sabato 1 ottobre 2022

La “zuppa” di mare

 

È facile dimenticare quanto gli esseri umani e il resto del pianeta facciano affidamento sugli oceani per una molteplicità di servizi, come il cibo e la produzione di più del 50% dell’ossigeno del Pianeta. Ma cosa facciamo per conservarli? Troppo poco. Eppure, le analisi sul progressivo riscaldamento degli oceani e le criticità che ne derivano non mancano. L’ultima parte dalla Siberia ed è stata pubblicata  il 25 agosto su Nature Communications da un team internazionale di ricercatori guidato da Rashit M. Hantemirov dell’Istituto di ecologia vegetale e animale della Divisione degli Urali dell’Accademia delle scienze russa e dell’Università federale degli Urali. Con lo studio Current Siberian heating is unprecedented during the past seven millennia” Hantemirov è riuscito a creare una cronologia climatica secolare e precisa analizzando antichi alberi. Nella penisola siberiana di Yamal, infatti l’erosione sta portando alla luce antichi alberi che grazie agli anelli annuali è stato possibile datare permettendo una attendibile ricostruzione del clima dei millenni passati. Un'analisi capace di dimostrare la portata del cambiamento climatico: “nell’intero periodo considerato, nell’Artico le temperature non sono mai state così alte come negli ultimi 30 anni. Questo malgrado il fatto che il clima si sia raffreddato costantemente fino al 1850. Il riscaldamento registrato a partire dalla rivoluzione industriale è superiore a qualsiasi variazione naturale”. 


Per raccogliere un numero sufficiente di campioni di legno ci sono volute più di 20 spedizioni in  40 anni. I ricercatori, cercando tra i sedimenti dei fiumi, hanno trovato alberi conservati per centinaia di anni nel permafrost e li hanno tagliati in dischi. I campioni così prelevati sono stati poi misurati in laboratorio, dando vita a un’ampia raccolta di dati. I ricercatori, che comprendevano anche scienziati dell’Università di Ginevra e dell’Unità di ricerca climatica dell’Università dell’East Anglia hanno spiegato come questo tipo di approccio abbia consentito una ricostruzione accurata del clima visto che “Gli anelli degli alberi sono direttamente correlati alle temperature estive, che sono il fattore limitante della crescita annuale degli alberi nella penisola di Yamal […] Le nostre indagini forniscono una base unica per determinare con precisione annuale la velocità insolita con cui la penisola di Yamal si è riscaldata dal 1850in poi. Il riscaldamento sta raggiungendo temperature senza precedenti e questi dati ci aiutano a vedere l’entità dell’attuale riscaldamento con un ampio orizzonte temporale”. Le conseguenze sull'habitatInfinite e tutte preoccupanti, ma volendoci concentrare sull’acqua "calda" dei fiumi che dalla penisola di Yamal raggiungono il mare è possibile dire che con questo ritmo entro il 2100 circa più del 75% della vita marina sarà a rischio di estinzione. Questo significherebbe la morte di massa di migliaia di specie di animali, piante, protozoi e batteri che popolano i nostri mari e oceani, con drammatiche ricadute anche sulla sopravvivenza della nostra specie. 


A dirlo e senza troppi margini di approssimazione è stato lo studio “A climate risk index for marine life”, pubblicato lo scorso 22 agosto su Nature Climate Change da un team internazionale di ricercatori guidato dal biologo canadese Daniel Boyce della Dalhousie UniversityBoyce e il suo team di ricercatori hanno analizzato circa 25.000 specie marine di animali, piante e batteri e, dopo aver tenuto conto di fattori come la loro sensibilità ai cambiamenti climatici, la loro adattabilità e la misura in cui potrebbero esserne influenzati in futuro, hanno evidenziato che “Un numero sproporzionatamente elevato di specie di squali, razze e mammiferi è a rischio climatico elevato o critico e il  75% si estinguerà entro il 2100”. Secondo lo studio, inoltre, “Circa il 10% dell’oceano ha aree che combinano alto rischio climatico, endemismo (uno status di una specie che si trova solo in poche località definite) e una minaccia di estinzione per le specie. Molti ecosistemi che ospitano un’elevata biodiversità sono stati inclusi in quelle aree” come per esempio il Golfo di Thailandia, il Triangolo dei Coralli, l’Australia settentrionale, il Mar Rosso, il Golfo Persico, la costa dell’India, i Caraibi e alcune isole del Pacifico. Boyce  ha evidenziato come “Le minacce maggiori riguardano le specie all’apice della catena alimentare che vengono pescate, inclusi pesci palla, tonni e squali, soprattutto nei Paesi a basso reddito con un’elevata dipendenza dalla pesca". Secondo le previsioni degli scienziati il rischio è sistematicamente più alto per le nazioni che hanno uno status socioeconomico critico, nazioni a reddito più basso che tendono a essere più dipendenti dalla pesca e tendono ad avere una sicurezza alimentare e uno stato nutrizionale generale più delicato.


Come accade sulla terra ferma, lo studio ha anche scoperto che i principali predatori sono più a rischio di estinzione rispetto alle specie più in basso nella catena alimentare. La soluzione? Gli autori dello studio evidenziano che “La mitigazione del cambiamento climatico potrebbe ridurre i rischi per quasi tutte le specie esaminate, nonché migliorare la stabilità negli ecosistemi e avvantaggiare le popolazioni insicure dal punto di vista alimentare nei Paesi a basso reddito”. Per Boyce “Questo studio dovrebbe darci una forte motivazione per fare tutto il possibile per mitigare le nostre emissioni e concentrarci sull’evitare lo scenario peggiore. […] I risultati potrebbero essere utilizzati per dare priorità politica alla conservazione degli ecosistemi vulnerabili e prendere in considerazione la suscettibilità e l’adattabilità delle specie nelle strategie di gestione del clima”. Ne saranno capaci? 


Alessandro Graziadei

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