sabato 11 agosto 2018

Cibo che viene e cibo che va

Il “chilometro zero” in campo alimentare è una modalità virtuosa e sostenibile di fare la spesa. Ha riportato al centro dell’attenzione un’agricoltura strettamente connessa al territorio e alla stagione attraverso una filiera più corta e quindi più economica, con un minor inquinamento prodotto da carburanti e imballaggi e si è dimostrata quasi sempre sinonimo di una cucina genuina capace di valorizzare ed esaltare i prodotti locali. Nonostante la cultura del chilometro zero sia oggi una realtà in rapida diffusione siamo ancora giornalmente bersagliati da un’offerta e un marketing alimentare ormai completamente globalizzato. Solo in Italia l’importazione di prodotti alimentare è un mercato che vale circa 42 miliardi di euro e così alle carni al latte, passando per il frumento e il pesce il nostro settore produttivo non riesce quasi mai a garantire le materie prime ad un’industria alimentare che sulla produzione e sulla lavorazione del cibo ha costruito buona parte del successo “Made in Italy”.  L’unico settore in cui la produzione interna non sembra temere scarsità è quella degli ortaggi dove solo l’1% di zucchine, pomodori, carote e cipolle non cresce e matura sul suolo italiano.
  
Una dipendenza che per la Coldiretti si spiega solo intrecciando diversi fattori legati all’abbattimento dei costi in un mercato globale dove la concorrenza è falsata da regole del gioco diverse. Il costo del lavoro più basso in molte parti del mondo e l’utilizzo di fitofarmaci che in Italia e in Europa spesso sono fuori legge (con rischi per la salute enormi) sono fattori che destabilizzano la produzione alimentare italiana che deve fare i conti anche con un mercato unico con limiti di produzione che spesso avvantaggiano alcuni dei nostri partner europei a discapito dell’Italia. Per questo in Italia, ogni giorno, vengono “persi” circa 40 campi di calcio di terreno che potrebbero essere destinato alla coltivazione per lasciare spazio a infrastrutture viarie, complessi residenziali e centri commerciali che occupano le campagne. Una situazione quella italiana piuttosto comune in Europa e che diventa allarmante nei Paesi impoveriti. Secondo il Food Outlook, pubblicato ad inizio luglio dalla Fao e che ogni semestre analizza le tendenze di mercato delle maggiori derrate alimentari mondiali, “Le importazioni alimentari rappresentano un peso crescente per i Paesi più poveri del mondo. La fattura delle importazioni mondiali è più che triplicata dal 2000 ad oggi, raggiungendo i 1,43 trilioni di dollari, mentre è quasi quintuplicata per i Paesi più vulnerabili alle crisi alimentari”.

Per l’economista Adam Prakash, che ha coordinato il gruppo di lavoro che ha elaborato il rapporto, “Questo preannuncia una sfida crescente, soprattutto per i Paesi in via di sviluppo, che cercano di venire incontro ai propri bisogni alimentari di base attraverso i mercati internazionali”. Com’è facile immaginare le prospettive per questi Paesi non sono per niente buone visto che in futuro potrebbero “pagare sempre di più per meno cibo”, anche se la produzione globale e le condizioni del commercio sono state piuttosto benigne negli ultimi anni. Per la Fao, infatti, “quest’anno si prevede che il costo globale delle importazioni alimentari crescerà di circa il 3%, raggiungendo gli 1,47 trilioni di dollari”. Un aumento annuale legato in particolar modo alla crescita del commercio internazionale di pesce, un alimento dall'alto prezzo per la crisi degli stok ittici importato soprattutto da Paesi sviluppati, e di cereali, prodotti base che rappresentano un’importazione essenziale per molti Paesi a basso reddito con deficit alimentare, i così detti “Low-income food deficit countries” (Lifdc).

Concentrandosi sulle tendenze, sulla composizione e sui costi nel tempo delle importazioni alimentari, il Food Outlook 2018 ha dimostrato come “Dal 2000 le importazioni alimentari sono cresciute al tasso globale medio dell’8% annuo, ma la crescita è rimasta sempre in doppia cifra per la maggioranza dei Paesi più poveri” per i quali i costi delle importazione di cibo rappresentano oggi il 28% degli introiti totali dall’esportazione di merce, un dato quasi doppio rispetto al 2005. I Paesi sviluppati, invece, non solo hanno un maggiore Pil pro capite, ma solitamente spendono solo il 10% degli introiti ricavati dall’export per le loro importazioni alimentari. Come se non bastasse questo mercato alimentare globale, già particolarmente costoso per le economi emergenti, anche se è rimasto relativamente stabile grazie alla buona disponibilità generale della maggior parte delle categorie alimentari analizzate, cioè cereali, carne, pesce, frutta, verdura, zucchero, bevande, semi oleosi, caffè, tè e spezie, dovrà fare sempre i conti con altre variabili legate “all’aumentare delle dispute in campo politico, petrolifero, commerciale e climatico”. Condizioni non sempre prevedibili e quasi mai quantificabili, anche se sempre all’ordine del giorno.

Alessandro Graziadei

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