Abbiamo incontrato Michele Nardelli. Classe 1954, dal 2009 al 2014 presidente del Forum trentino per la pace e di diritti umani, si occupa da anni di pensiero laterale, politica, cultura e territorio, in un ottica “glocal” che caratterizza da sempre il suo impegno come autore, formatore e pensatore. Il suo ultimo libro “Inverno liquido” scritto a quattro mani con Maurizio Dematteis per la casa editrice Derive&Approdi, è un reportage realizzato lungo tutto l’arco alpino e la dorsale appenninica, con l’obiettivo di raccontare l’impatto della crisi climatica sulle terre alte e sui fragili ecosistemi che le compongono, soprattutto dove l’industria dello sci è ancora preponderante. Lo abbiamo invitato a parlarci del futuro delle Terre Alte (e non solo) e della nostra dismisura.
Iniziamo dal tuo ultimo libro. Come è nato questo “Inverno liquido” e cosa assimila Alpi ed Appennini?
MN: “Inverno liquido” nasce dalla volontà di indagare se e come le comunità locali si stiano interrogando sull’impatto che le crisi stanno avendo sugli ecosistemi e, nello specifico, della crisi climatica sulle terre alte. Interrogarsi su quel che accade alla nostra casa comune non è affatto banale, perché siamo di fronte ad un contesto per molti versi inedito. Per la prima volta, infatti, i cambiamenti climatici (non nuovi nella storia di Gaia) sono l’esito dell’agire umano e del modello di sviluppo che si è affermato in particolare nel XX secolo. Carattere inedito anche per la rapidità con cui questi cambiamenti stanno avvenendo, che rovescia il tradizionale disallineamento fra tempi storici (i tempi della vita dell’uomo, il cui scorrere è paragonabile ad un battito di ciglia se rapportato alla storia del pianeta) e tempi biologici (quelli della Terra). Tale rovesciamento fa sì che noi assistiamo nelle nostre brevi esistenze a cambiamenti che prima avvenivano in ere biologiche, come ad esempio la scomparsa dei ghiacciai nell’arco alpino. Una dimensione inedita che mette fuori gioco i paradigmi della modernità e a dura prova le nostre capacità di interpretare il passaggio di tempo in cui viviamo. Non basta rincorrere le emergenze, occorre una nuova consapevolezza e il susseguirsi sempre più frequente di eventi estremi ci dice che il tempo è pressoché scaduto. Con questo nostro viaggio fra l’arco alpino e la dorsale appenninica abbiamo cercato di indagare quanto ci si stia attardando nel “non più” del vecchio modello fondato sull’industria dello sci di massa e al tempo stesso quanto sia difficile fare emergere quel “non ancora” di cui pure avvertiamo l’urgenza, dando voce ai territori e alle persone che di questa complessa transizione sono i protagonisti.
Il turismo nelle Terre alte può essere ancora sostenibile o può solo ambire ad essere al massimo responsabile? E cos’è il turismo relazionale che spesso evocate in “Inverno liquido”?
MN: L’industria della neve ha rappresentato un modello economico e insieme culturale, che ha portato a considerare la montagna dapprima come luogo in cui dirottare una parte dei profitti dell’industrializzazione in cerca di redditività (la nascita dei comprensori sciistici), successivamente con l’affermarsi del turismo di massa nel prendere corpo di un indotto commerciale e un’inedita attività manifatturiera per la produzione di attrezzature, abbigliamento, accessori…, poi nella proliferazione delle seconde case come insana idea di inurbamento della montagna. L’industria dello sci di massa ha cambiato nell’arco di qualche decennio la vita e il volto delle nostre montagne. Pur nella diversità di ciascun territorio, si è affermato un modello che ha fatto prevalere l’aspetto quantitativo alla qualità dell’offerta, con l’effetto di trasferire la dimensione urbana in contesti fragili, spesso alterandone equilibri e natura. L’industria dello sci e l’arricchimento facile e veloce che ha portato con sé, ha avuto un carattere pervasivo, soppiantando progressivamente l’economia tradizionale dei luoghi, dall’agricoltura al pascolo, dalla lavorazione del legno al settore caseario. Le grandi strutture alberghiere hanno marginalizzato quelle a gestione famigliare imponendo filiere extraterritoriali e prezzi che a lungo andare hanno impoverito i territori. Una monocultura della neve che ha reso la montagna dipendente da un modello che ora mostra tutti i suoi limiti. Un po’ quello che è accaduto nella città industriali da tempo ormai alla ricerca di nuove identità. Solo che in montagna, per la sua fragilità, le crisi lasciano (e lasceranno) rovine che stridono ancora di più con la bellezza dei luoghi.
