Nelle scorse settimane vi abbiamo parlato di alcune specie aliene che negli ultimi anni hanno cominciato a popolare le nostre montagne. In particolare ci siamo interessati all’istrice, una novità nel panorama faunistico prealpino, protagonista di una lenta migrazione dal sud Italia conseguenza dell’innalzamento delle temperature e anche allo scoiattolo grigio, una specie originaria dei boschi del Nordamerica, che è stata introdotta accidentalmente in Europa e ora si sta velocemente diffondendo anche su tutto l’arco alpino. Per ora entrambe le specie, nonostante qualche criticità, non rappresentano un allarme per l’equilibrio ambientale e faunistico locale, a differenza della cimice asiatica. Apparsa per la prima volta in Emilia Romagna nel 2012, oggi è segnalata in tutte le regioni italiane e sta provocando danni a molte piante di interesse agricolo e arboreo anche nelle zone alpine e prealpine. Per le nostre montagne e i nostri parchi naturali, quindi, la diffusione di specie animali invasive, spesso arrivate grazie all’incauta azione diretta dell’uomo o all’indiretto processo di riscaldamento globale, sarà presto un serio pericolo?
Una risposta scientifica alla domanda è arrivata in questi giorni dagli Stati Uniti grazie al National Park Service (NPS), che ha chiesto un parere ad un team di scienziati statunitensi e australiani che hanno appena pubblicato i risultati su Biological Invasions con lo studio “The unaddressed threat of invasive animals in U.S. National Parks”. Ashley Dayer del Department of Fish and Wildlife Conservation del Virginia Tech fa parte del team di esperti che hanno studiato questo complesso problema per tre anni ed è giunta alla conclusione che “La presenza di animali invasivi mina la missione dell’NPS. Questi invasori possono causare la perdita della fauna selvatica di un parco, ridurre il piacere di stare in un parco da parte dei visitatori, introdurre malattie e avere enormi impatti economici a causa del costo delle misure di controllo”. Per Elaine Leslie, che per anni ha diretto la Biological Resource Management Division dell’NPS “esistono, quindi, serie preoccupazioni nei confronti delle specie alloctone e invasive su tutto il territorio, all’interno e all’esterno delle unità dei parchi nazionali, e per il loro impatto sulla biodiversità autoctona, in particolare per le specie a rischio e i loro habitat. A livello nazionale e internazionale, il mondo sta perdendo la biodiversità autoctona a un ritmo allarmante. Le minacce provenienti dalle specie invasive svolgono un ruolo fondamentale in questa perdita”.
Eppure ad oggi delle 1.409 popolazioni invasive appartenenti a 311 specie animali non autoctone segnalate nei parchi nazionali americani, sono stati attivati piani di gestione solo per il 23% delle specie con buoni risultati nell’11% dei casi. Per il team di esperti che ha elaborato lo studio è ancora troppo poco e “Per affrontare la sfida delle specie invasive è necessaria un’azione più incisiva e coordinata non solo dentro i confini degli Stati Uniti”. La collaborazione e il coordinamento nazionale ed internazionale è essenziale per avere successo nell’eradicazione o nel contenimento delle specie aliene, come ha fatto lo Yellowstone Park che grazie a queste sinergie ha elaborato un programma efficace per gestire le trote di lago e controllare l’ibis sacro, entrambe specie invasive. Adesso per la Leslie “Un lavoro coordinato e finanziamenti aggiuntivi saranno fondamentali per il successo di questa sfida. Questo problema è anche di importanza economica. Se saremo in grado di adottare misure nazionali, come già fanno altri Paesi per prevenire ed eradicare le specie invasive, possiamo fare la differenza”. Una prospettiva che sembra essere sempre più attuale e urgente anche per la salvaguardia del nostro ecosistema alpino. Per poterla conseguire potrebbe essere molto utile guardare non solo alle eccellenze locali in questo campo, come la Fondazione Mach, ma anche oltre i nostri confini provinciali, regionali e nazionali.
Alessandro Graziadei
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