Il ddl concorrenza, licenziato il 4 novembre scorso dal Consiglio dei Ministri, grazie ai fondi del PNRR, vuole provare a rimuovere gli ostacoli di carattere normativo e amministrativo per favorire l’apertura dei mercati ai servizi pubblici locali e limitare il settore pubblico alla gestione di qualsiasi cosa, anche dei “nostri” monopoli naturali. L’obiettivo sembra quello di scoraggiare gli Enti pubblici locali dal ricorrere alle società “in house” (le municipalizzate) per la fornitura dei servizi pubblici, riducendo le amministrazioni, statali, regionali, provinciali o comunali, a stabilire le regole, affidare i servizi e controllarne l’efficienza. Il presupposto è che se forniti da imprese private, i servizi pubblici siano più efficienti. Ma è vero? E se sì è giusto puntare solo sull’efficienza? Ne abbiamo parlato con Riccardo Petrella economista, accademico e politologo italiano fondatore e presidente dell’Università del Bene Comune.
AG: La pandemia di Covid-19 in corso ci ha ricordato come un forte ruolo del settore pubblico sia la condizione necessaria per garantire a livello statale i diritti fondamentali, a partire da quello alla salute. Un insegnamento che il Governo Draghi ha deliberatamente deciso di ignorare, visto che l’Italia sta avviando una nuova stagione di privatizzazioni?
RP: Il Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi fa parte di quei dirigenti che sistematicamente, negli ultimi 40 anni, hanno tentato di eliminare il ruolo determinante dello Stato, inventando il concetto di “governanza economica”. Vuol dire che per loro le società devono essere regolate, controllate e dettate da meccanismi di tipo privato e che il mercato è lo strumento migliore per utilizzare e mercificare tutte le risorse disponibili, anche in campo sanitario. Più il mercato diventa elemento regolatore meglio è; meno lo Stato ha poteri politici di regolatore meglio è. A loro non interessa niente il fatto che questo modo di fare politica conduca verso una sempre più evidente ineguaglianza, perché questa situazione è una prevedibile conseguenza della loro scelta politica e del loro sistema valoriale.
AG: L’urgenza del Governo Draghi di aprire il mercato dei servizi pubblici al capitale privato nel nome del PNRR ha veramente a che vedere con il benessere dei cittadini e delle finanze pubbliche?
RP: No. L’obiettivo del sistema economico attuale non è il benessere della gente o il tentativo di agevolare la realizzazione dei nostri diritti umani o culturali, sociali ed economici. Viene negato il principio del diritto universale e l’unico obiettivo politico ed economico da perseguire diventa aumentare il rendimento dell’investimento del capitale e valutarlo in termini di crescita di beni e di servizi sul mercato. Questo pensiero è uno dei principi che ha ispirato la mercificazione e la privatizzazione anche dell’acqua, perché nega che esista il diritto all’acqua, ma regolamenta solo l’accesso al servizio dei consumatori, perché noi tutti siamo visti solo come consumatori e non come portatori di diritti. Per questo non si può mai pensare che il mercato sia capace di promuovere una società dei diritti.
AG: C’è il rischio che la maggiore profittabilità di alcuni servizi pubblici privatizzati sia ottenuta a spese dei lavoratori?
RP: Il lavoratore essendo un costo per il capitale è sempre un limite da piegare. In realtà in questo contesto tutte le risorse materiali ed immateriali della terra, sia l’acqua come risorsa naturale, sia il lavoratore come fattore di produzione, sono ridotti all’esistenza in funzione del suo rendimento. Non c’è valore in sé dell’acqua o del lavoratore, entrambi sono solo elementi della produttività. Se una risorsa materiale non serve più la si abbandona, la stessa cosa si fa con i lavoratori, se una categoria di lavoratori non serve più la si abbandona, è questo il pericolo oggi: hai il diritto all’esistenza solo se hai un fattore di rendimento, meno rendimento hai, meno diritti hai. La privatizzazione implica quindi il principio di esclusione, una appropriazione di un bene o di un servizio che diventa esclusivo, con una concorrenza non aperta, ma oligopolistica.
AG: L’esperienza ha dimostrato che il mercato nella gestione privata dei beni comuni o dei servizi essenziali alla persona ha funzionato?
