace e promuovano aiuti mirati ai bisognosi evitando “discriminazioni” di “discendenza, genere, etnia, religione o credo politico” nella distribuzione degli aiuti. Nel rapporto congiunto di Icj e Nepal Bar Association emerge la mancanza di un piano di lungo periodo per le vittime del sisma, unita alla violazione di alcuni dei loro diritti di base. “Le autorità nepalesi - hanno affermano gli esperti di Icj - devono prendere misure speciali, laddove necessario, per assicurare che uomini e donne di gruppi emarginati e svantaggiati possano godere di eguali diritti in tema di accesso agli aiuti”.
Ma ad un anno dal sisma anche l’impegno delle ong (che ha visto anche la Provincia Autonoma di Trento raccogliere fondi con le associazioni di volontariato trentine che da anni operano in Nepal) stenta a decollare e non solo per problemi logistici ed organizzativi, ma soprattutto per le nuove regole imposte da Kathmandu. Sul “bando” verso le organizzazioni caritative, Gyanwali ha dichiarato in questi giorni che il Governo nepalese: “Non ha bandito nessuno; piuttosto vogliamo un chiaro impegno da parte delle ong e delle organizzazioni caritative. Loro non sono libere di andare in qualunque area e lavorare. Noi chiediamo loro di ricevere la nostra approvazione sui loro obbiettivi espressi con chiarezza, sotto la nostra vigilanza e supervisione”. E ha aggiunto: “Abbiamo preso questa decisione, anche perché molti indù criticavano le organizzazioni caritative cristiane, che secondo loro convertono la gente in cambio di aiuti. Fino ad ora sei ong hanno ottenuto il permesso di lavorare”.
Intanto centinaia di migliaia di cittadini si stanno preparando per passare la seconda stagione dei monsoni in rifugi temporanei, ma solo l’1% vive ancora nelle tende dei campi allestiti dopo il terremoto. Percentuali positive, secondo un report di Agire, Agenzia italiana di risposta alle emergenze, “se confrontate con il devastante terremoto di Haiti del 2010, dove a un anno di distanza su tre milioni di persone colpite, oltre un milione e mezzo viveva in tendopoli senza servizi e un’epidemia di colera imperversava tra gli sfollati”. In Nepal è andata meglio e chi può permetterselo ha già cominciato a ricostruire la casa da sé o con un prestito in banca, mentre l’80 % delle famiglie sfollate aspettano l’intervento del Governo e una carta del rischio sismico. Sì perché “se chiedi in giro scopri che molti nepalesi neppure sanno di vivere in un Paese sismico“, ha ricordato Jurg Merz, della organizzazione non governativa svizzera Helvetas, che sta cercando di favorire la costruzione di abitazioni antisismiche resilienti in aree rurali, facendo uso solo di legno e murature a secco, e lamiere ondulate per il tetto. C’era una volta il Nepal, ma è ora di ricostruirlo!
Alessandro Graziadei
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