All'inizio del 2019 lo Sri Lanka ha lanciato una campagna contro il traffico di stupefacenti, reintroducendo anche la pena di morte per impiccagione nel caso dei crimini ad esso legati. La decisione di sospendere la moratoria sulle condanne a morte, presa dal controverso ex presidente dello Sri Lanka Maithripala Sirisena, doveva essere l’atto conclusivo del mandato presidenziale di Sirisena, sostituito a metà novembre dal neo presidente Gotabaya Rajapaksa, ma è stata sospesa per la seconda volta fino al 20 marzo 2020 da una sentenza della Corte Suprema cingalese. La sentenza è stata emessa dai quattro giudici che hanno accolto le 12 petizioni presentate da Human Rights Commission of Sri Lanka e altre organizzazioni che si battono contro la pena capitale e per i diritti umani in generale, non solo dei detenuti. L’arbitraria decisione di Sirisena, infatti, era stata subito contestata dagli attivisti per i diritti umani del Paese che avevano denunciato l’incostituzionalità di una scelta politica “ad personam”, nello specifico presa contro un determinato gruppo di prigionieri.
Così la ricerca di boia per impiccare i condannati a morte per droga, apparsa nei mesi scorsi sul Daily News dopo 43 anni dalla sospensione delle pene capitali, può dirsi almeno per il momento finita, anche senza aver trovato i candidati maschi tra i 18 e i 45 anni, con “eccellente indole morale” e “forza mentale”, come richiesto negli annunci. Secondo i difensori dei diritti umani e adesso anche per i giudici della Corte Suprema, la scelta dell’ex presidente Sirisena di ripristinare la pena di morte solo per coloro che sono implicati nello spaccio o nel narco-traffico, viola di fatto l’art. 12(1) della Costituzione che stabilisce il diritto fondamentale “all’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e all’equa protezione da parte della legge”. Attualmente, da quando nel 1976 in Sri Lanka è entrata in vigore una moratoria sulla pena di morte, sull’isola sono state condannate alla pena capitale 1.299 persone, ma le sentenze sono rimaste sospese e i condannati in carcere, compresi i 48 detenuti colpevoli di crimini legati allo spaccio.
I dati legati al consumo e allo spaccio di droga negli ultimi anni sono il termometro di un’emergenza non solo in Asia. In Sri Lanka la battaglia avviata da Sirisena ha trovato l’appoggio del card. Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo, che ha più volte affermato che è “nostro dovere di cristiani sostenere il presidente nello sforzo di proteggere i nostri figli dal pericolo della droga” ed ha organizzato la scorsa primavera un’imponente manifestazione per dire “No alla droga” per le via di Colombo assieme a centinaia di fedeli cattolici e buddisti. I cattolici per l’occasione avevano organizzato ben tre cortei partiti da altrettante parrocchie e confluiti al Vystwyke Park di Kotahena in centro città. “Se non agiremo subito, la minaccia della droga entrerà nel nostro sistema economico”, aveva sostenuto il card. Ranjith che pur ricordando come “tutti i leader religiosi dovrebbero opporsi allo spaccio di droga” aveva ribadito come cristiano e come cittadino che “non è conveniente attuare la pena di morte per sconfiggere questa piaga”. Una posizione simile a quella espressa anche dal venerabile Thambawita Gunawansa Thera che con la comunità buddista aveva aderito alla marcia ricordando che “Il buddismo è una religione che considera le droghe un male sociale e per questo vuole eliminarle dal mondo” almeno quanto vorrebbe fare “con la pena di morte”.
L’arcivescovo aveva anche esortato la comunità cristiana a gesti concreti di responsabilità sociale: “Anche se il presidente ha nominato una task force per combattere le droghe e sono stati effettuati molti arresti, non possiamo lasciare che le cose ci scivolino addosso. Chiediamo a tutti i cattolici e a tutti gli uomini e le donne di buona volontà di aiutare le vittime di questa piaga. È un nostro dovere come cristiani farlo e provare a fare di più”. Sì perché il rischio che dietro a questa “crociata” poliziesca non vi sia la soluzione del problema droghe è concreto. L’ex presidente Sirisena, infatti, è stato accusato di emulazione del filippino Rodrigo Duterte, autore di una feroce guerra alla droga nel suo Paese, visto che per sua stessa ammissione la decisione dell'ex presidente era maturata dopo una visita nelle Filippine. Qui però la lotta extragiudiziale alla droga si è lentamente trasformata in una guerra ai poveri. Secondo Rise Up for Life and for Rights un gruppo di attivisti per i diritti umani, leader religiosi e famiglie di persone filippine che hanno perso la vita a causa di operazioni antidroga, "nel caso filippino non sono sempre i criminali a finire sotto il fuoco della polizia e anche quando è così questo avviene negando sistematicamente la possibilità di un giusto processo".
Per la rete Rise Up, che coordina dal 2016 gli sforzi per contrastare gli omicidi, cercare giustizia ed è impegnata in programmi per sostenere le famiglie delle vittime ed aiutare i tossicodipendenti a riabilitarsi, “La cosiddetta guerra alla droga, indetta dal Presidente Duterte dopo la sua ascesa al potere il 30 giugno 2016 ha subito sollevato sospetti allarmanti: in soli due mesi, le persone uccise in circostanze da chiarire erano già circa 4mila. La cosa ancor più preoccupante è che le vittime appartenevano alle comunità urbane più povere e non sono mai state sottoposte a un regolare processo”. Per tutti quelli che considerano la soluzione filippina un esempio anche per lo Sri Lanka, la società civile filippina a quasi 4 anni dall’inizio del “sistema Duterte” si sta rendendo conto che per ora il giro di vite contro la droga sta sempre più spesso criminalizzando persone innocenti e le uccisioni extragiudiziali sono diventate una norma. Un timore che che sta alla base anche delle proteste della società civile cingalese schierata a favore della moratoria sulle condanne a morte.
Alessandro Graziadei
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