Uscire da questa monocultura significa costruire un nuovo equilibrio economico, sociale e culturale. Che corrisponde ad un’idea diversa di turismo che non omologa l’offerta, più attenta alla natura dei luoghi, alla loro storia e cultura, in una parola alla loro unicità. Il turismo relazionale è parte di questo disegno, si fonda proprio sul contatto diretto con le persone che di quel territorio si prendono cura ogni giorno, con la bellezza che ogni relazione porta con sé, con l’arricchimento profondo che ne viene, con le immagini e le sensazioni che ti porti a casa. Non sulle performance individuali ma su un diverso rapporto con la natura. Anche sugli sci, ma nella riscoperta della lentezza e della profondità. Ne parliamo diffusamente nel nostro libro, dalla Valpelline alla val di Funes, da Succiso al monte Mutria.
Il cambiamento climatico ci dovrebbe impegnare in un serio processo di mitigazione e di adattamento. Stiamo facendo abbastanza su questi due fronti e intravedi delle opportunità per le Terre alte in questo processo?
MN: Mitigazione e adattamento sono parole che hanno a che fare con il concetto di resilienza. Concetto che indica un carattere peculiare di ogni forma di vita. Ogni essere vivente è per sua natura resiliente, ovvero tende ad adattarsi ai cambiamenti. Una pianta ricerca la luce del sole, un animale cerca un habitat congeniale al suo vivere e moltiplicarsi, gli esseri umani organizzano i loro nuclei abitativi dove le condizioni sono più favorevoli e così via. Se ci pensiamo, la resilienza è all’origine anche dei processi migratori.
Una piccola parentesi. L’homo detto sapiens – per la verità – ha saputo andare oltre, costruendo un ambiente artificiale che ha fatto progressivamente smarrire il proprio rapporto con la natura, guardata con ostilità perché chiede a ciascuno di noi di fare i conti con la cultura del limite. Come scrive Hannah Arendt: «Quanto più una civiltà è evoluta, quanto più completo è il mondo da essa creato, quanto più familiare gli uomini trovano questo ambiente «artificiale», tanto più essi si sentono irritati da quel che non hanno prodotto, da tutto ciò che è loro misteriosamente dato».
Ma se la risposta ai cambiamenti non va alla radice di quanto sta avvenendo, mitigazione e adattamento non risolvono il problema, talvolta lo aggravano. Con l’attuale sistema energetico basato sui combustibili fossili, la risposta ai picchi di calore non può essere l’aria condizionata. Si pone, in altre parole, il tema del cambiamento, del nostro modello di sviluppo, dei nostri stili di vita, del nostro rapporto con la natura di cui siamo piccolissima parte.
Resilienza e adattamento sono passaggi fondamentali, ma non bastano. Siamo sempre fermi alla riparazione dei danni, al risarcimento e alla ricostruzione, ma in pochi (uno di questi sei tu) parlano anche di un radicale cambiamento del modello di sviluppo e di cultura del limite…
MN: No, non bastano. Siamo andati oltre e dobbiamo tornare sui nostri passi. Certamente per mitigare gli effetti delle crisi sugli ecosistemi, ma soprattutto per rientrare in un contesto di sostenibilità che abbiamo superato da tempo. È infatti dal 1972 che consumiamo più di quanto gli ecosistemi terrestri riescono annualmente a produrre. Proprio in quell’anno gli scienziati riuniti nel Club di Roma elaborarono il famoso “Rapporto sui limiti dello sviluppo”. Scrissero in buona sostanza che se il pianeta avesse continuato con il tasso di crescita in corso il pianeta entro un secolo sarebbe diventato insostenibile. Vennero additati come catastrofisti. Erano semmai ottimisti, considerato che le loro previsioni si sono avverate in mezzo secolo. Tanto che oggi l’impronta ecologica della terra ci dice che consumiamo quasi il doppio di quanto sarebbe lecito, ovvero che qualcuno consuma tre o quattro volte quel che potrebbe a fronte di una parte del pianeta che vive di stenti.
In questo le terre alte, paradossalmente più fragili ed esposte agli effetti dei cambiamenti climatici possono rappresentare il luogo di un ripensamento di fondo e di una possibile rinascita. Pensiamo al ripopolamento dei borghi abbandonati, ad un’attenta gestione delle risorse naturali, al loro rappresentare un’idea di relazioni e di co-evoluzione con la natura. Se invece continueremo a rincorrere quelle che chiamiamo emergenze e che in realtà altro non sono che l’iceberg di crisi strutturali, non faremo altro che aggravare il problema. L’approccio emergenziale induce verticalità di comando, quando invece noi abbiamo bisogno di un approccio diverso, orizzontale, che poi significa coinvolgimento partecipativo, responsabilità e coesione sociale. Quello che non è avvenuto con il PNRR, nel finanziamento di vecchi progetti tirati fuori dai cassetti dove l’insostenibilità li aveva rinchiusi. Non serve rilanciare sul solco precedente. Per riprendere l’espressione di Laura Conti «… il momento in cui fermarsi è più facile è ora. Ora è più difficile di ieri, ma è più facile di domani». Da quando Laura scriveva queste parole sono trascorsi quarant’anni, ma non ci siamo fermati ed ora è più difficile che mai.
