L’8 marzo ci ricorda ogni anno che le donne, al di là di ogni celebrazione, sono ancora ben lontani dal veder realizzato il quinto obiettivo dell'Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile che mira a realizzare l’eguaglianza di genere e l’empowerment delle donne e delle ragazze a livello mondiale. Non solo, in molte parti dell’Asia il loro sfruttamento, per lo più a fini sessuali, è una piaga che è andata progressivamente aumentando. Un recente rapporto della polizia thailandese ripreso anche da AsiaNews, “stima in 10-15mila all’anno le donne tailandesi, spesso minorenni con documenti falsificati, coinvolte ogni anno in un giro di prostituzione in Giappone gestito da bande criminali locali, ma con la cooperazione di un rodato network di reclutamento e di smistamento. Un sistema che nel Paese di origine è stato in passato sottovalutato e che ancora oggi gode di appoggi a vari livelli incentivati da una corruzione diffusa e persistente”. Come mai in Giappone? Per la polizia di Bangkok, Tokyo avrebbe sì leggi severe che puniscono lo sfruttamento sessuale, ma “maglie larghe” per quanto riguarda l’applicazione. Al punto che, nel caso thailandese “riguardo al traffico illegale di donne e minorenni per la prostituzione, il Giappone è stato nell’ultimo decennio il maggiore mercato per le vittime di tratta”.
Se il Giappone è una delle destinazioni, la Thailandia è da sempre un crocevia del traffico regionale e internazionale di esseri umani nelle sue più varie forme, spesso coperto dalle autorità, ed emerso con forza solo nel 2015 dopo il ritrovamento nel sud della Thailandia di fosse comuni di Rohingya in fuga dal genocidio in Myanmar. Uomini, ma soprattutto donne e bambini morti durante la prigionia o uccisi dopo che le famiglie non erano riuscite a pagare il riscatto richiesto per la loro fuga, dopo essere stati raccolti in mare durante l’esodo dalla guardia costiera thailandese e consegnati ai trafficanti perché venissero smistati e sfruttati nel Paese o all’estero. Questa nuova consapevolezza non ha, però, impedito che negli anni successivi la Thailandia restasse una centrale di arrivo, smistamento o partenza di decine di migliaia di individui che hanno nell’abuso e nello sfruttamento il loro unico orizzonte. Ma la Thailandia condivide questo triste primato con il Vietnam dove la pandemia di Covid-19 che ha imposto chiusure e restrizioni in gran parte del mondo allargando le disparità e diffondendo la povertà, non ha fermato il sempre più fiorente traffico di vite umane, che colpisce anche qui soprattutto le donne e i bambini. Un commercio favorito dai 4.000 km di confini con Laos, Cambogia e Cina che attraversano 25 province e si snodano in sentieri, aree forestali e vie commerciali secondarie ma ben note e battute da affaristi e trafficanti senza scrupoli.
Negli ultimi anni giovani donne, reclutate soprattutto fra le minoranze etniche delle aree rurali e montagnose, sono state oggetto del traffico oltreconfine con la prospettiva di un “lavoro temporaneo” che si trasforma spesso in “lavoro forzato” o “sfruttamento della prostituzione” con decine di casi di abusi a sfondo sessuale. Secondo i più recenti dati diffusi dalla Corte suprema del Vietnam, sono almeno 63 le province interessate da casi di traffico di vite umane: “Fra il 2013 e il 2017, oltre 3.000 vittime hanno varcato i confini, il 90% delle quali in direzione della Cina. Il 90% di queste sono donne o ragazze, anche giovanissime, di cui l’80% provengono da minoranze etniche”. Tra le ong e le realtà della società civile che cercano di combattere questo traffico criminale, ci sono anche le locali diocesi che hanno in questi ultimi anni di pandemia promosso attività, campagne di sensibilizzazione e iniziative di sostegno a favore delle vittime, avvalendosi della collaborazione degli esperti e dei volontari della Caritas. La parrocchia di Tân Khai, nella diocesi di Phú Cường, per esempio ha promosso con l’ente caritativo cristiano di Bình Long un programma dedicato alle vittime del traffico, attraverso l’iniziativa intitolata “Prevenire gli abusi sessuali e combattere il commercio di persone in parrocchia”, un fenomeno ben conosciuto, per una realtà vicina alla frontiera con la Cambogia e in cui vivono ben 13 minoranze etniche diverse come i Stieng, Khmer, Tày, Thái e Nùng.
Il compito del programma è quello di informare sui molti modi “di seduzione” che usano i trafficanti per attirare le vittime nelle loro maglie. In particolare donne povere, adolescenti che vivono in circostante difficili e alla ricerca di qualche lavoretto per guadagnare i soldi necessari a sopravvivere. Sempre all'interno di questo programma la Caritas della diocesi di Phú Cường, ha avviato corsi di formazione e di sensibilizzazione contro il traffico di vite umane, mentre quella di Hà Tĩnh ha raccolto le testimonianze di molte sopravvissute: “Dobbiamo far conoscere e raccontare le conseguenze delle sofferenze patite dalle vittime. Sono costrette alla schiavitù sessuale o al lavoro forzato. Non hanno salario, vengono affamate, picchiate, maltrattate o talvolta vengono loro espiantati gli organi per il mercato nero”. In questo modo oratori e parrocchie sono diventati dei punti di riferimento per trovare linee guida e consigli utili da dare alle bambine e alle giovani donne, per capire come e dove cercare informazioni serie in merito a proposte di lavoro ed evitare così di finire nella rete degli sfruttatori. A quanti vanno all’estero la rete di diocesi vietnamita fornisce anche indirizzi di ambasciate, organizzazioni ed enti umanitari ai quali rivolgersi in caso di necessità.
Ma con la pandemia non solo è aumentato il numero delle donne trafficate, ma anche i matrimoni infantili, soprattutto in Bangladesh. Qui, secondo i dati di Girls Not Brides, il tasso di matrimoni infantili, cioè quelli in cui almeno uno degli sposi ha meno di 18 anni, è arrivato al 51%. L'età legale minima per il matrimonio sarebbe fissata a 18 anni, ma vi sono alcuni casi in cui si può scendere a 16 anni di età, casi che registrano un aumento del 13% per le spose bambine nel periodo segnato dal Covid-19, con un incremento che tocca un Paese già tra i primi 10 al mondo nelle statistiche sulla diffusione di questo fenomeno. “Veder crescere i matrimoni infantili nonostante la loro fine sia uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile è molto triste”, ha dichiarato Chandan Gomes, responsabile operativo di World Vision Bangladesh. Secondo un sondaggio svolto da questa ong il 95% delle famiglie in Bangladesh si sono trovate ad affrontare difficoltà economiche a causa della pandemia, aumentando sensibilmente la povertà nel Paese: “Come conseguenza molti genitori hanno combinato matrimoni per i loro figli”, ha spiegato Gomes. Un problema che tocca anche l'Europa. Nelle ultime settimane gli allarmi per un possibile traffico di donne e minori in fuga dalla guerra in Ucraina stanno aumentando in modo preoccupante.
Alessandro Graziadei
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