La plastica è (purtroppo) per sempre, come i diamanti. La troviamo per terra, nell’aria, nel mare e anche nel piatto. Per questo non ci stupisce lo studio “Microplastics in Glaciers: First Results from the Vatnajökull Ice Cap”, pubblicato in aprile su Sustainability da un team di scienziati dell’Università Háskólinn í Reykjavík, della Göteborgs Universitet e del Icelandic Meteorological Office (IME) che descrive la scoperta di microplastiche in un’area remota e incontaminata del ghiacciaio Vatnajokull, in Islanda, la più grande calottaglaciale d’Europa. Per quanto prevedibile si tratta della prima volta che viene descritto il ritrovamento di microplastica in questo ghiacciaio sul quale gli scienziati hanno “visualizzato e identificato particelle microplastiche di varie dimensioni e materiali mediante microscopia ottica e spettroscopia μ-Raman”. I ricercatori islandesi e svedesi hanno evidenziato come “Le microplastiche possono anche influenzare lo scioglimento e il comportamento reologico dei ghiacciai, influenzando così il futuro contributo dell’acqua di disgelo per gli oceani e l’innalzamento del livello del mare”. Se finora l’allarme microplastiche si è concentrato soprattutto sull’inquinamento del mare e sono state condotte poche ricerche sulla presenza di plastica nelle calotte glaciali terrestri in realtà da alcuni anni sappiamo che particelle microplastiche sono ormai di casa nelle Alpi italiane, sui Pirenei, nelle Ande ecuadoriane e anche negli iceberg delle Svalbard.
Secondo il principale autore dello studio, Hlynur Stefansson del Dipartimento di Ingegneria della Università di Reykjavík, “I risultati confermano che le particelle microplastiche sono distribuite nell’atmosfera. Non comprendiamo ancora abbastanza bene i percorsi delle particelle di microplastica nel nostro ambiente. La plastica è trasportata dalla neve e dalla pioggia? Dobbiamo saperne di più sulle cause”. I campioni prelevati dal grande ghiacciaio Vatnajokull provengono da un sito molto remoto e incontaminato, senza un facile accesso, quindi è improbabile un inquinamento diretto derivante dalle attività umane. “Abbiamo bisogno di sapere molto di più sugli effetti a breve e lungo termine della microplastica sulla dinamica del ghiaccio e in che modo contribuisca allo scioglimento dei ghiacciai svolgendo un ruolo fondamentale nel disgelo e nell’innalzamento del livello del mare” ha spiegato Stefansson. Le particelle di plastica si degradano molto lentamente nell’ambiente freddo del ghiacciaio e possono accumularsi e persistere nei ghiacciai per un tempo molto lungo, ma alla fine, vengono in ogni caso rilasciate dal ghiaccio, contribuendo all’inquinamento dei fiumi e dell’ambiente marino. Per questo per i ricercatori “È molto importante mappare e comprendere la presenza e la dispersione di microplastiche nei ghiacciai su scala globale”.
Ma le microplastiche e le nanoplastiche che oggi ritroviamo nel ghiaccio e nell’acqua potrebbero arrivare nei prossimi anni anche dalle comuni mascherine usa e getta anti-Covid-19. Lo studio “An investigation into the leaching of micro and nano particles and chemical pollutants from disposable face masks – linked to the COVID-19 pandemic”, apparso su Water Research in maggio e realizzato da un team di ricercatori del College of Engineering della Swansea University/Prifysgol Abertawe con il sostegno dell’Institute for Innovative Materials, Processing and Numerical Technologies (IMPACT) e dallo SPECIFIC Innovation & Knowledge Centre, ha evidenziato come “Tutti noi dobbiamo continuare a indossare mascherine perché sono essenziali per porre fine alla pandemia. Ma abbiamo anche urgente bisogno di più ricerca e regolamentazione sulla produzione di mascherine, in modo da ridurre i rischi per l’ambiente e la salute umana”. Se l’aumento delle mascherine monouso nei rifiuti era già stato documentato, questo nuovo studio punta a identificare il livello di sostanze tossiche presenti nelle mascherine. Sulla base dei test effettuati dal team di ricerca gallese su una varietà di mascherine, da quelle standard per il viso a quelle nuove e “allegre” per bambini, tutte attualmente vendute al dettaglio nel Regno Unito, sono stati trovati alti livelli di inquinanti, tra cui piombo, antimonio e rame, all’interno delle fibre a base di silicio e neanche a dirlo di plastica. Per i ricercatori “I risultati rivelano livelli significativi di inquinanti in tutte le mascherine testate, con micro/nano particelle di plastica e di metalli pesanti rilasciati nell’acqua durante tutti i test” e avvertono che “Questo avrà un impatto ambientale sostanziale e, inoltre, solleverà la questione del potenziale danno alla salute pubblica”.
Secondo il team dell’università gallese, quindi, lo smaltimento improprio e non regolamentato di questi DPF, che l'Italia si appresta a rendere non più obbligatorie all'aperto, potrebbe amplificare il problema di inquinamento da plastica che stiamo già affrontando e che continuerà ad intensificarsi. “Esiste una quantità preoccupante di prove che suggeriscono che i rifiuti deli DPF possono potenzialmente avere un impatto ambientale sostanziale rilasciando sostanze inquinanti semplicemente esponendole all’acqua. Molti degli inquinanti tossici trovati nella nostra ricerca hanno proprietà bioaccumulative quando vengono rilasciati nell’ambiente e i nostri risultati dimostrano che i DPF potrebbero essere una delle principali fonti di questi contaminanti ambientali durante e dopo la pandemia di Covid-19” hanno spiegato gli scienziati. Che fare? “È essenziale applicare normative più severe durante la produzione e lo smaltimento/riciclaggio dei DPF per ridurre al minimo l’impatto ambientale. È inoltre necessario comprendere l’impatto sulla salute pubblica di una tale lisciviazione di particelle”. Una delle principali preoccupazioni dei ricercatori è che queste particelle si sono facilmente staccate dalle mascherine facciali a contatto con l’acqua, il che suggerisce che queste particelle sono meccanicamente instabili e molto disponibili a staccarsi. Per questo “È necessaria un’indagine completa per determinare le quantità e gli impatti potenziali di queste particelle che penetrano nell’ambiente e anche i livelli che vengono inalati dagli utenti durante la normale respirazione”. Una preoccupazione significativa, soprattutto per gli operatori sanitari, i lavoratori essenziali e i bambini ai quali è richiesto di indossare mascherine per grandi periodi della giornata lavorativa o scolastica. "L’esposizione ripetuta potrebbe essere pericolosa poiché le sostanze trovate hanno legami noti con la morte cellulare, la genotossicità e la formazione del cancro" hanno concluso gli scienziati.
Alessandro Graziadei
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