L’Italia è alle prese ormai da anni con un calo demografico. Una conseguenza di decenni di tassi di natalità sotto la soglia di sostituzione che secondo la rivista The Lancet ridurrà la popolazione del Belpaese a 30 milioni di abitanti nel 2100, una previsione allarmante e probabilmente eccessiva fatta lo scorso anno, ridimensionata dall’ultimo Rapporto annuale Istat sul nostro paese che partendo dai dati del 2019 ha calcolato nella più realistica, ma non certo tranquillizzante, cifra di 53,8 milioni gli italiani nel 2065, incorporando nell’analisi anche il contributo netto medio annuo di 165 mila immigrati, che “riusciranno solo in parte ad arginare il declino demografico”. Il fenomeno, lo sappiamo, non riguarda solo l’Italia e si colloca in un trend tipico di molti paesi “sviluppati” affetti dal “benessere occidentale” e adesso a quanto pare anche “orientale”. Anche in Cina, infatti, le nascite continuano a crollare: “nel 2020 i nuovi nati sono stati 10,03 milioni, l’anno precedente erano stati 11,79 milioni” e questa china rivelata a fine febbraio di quest’anno da You Jun vice ministro per le Risorse umane e la sicurezza sociale, prosegue almeno dal 2012.
Il dato, è bene ricordarlo, è parziale, perché riguarda le famiglie registrate nel sistema “hukou”, che vincola l’accesso ai benefici sociali al luogo di residenza ufficiale. Sappiamo che in passato molti cittadini sceglievano di non registrarsi per evitare multe in caso di violazioni dei limiti alle nascite imposti dallo Stato, ma questo calo del 15% delle nascite sembra essere particolarmente realistico e i dati forniti da alcune province cinesi, come quelle industriali dell’est e del sud, parlano di una diminuzione anche maggiore, attorno al 30%. Per molti analisti e attivisti è la conferma del fallimento della politica del figlio unico e il suo recente allentamento, con la possibilità di avere due figli per famiglia, non ha cambiato la situazione. Secondo uno studio dell’Accademia cinese delle scienze, “dal 2027 inizierà a calare la popolazione in età di lavoro, con gravi problemi di natura pensionistica per la popolazione anziana”. Per i calcoli delle Nazioni Unite, Pechino (al pari di molti altri paesi) ha scarse possibilità di rovesciare tale corso: nei prossimi 30 anni il gigante asiatico perderà 200 milioni di adulti in età da lavoro e si ritroverà con 300 milioni di pensionati in più. Una bomba a orologeria economica e sociale come quella Italiana, solo con “numeri cinesi”.
E se i “numeri cinesi” fanno spesso più paura, anche questo caso non fa eccezione: entro cinque anni la Cina perderà un numero di lavoratori di poco superiore all’intera popolazione di un Paese come l’Arabia Saudita. Di questo passo alla fine del 2025 i cinesi con più di 60 anni, e quindi in età di pensione, saranno più del 20% degli abitanti. Come è accaduto in Europa le riforme economiche degli ultimi 40 anni hanno alzato le aspettative di vita dei cinesi, salite a 77,3 anni (80 anni nei centri urbani) nel 2019. Rispetto alle maggiori economie mondiali, dove si va in pensione intorno ai 65 anni, in Cina la soglia dell’età per la pensione è molto più bassa: tra 50 e 60 anni, limiti che risalgono agli anni Cinquanta dello scorso secolo. Per non far esplodere il sistema pensionistico, Jun aveva annunciato in febbraio che il governo alzerà l’età pensionabile, una misura che è già contenuta nel piano quinquennale approvato in modo formale dall’Assemblea nazionale del popolo durante la sua sessione annuale dello scorso mese di marzo. Con un’economia in rallentamento, la decisione non favorisce però l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, soprattutto dei tanti neolaureati. Dopo 35 anni di politica del “figlio unico”, dal 2015 a ogni coppia è permesso adesso avere fino due figli, ma se si escludono i dati del 2016 quando le nascite sono leggermente aumentate, anche questo provvedimento non ha cambiato l’andamento demografico cinese e le sue politiche lavorative.
La richiesta di una nuova politica a favore della natalità arriva soprattutto dai leader delle province che registrano il tasso di fertilità più basso: Liaoning, Jilin e Heilongjiang, ma secondo diversi analisti sarà molto difficile cambiare il corso demografico in Cina e di conseguenza saranno da rivedere anche i piani economici di Xi Jinping che ha più volte dichiarato di voler raddoppiare il Pil e il reddito pro-capite del Paese entro il 2035, scalzando così in 10 anni gli Usa come prima economia mondiale. Ma le criticità della Cina, per anni emblema del boom demografico mondiale, sembrano essere un fenomeno in espansione, tanto che per due giornalisti canadesi, Darrell Bricker e John Ibbitson, se oggi il fenomeno è ancora diacronico, “tra circa tre decenni è possibile pensare ad una inversione della rotta moderna e contemporanea con un calo implacabile, generazione dopo generazione, della popolazione umana su scala mondiale”. Presto anche i più grandi Paesi in via di sviluppo, i cui tassi di fecondità sono già in discesa, inizieranno a ridursi ed è probabile che lo stesso baby boom africano finisca ben prima di quanto non prevedano i demografi. Per i due giornalisti canadesi che per la pubblicazione del libro Pianeta vuoto. Siamo troppi o troppo pochi? (Add editore, 2020) hanno raccolto dati statistici nazionali e internazionali, studiando e comparando le politiche capaci di aumentare il numero di figli per coppia, "è sbagliata l’opinione della incontrollata duratura travolgente crescita demografica, più probabilmente raggiungeremo un picco di poco oltre i nove miliardi e poi inizieremo a calare”.
Insomma se in Italia già lo sapevamo, adesso anche l’esempio cinese sembra raccontarci che forse il mondo non sarà schiacciato sotto il peso di più di undici miliardi di persone. Proprio per questo i due autori assegnano un ruolo decisivo, per quanto contingente, alle migrazioni: “una soluzione al problema del declino demografico è compensare con le migrazioni le popolazioni che più vengono a mancare”. Ciò dovrebbe riguardare innanzitutto i Paesi con un tasso di natalità sotto la soglia di sostituzione, quindi la maggior parte di quelli europei. Gli autori si riferiscono esplicitamente alle migrazioni non forzate: “in un contesto globale i movimenti dei rifugiati sono insignificanti”, riguardano poche aree, hanno un numero assoluto abbastanza stabile e sono percentualmente scarsi. Per questo le immigrazioni nei paesi in calo demografico andrebbero programmate, sollecitate e favorite, anche se comportano problemi oltre che promesse: “segregazione, rigetto, competizione fra i gruppi etnici, tensioni sociali, paura o addirittura panico” sono problemi reali, troppo spesso strumentalizzati e quasi mai ragionati. In ogni caso, anche se l’immigrazione ha molti altri aspetti positivi oltre a quello demografico, “non è comunque una soluzione definitiva al problema dell’invecchiamento e del declino della popolazione”: i migranti non sono tutti giovani, contribuiscono alla fuga dalle campagne verso le città, adottano rapidamente il modello di fecondità del paese che li ha accolti, e anche quando riequilibrano gli abitanti in singoli paesi, non bloccano il processo globale. La sfida a politiche che riusciranno a far fronte al declino demografico e a quello sociale è ormai aperta su scala mondiale.
Alessandro Graziadei
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