La pandemia di Covid-19 in corso ci ha ricordato come un forte ruolo del settore pubblico sia la condizione necessaria per garantire a livello statale i diritti fondamentali, a partire da quello alla salute. Un insegnamento che il Governo Draghi ha deliberatamente deciso di ignorare, visto che l’Italia sta avviando una nuova stagione di privatizzazioni. Il ddl concorrenza, licenziato il 4 novembre scorso dal Consiglio dei Ministri, grazie ai fondi del PNRR, vuole provare a rimuovere gli ostacoli di carattere normativo e amministrativo per favorire l’apertura dei mercati ai servizi pubblici locali e limitare il settore pubblico nella gestione di qualsiasi cosa, anche dei “nostri” monopoli naturali. L’obiettivo è quello di scoraggiare gli Enti pubblici locali dal ricorrere alle società “in house” (le municipalizzate) per la fornitura dei servizi pubblici locali, limitando le amministrazioni, statali, regionali, provinciali o comunali, a stabilire le regole, affidare i servizi e controllarne l’efficienza. Il presupposto ideologico è che se forniti da imprese private, i servizi pubblici sono più efficienti. Poco importa che l’esperienza abbia dimostrato che il mercato nella gestione privata dei beni comuni o dei servizi essenziali alla persona non abbia funzionato quasi mai: è costoso per gli utenti, non sempre è più efficiente, veloce, innovativo e inclusivo rispetto al pubblico e può portare a disastri come quello del Ponte Morandi dove in un rovesciamento logico si è arrivati a dare la colpa di un disastro nato per una probabile incuria privata allo Stato “che non ha controllato”.
Come se non bastasse il ddl ha la pretesa di introdurre la concorrenza anche in quei casi in cui la concorrenza è di fatto impossibile, come per i monopoli naturali che sono unici e difficilmente possono offrire alternative. La possibilità di una sana concorrenza nella gestione di un servizio pubblico è quindi limitata al bando di gara, che rimane una sfida sulla carta, non una prova pratica e non sempre seleziona il candidato migliore. Per il ddl però il buon amministratore si dovrebbe limitare a controllare che il gestore rispetti gli impegni contrattuali e che non aumenti arbitrariamente le tariffe agli utenti, che quasi mai possono fare a meno di utilizzare quel servizio, che si tratti dell’autostrada oppure dell’acqua o della gestione dei rifiuti. Per questo l’urgenza del Governo Draghi di aprire il mercato dei servizi pubblici al capitale privato nel nome del PNRR nulla ha a che vedere con il benessere dei cittadini e delle finanze pubbliche. Per Silvia Borelli, docente di Diritto del lavoro all’Università di Ferrara, che negli anni ha analizzato l’evoluzione delle privatizzazioni in servizi come gli asili nido e le scuole materne, “Il processo di esternalizzazione è diffuso ovunque e continuerà anche con il PNRR per il semplice motivo che questi servizi, quando sono gestiti da privati, costano circa un terzo in meno”. Perché? “Si applica un diverso contratto nazionale; si applica una diversa (più facile) disciplina dei licenziamenti; possono essere utilizzate liberamente forme flessibili di lavoro; può essere impiegato personale volontario (soprattutto quando gli enti gestori sono del terzo settore). Dal 2010 al 2015 l’esternalizzazione ha poi permesso di ovviare ai blocchi al turn over previsti nell’amministrazione pubblica”.
In questo caso “esemplare”, la “maggiore efficienza” deriva solo dalla possibilità di sfruttare e precarizzare i lavoratori, dando loro meno garanzie, il che non sempre garantisce costi minori per gli utenti e difficilmente un servizio d’eccellenza. Il privato dalla sua attività deve realizzare un profitto, mentre lo Stato dovrebbe solo coprire i costi. Questo significa che, a parità di tariffe, l’efficienza deve essere tanto migliore di quella del pubblico da generare un margine che assicuri un guadagno al gestore. Se la maggiore profittabilità fosse ottenuta solo a spese dei lavoratori, sarebbe un errore parlare di un “miglioramento” se non degli utili. Secondo Riccardo Petrella, professore emerito dell’Università cattolica di Lovanio, in Belgio, tra i maggiori pensatori e ispiratori dei movimenti per l’acqua, il rischio delle privatizzazioni è evidente: “i poteri pubblici hanno oramai poco da dire. Sono in posizione subordinata in moltissimi paesi del mondo dove i poteri decisionali sono passati, a seguito della privatizzazione della gestione dei servizi idrici, nelle mani di società private per le quali l’acqua è puramente un prodotto utilitario. Non per nulla le società di gestione sono chiamate “utilities”. Nell’Unione Europea, con l’adozione della Direttiva Quadro Europea sull’Acqua del 2000, i poteri reali di decisione nel campo dell’acqua sono stati affidati ai portatori d’interesse le cui scelte, specie per le società multiutilities quotate in borsa, sono valutate e giudicate solo dai mercati borsistici”. Come se non bastasse una corretta gestione di beni e servizi pubblici richiede investimenti in manutenzione e miglioramenti tecnologici e salvo rare eccezioni il pubblico ottiene denaro a un costo minore del privato. Secondo molti analisti economici e del diritto, quindi, appaltare ai privati i servizi pubblici è una pessima idea, i controlli sono spesso solo teorici, e in caso di mala gestione la revoca è quasi impossibile.
Perché allora si vuol fare? Il profitto privato e la volontà di evitare il costo politico di un aumento delle tariffe, spesso necessario, ma impopolare, rischia di sacrificare l’accessibilità e la gestione di nostri beni comuni. Eppure, la pandemia ci insegna, l’impresa pubblica non solo nella sanità è ancora uno strumento prezioso per lo sviluppo economico di un paese e se la politica economica è l’insieme degli interventi con i quali le autorità pubbliche indirizzano il sistema economico verso la realizzazione di determinati obiettivi, lo Stato non può fare a meno di una presenza in determinati settori strategici, perché il prezzo di mercato del servizio pubblico rischierebbe di essere troppo alto per i cittadini, limitando l’accesso al servizio. Che fare? Per il Forum italiano dei movimenti per l’acqua una soluzione c'è: “Il confronto tra gestioni pubbliche, prendendo a modello quelle più efficienti. Ce ne sono da fare invidia a qualsiasi privato. Ma questo naturalmente non piace agli adoratori del mercato, secondo i quali la mano pubblica deve fare il meno possibile e soprattutto togliersi di torno da settori lucrosi e senza rischi. Lo chiamano mercato, ma qui l’unico mercato che c’è è quello alimentato dalle lobby”. Per il Forum italiano questo ddl concorrenza è “Un provvedimento ispirato da un’evidente ideologia neoliberista in cui la supremazia del mercato diviene dogma inconfutabile nonostante la realtà dei fatti dimostri il fallimento della gestione privatistica, soprattutto nel servizio idrico: aumento delle tariffe, investimenti insufficienti, aumento delle perdite delle reti, aumento dei consumi e dei prelievi, carenza di depurazione, diminuzione dell’occupazione, diminuzione della qualità del servizio, mancanza di democrazia”. La società civile e i movimenti per i beni comuni, come in occasione del referendum del 2011, dovranno quindi tornare a difendere l'Italia e gli italiani dalle privatizzazioni.
Alessandro Graziadei
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