Secondo te le nostre resistenze ai cambiamenti imposti dal clima derivano più da sottovalutazioni, “interessi fossili”, o dalla mancanza di strumenti legati a una mentalità non più al passo con i tempi?
MN: Le resistenze ai cambiamenti sono di natura diversa. La prima e forse più importante è che noi tutti siamo figli del positivismo. Di una modernità il cui orizzonte erano le magnifiche sorti progressive dello sviluppo, che si declinasse nella società dell’abbondanza o nel “sol dell’avvenir” in fondo non cambiava di molto. Se pensiamo che ancora nel 1960 consumavamo la metà di quanto gli ecosistemi erano in grado di produrre, il tema era quello di una distribuzione equa delle risorse. Tema che pure permane, ma che oggi è sovrastato, come dicevo, dall’impronta insostenibile del genere umano sul pianeta. Il modello consumistico si è affermato in ogni parte del pianeta, se non altro come aspirazione. Siamo disponibili a riconsiderare il nostro stile di vita, la nostra sudditanza al possesso di cose spesso inutili, in nome del “fare meglio con meno”? Ci sono poi interessi consolidati, “fossili” come li definisci tu, per cui fin quando questo modello tira e movimenta interessi speculativi tutto va bene, poi si vedrà. Una dimensione finanziaria che si autoalimenta e fin quando la bolla non scoppia si continua a rilanciare. Alimentata dall’idea di un turismo mordi e fuggi, che si disinteressa alla bellezza del paesaggio o che semplicemente non sa più riconoscerla, che sia una montagna, un tratto di mare, un borgo antico. Non molto diversa dal concepire la vacanza come spazio omologante rispetto a mode o cliché che vengono proposte in resort più o meno ricchi, uguali in ogni latitudine.
Per il noto giornalista britannico Olivier Burkerman, “Se una cricca di psicologi malvagi si fosse radunata in una base sottomarina segreta per ordire una crisi che l’umanità sarebbe stata irreparabilmente impreparata a fronteggiare, non avrebbe potuto escogitare di meglio dei cambiamenti climatici”. Per lo scrittore americano Jonathan Safran Foer “l’emergenza ambientale non è una storia facile da raccontare e, soprattutto, non è una buona storia: non spaventa, non affascina, non coinvolge abbastanza da indurci a cambiare la nostra vita”. L’enigmatico titolo di un tuo precedente libro, “Il monito della ninfea” riprendeva un saggio di Remo Bodei: “Resta pur sempre valido il monito espresso dall’immagine della ninfea che raddoppia quotidianamente le sue dimensioni, di modo che, il giorno che precede la copertura dell’intera superficie dello stagno la metà ne resta ancora scoperta, per cui quasi nessuno, alla vista di tanto spazio libero, è portato intimamente a credere all’imminenza della catastrofe”. Davanti a queste più che realistiche analisi, torna la celebre domanda “Che fare?
MN: Vedo crescere una moderna forma di nichilismo che porta molte persone a scegliere di non vedere. A sottrarsi dalla realtà nel desiderio del piacere “qui ed ora”, senza porsi troppe domande sul futuro. Oppure, più semplicemente, a rimuovere la realtà per non farsi travolgere dal dolore del mondo. Di fronte ad una guerra che devasta un paese europeo e che rischia di diventare nucleare cioè globale, ad una pandemia che entra nelle nostre vite lasciando dietro di sé una scia di almeno sette milioni di morti, al dramma quotidiano che ha trasformato il Mediterraneo – come scriveva l’amico Predrag Matvejevic – in un profondo sepolcro, ad un clima “fuori dai gangheri” che genera sempre più frequentemente eventi estremi come un ciclone extratropicale che irrompe nelle Dolomiti e spazza via milioni di alberi (con conseguenze ancora più drammatici come quelle causati dalla abnorme proliferazione del bostrico tipografo), scegliamo di rivolgere il nostro sguardo altrove, avvinghiandoci con cattiveria ad una nostra presunta “comfort zone”, immaginando di restarne fuori. Ma come abbiamo scritto «Non ci si salva da soli. Occorre incrociare gli sguardi, condividere le conoscenze, tessere le trame di alleanze ampie e plurali, dando vita a sempre più strutturate comunità di pensiero e azione. Per essere interpreti di un cambio di paradigma non più rimandabile. Per pensare insieme il mondo a venire». Così abbiamo inteso “Inverno liquido” come un numero zero, il primo passo di un collettivo di scrittura attorno ai nodi del passaggio epocale che stiamo attraversando.
Certo, dovremmo far nostro il monito della ninfea, ma preferiamo ascoltare quel che vogliamo sentirci dire. “Andrà tutto bene”, senza capire che il problema è la normalità.
Grazie Michele per il tuo tempo e le tue spiegazioni.
Alessandro Graziadei
Articolo uscito anche su Abitarelaterra.org
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