Per gli attivisti di B’Tselem, una ong israeliana che si batte contro l’occupazione illegale dei territori palestinesi, il Governo israeliano nel 2019 ha abbattuto un numero “record” di abitazioni palestinesi, sia a Gerusalemme est, che in tutta la Cisgiordania. Come mai? Come sempre per “questioni legate ai permessi di costruzione” e come “misure punitive”. È quanto emerge da un rapporto diffuso a fine anno dalla ong, già protagonista in passato di aspri confronti con il premier Benjamin Netanyahu e la sua “politica di occupazione”. Per l’associazione “Israele continua a usare il pretesto della sicurezza per abbattere abitazioni, espropriare terreni e perseguire la politica di espansione degli insediamenti lungo le strade che li collegano, impedendo di fatto la nascita di un futuro Stato unito, anche se la maggior parte degli edifici, in base agli accordi fra i due Governi, sorge in aree destinate al controllo dell’Autorità civile palestinese”.
Stando ai dati riportati da B’Tselem lo scorso anno Israele ha distrutto 265 strutture a Gerusalemme est, tra queste ci sono 169 unità abitative, ed è il dato più alto dal 2004, da quando l’ong ha iniziato a tenere il conto delle demolizioni. Le operazioni israeliane nel 2019 hanno lasciato senza casa 328 palestinesi, tra i quali ci sono 182 minorenni e in ben 42 casi sono stati gli stessi proprietari a procede alla demolizione, per evitare di dover pagare i balzelli legati agli abbattimenti alla municipalità cittadina. “I palestinesi a Gerusalemme Est - hanno spiegato gli attivisti israeliani - non hanno possibilità di scelta, se non costruire senza permessi quale diretta conseguenza delle politiche israeliane, che rendono di fatto impossibile il rilascio dei permessi”. Israele “utilizza questa politica per perpetrare il proprio obiettivo di una maggioranza ebraica” nella città santa e “rendere insostenibile la vita per i palestinesi residenti” con il proposito di “spingerli a lasciare le loro case almeno in apparenza per loro diretta volontà”. Nel complesso dal 2004 al 2019 il comune di Gerusalemme ha demolito 978 unità abitative nel settore orientale, lasciando 3.177 palestinesi, tra i quali 1.704 minori, senza casa.
In Cisgiordania, invece, Israele si è "limitato" ad abbattere 256 strutture. Di queste almeno 106 erano case, ed anche in questo caso si tratta di un dato ben più elevato rispetto a quelli fatti registrare nel 2017 e nel 2018. Qui le demolizioni hanno lasciato 349 palestinesi senza casa, di cui 160 risultano essere minori. Dal 2006, anno in cui l’ong ha iniziato l’attività di studio in Cisgiordania, ad oggi Israele ha raso al suolo circa 1.525 unità abitative palestinesi, lasciando in mezzo a una strada 6.660 persone tra cui 3.342 minorenni. Secondo gli attivisti “A più riprese il governo israeliano ha promosso demolizioni e abbattimenti in comunità che rifiuta di riconoscere. Nello stesso periodo sono state cancellate 779 strutture non residenziali in Cisgiordania, fra le quali recinzioni, cisterne d’acqua, strade, depositi, strutture agricole, aziende ed edifici pubblici”. Una politica di occupazione che va di pari passo con l’esproprio delle terre visto che negli ultimi 50 anni i Governi israeliani hanno autorizzato il land grabbing di oltre 10mila ettari di terra appartenente in origine ai palestinesi, giustificandoli con questioni legate alla “sicurezza nazionale”. Sarà vero?
Secondo Kerem Navot, un’altra ong israeliana che ha monitorato la crescita degli insediamenti e le operazioni di esproprio promosse dal governo nella West Bank dal 1969, quasi la metà dei terreni espropiati ai palestinesi è oggi andata in concessione a coloni della Cisgiordania. Secondo gli attivisti, infatti, “circa il 47% della terra requisita sfruttando norme e leggi che rientrano nel novero delle necessità urgenti sul piano militare sono usate per sviluppare nuovi insediamenti o come strade di accesso alle vecchie colonie. Alcune di queste aree, in un primo momento, erano state usate per infrastrutture militari o depositi dell’esercito, ma con il passare degli anni edifici e terreni sono stati concessi in usufrutto ai coloni”. Attualmente buona parte di questi insediamenti sono comunità abitate da civili e militari israeliani e costruite indifferentemente in Cisgiordania, a Gerusalemme Est, sulle Alture del Golan e nella Striscia di Gaza. Al momento secondo dati del ministero israeliano degli Interni le colonie della Cisgiordania, illegali secondo il diritto internazionale, ma riconosciute da Tel Aviv, sono almeno 133 a cui si aggiungono un centinaio di “avamposti” che ospitano in tutto circa 500.000 persone, mentre a Gerusalemme Est vivono circa 300.000 coloni israeliani e altri 20.000 sono stabilmente insediati sulle Alture del Golan.
L’autore della ricerca uscita lo scorso anno, Dror Etkes, ha spiegato che la prima ondata di insediamenti si è registrata sotto un governo a guida laburista, considerato moderato, fra il 1967 e il 1977. “In quel periodo - ha aggiunto il ricercatore - ha iniziato a farsi largo il concetto di sequestro di terra che poi sarebbe andata ai coloni. Il picco dei furti è poi avvenuto fra il 1979 e il 1983, con il Likud al potere nel Paese”. Anche se il diritto internazionale e umanitario prevede che questi espropri di terra siano temporanei e che i proprietari siano risarciti in maniera adeguata, per il momento niente di tutto questo è mai avvenuto e la pratica ha continuato a essere utilizzata nel tempo, subendo un'ulteriore accelerazione sotto il precedente governo Netanyahu. Negli ultimi anni, infatti, il numero di espropri è aumentato del 20%, conseguenza anche dell’interruzione nel 2014 dei colloqui di pace e della successiva escalation di violenze, di fronte alla quale si è rivelata sempre più evidente l’inerzia della comunità internazionale. Intanto la spesa destinata dal Governo israeliano agli insediamenti nel 2019 è progressivamente cresciuta toccando il livello più alto dell’ultima decade. Un fiume di soldi sempre più consistente, pur a fronte di una riduzione del territorio perché oggi le Alture del Golan sono considerate parte integrante dello Stato in seguito al riconoscimento della sovranità israeliana da parte del presidente Usa Donald Trump. Un fiume di soldi, che secondo molti attivisti israeliani contrari all’occupazione, il premier Netanyahu se sarà confermato nelle elezioni del prossimo 2 marzo, continuerà a sottrarre al possibile sviluppo delle comunità interne al Paese.
Alessandro Graziadei
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