Nell’ottobre del 2017 i paesi membri della General Fisheries Commission for the Mediterranean (Gfcm), la Commissione generale per la pesca nel Mediterraneo, hanno sottoscritto un piano regionale d’azione per combattere la pesca Illegal Unreported and Unregulated (Iuu) cioè la pesca illegale, non dichiarata e non regolamenta. Nonostante questo comune impegno per Lasse Gustavsson, direttore esecutivo di Oceana, la più grande organizzazione internazionale di advocacy focalizzata dal 2001 esclusivamente sulla conservazione degli oceani, “I governi e i leader del Mediterraneo che si stanno impegnando globalmente per combattere la pirateria nell’ambito della pesca, seguendo gli obiettivi di sviluppo sostenibile, stanno in realtà ignorando diversi potenziali casi di pirateria nel loro mar Mediterraneo”. Un atteggiamento ingiustificabile visto che sono emerse prove inequivocabili attorno a queste attività illegali all’interno delle zone di restrizione o addirittura di chiusura totale alla pesca nate per proteggere habitat e specie ittiche in pericolo.
L’accusa dell’organizzazione ambientalista internazionale è stata scritta nero su bianco nel recente rapporto “Building a GFCM framework to combat IUU fishing Oceana case studies and recommendations” che rivela ben 41 casi potenziali di pesca Iuu nel Mar Mediterraneo, casi emersi utilizzando i dati forniti dal Global Fishing Watch. I risultati sono stati discussi in aprile durante una due giorni di riunioni governative della Gfcm, durante le quali secondo Oceana “Tutti i Paesi interessati dalle violazioni non hanno saputo fornire delle delucidazioni riguardanti alle eventuali sanzioni imposte alle navi ree di pesca illegale e tanto meno hanno saputo dire se saranno attuate delle sanzioni in futuro”. Le informazioni raccolte da Oceana indicano che le navi da pesca che stanno violando palesemente e impunemente le aree chiuse e protette possono essere facilmente identificate e che gli stati costieri che non stanno facendo nulla per applicare la legge peccano di volontà.
Forse per questo il Mediterraneo è oggi il mare più sovrasfruttato del mondo, con oltre il 90% di stock ittici in pericolo. Nel 2017 la Banca Mondiale nel rapporto “The Sunken Billions Revisited: Progress and Challenges in Global Marine Fisheries” (I miliardi sommersi: progressi e sfide per la pesca marittima a livello internazionale), ci ricordava come la situazione del Mediterraneo fosse lo specchio di una crisi del patrimonio ittico mondiale e come oggi “una gestione più sostenibile delle risorse ittiche, in massima parte preservando le aree critiche e limitando gli scarti, genererebbe un profitto annuale di 83 miliardi di dollari”. Questo tipo di studio, pubblicato per la prima volta nel 2009, ci suggerisce quindi che ridurre la pressione della pesca a livello globale è un passo che non solo contribuirebbe alla ricostituzione degli stock ittici, ma sarebbe una scelta fondamentale per garantire all’industria della pesca una resa maggiore e più costante nel tempo. Questo perché quando gli stock ittici si esauriscono e le zone di pesca si spostano più lontano dalle aree di consumo, “raggiungerle richiede più energia, più tempo e un maggiore dispendio di risorse umane e logistiche”.
Nonostante il buon senso dettato dall’utilità anche economica della conservazione i governi del Mediterraneo non agiscono e mettono in questo modo a repentaglio il futuro della pesca nel Mediterraneo e il futuro degli oltre 300.000 pescatori e delle loro famiglie, che vivono della pesca. Il fatto più sorprendente è che solo lungo le coste del Belpaese Oceana ha identificato “oltre 20 pescherecci italiani con reti a strascico che presumibilmente hanno pescato per oltre 10.000 ore all’interno di un’area chiusa, delimitata per proteggere novellame di nasello nello stretto di Sicilia, dove gli stock sono soggetti a un sofrasfruttamento estremo”. Come se non bastasse, la situazione potrebbe essere peggiore in quanto fonti ufficiali hanno confermato che altre attività di pesca sembrano essere state effettuate da un’imbarcazione che navigava sotto la bandiera della Tunisia e che non utilizza il sistema di identificazione automatica (AIS). Una situazione non eccezionale visto che Oceana ha rilevato anche “possibili intrusioni illegali di navi straniere nelle acque che appartengono alla giurisdizione nazionale di sette Paesi del Mediterraneo” e denuncia che “La legalità di queste attività di pesca non può essere verificata in quanto la Commissione generale per la pesca nel Mediterraneo non pubblica ancora informazioni su accordi di pesca bilaterali, diversamente da altri organismi di gestione della pesca nel mondo”.
Davanti a questi atteggiamenti criminali non sanzionati a livello politico è chiaro che la conservazione del patrimonio ittico in tutta la regione mediterranea e le comuni risorse economiche derivate dalla pesca potrebbero essere seriamente minacciate. Per questo non solo occorre che tutti i paesi si rifacciano alle indicazioni della Gfcm, ma investano urgentemente nel monitoraggio, il controllo e la sorveglianza delle attività legate alla pesca. Per Oceana “i controlli sono fondamentali per garantire una gestione della pesca adeguata e riportare gli stock a livelli di abbondanza, in particolare nel mar Mediterraneo, dove ormai il 90% degli stock hanno superato i limiti biologici di sicurezza”.
Alessandro Graziadei
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