RP: No, perché viene sempre ignorata e scavalcata la comunità. L’orientamento fondamentale di questo Governo non contempla la comunità. Un bene comune sotto intende un uso comune difficilmente coniugabile quando si decide di privatizzarlo. Negli ultimi vent’anni si è accettato a livello politico che un bene comune possa essere gestito a livello privato e quotato in borsa anche se rimane pubblico. Questo ha indebolito la capacità dei cittadini di poter dire la propria e ha sempre peggiorato la gestione e la distribuzione dei servizi pubblici messi sul mercato.
AG: Secondo Lei, oggi, i poteri pubblici hanno ancora voce in capitolo nei confronti del mercato?
RP: Non più. Ma il fatto eclatante da sottolineare è che sono gli stessi poteri pubblici che hanno deciso di abdicare al loro ruolo istituzionale e di privatizzare. Non sono stati una cittadella assaltata dal “cattivo” capitale, ma i dirigenti pubblici stessi in nome dell’efficentismo si sono dimessi e hanno consapevolmente deciso di attribuire la gestione dei servizi pubblici e dei beni comuni al privato. Tocca oggi a soggetti privati operanti su scala mondiale ed in un contesto di lotta concorrenziale altamente tecnologizzata, occuparsi di ambiti locali importantissimi, imponendo una involuzione che scavalca le amministrazioni, ritenute spesso a torto obsolete e poco efficienti. Inoltre, il grande processo di digitalizzazione delle istituzioni pubbliche in corso sta progressivamente trasferendo a gestori privati il potere di determinare la finalità e l’uso dei beni e dei servizi pubblici in moltissimi campi.
AG: Disastri come quello del Ponte Morandi possono essere considerati conseguenze di un processo di privatizzazione?
RP: Sì, per definizione si constata che il sistema economico privato ad alto livello di tecnologia è un sistema produttore di incidenti, ha sempre un alto livello di rischio. Il sistema non è mai equilibrante, è un sistema che produce conflitti, che conduce all’obsolescenza e all’abbandono, perché i costi di mantenimento sono considerati sempre una predita di capitale e pertanto vengono ridotti il più possibile. Il vecchio non va riparato, ma sostituito con il nuovo, che propone sempre un rendimento maggiore. Gli incidenti, ecologici come la petroliera che fa naufragio, di lavoro con le morti dei lavoratori o finanziari come la chiusura di fabbriche che delocalizzano o chiudono generando disoccupazione, sono parte del sistema. La sicurezza di questo sistema economico è fasulla e il suo carattere efficentista è intrinsecamente legato all’aumento degli incidenti. Questo perché se il costo degli incidenti è inferiore ai profitti, come quasi sempre accade, allora il sistema mette in preventivo un certo numero di incidenti, considerandoli fisiologici e quasi indispensabili per la produzione del massimo profitto. Una sorta di “economia dell’assicurazione” che gioca un ruolo importante perché tutto si decide solo in relazione al rischio stimato dal capitale.
AG: L’esperienza dell’Università del Bene Comune ci ricorda che in questi ultimi anni in Italia si è sviluppato un’interessante movimento di riflessione sui beni comuni, che ha individuato in essi un valore fondante delle comunità e della società. Potrebbe rivelarsi un argine culturale a questa piega politica?
RP: I movimenti di resistenza, contestazione e proposta sono e saranno sempre indispensabili per l’evoluzione del dibattito pubblico. In questa fase sia a livello mondiale che italiano, nonostante i successi come il referendum del 2011 che non è stato rispettato, c’è stata una caduta importante nella capacità alternativa dei movimenti, perché l’autonomia della loro narrazione è stata erosa ed è diminuita la loro capacità di incidere, sposando troppo spesso l’idea che l’accesso su base equa ed abbordabile dei beni comuni fosse da considerare un successo. In realtà l'accesso all'acqua su basi eque e a prezzo abbordabile è la negazione del diritto all'acqua. Purtroppo questo principio è stato pian piano accettato da una parte crescente dei movimenti per l'acqua e per i beni comuni pubblici. Una parte dei movimenti si è accontenta, nel caso della battaglia per l’acqua pubblica, di queste concessioni, che non difendono più il diritto all’acqua pubblica in quanto tale, ma si accontentano di ragionare sui criteri di accesso all’acqua. Per questo oggi è importante provare a ricostruire e rinnovare i movimenti di opposizione e in particolare quello per l’acqua pubblica. Non sarà facile, ma neanche impossibile, nonostante la fase storica catastrofica che stiamo vivendo, perché l’umanità ha sempre il potere di cambiare il corso della storia.
Grazie mille per le spiegazioni e per il prezioso contributo dato in questi anni al movimento di riflessione sui beni comuni.
Alessandro Graziadei
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