Abbiamo intervistato la Prorettrice alle politiche di equità e diversità dell’Università di Trento Barbara Poggio. Impegnata in studi di genere con competenze in materie come le disuguaglianze di genere e la gestione dell’inclusione e della diversità, con lei abbiamo provato a capire come si muove e come cambia (e se lo fa) la politica e la società trentina attorno a questi importanti temi.
Professoressa Poggio, grazie della disponibilità. Negli ultimi anni il tema delle differenze di genere è diventato sempre più centrale, e dal 2007 l’Università di Trento ha fondato un Centro Studi Interdisciplinare di Genere che ha coordinato a lungo. Quali sono le principali ricerche che avete portato avanti, con quali lenti interpretative e come sono cambiate nel tempo le disuguaglianze di genere dal vostro osservatorio di ricerca?
BP: In quanto centro interdisciplinare che raccoglie studiose e studiosi di varie discipline e dipartimenti, le iniziative di ricerca portate avanti sono molteplici e riguardano vari ambiti, dal lavoro alla politica, dalla violenza di genere ai percorsi educativi, dalla tecnologia alla salute. Tra i principali progetti portati avanti negli ultimi anni segnalo in particolare alcuni progetti sull’educazione alla relazione di genere, sulle asimmetrie di genere nelle carriere scientifiche, sulle molestie nei luoghi di lavoro, sul bilancio di genere negli enti pubblici, sulla segregazione di genere in vari contesti (dal mondo sindacale a quello politico), sulla trasmissione intergenerazionale della violenza di genere.
La principale lente interpretativa è appunto quella del genere, inteso come costruzione e pratica sociale, culturalmente situata. L’attenzione non è legata soltanto a mettere in luce la presenza di rilevanti asimmetrie di genere nei diversi contesti, ma ad analizzarne le cause e le implicazioni. Nel tempo è inoltre cresciuta l’enfasi sulla dimensione dell’intersezionalità, ovvero alla sovrapposizione tra diverse articolazioni della disuguaglianza.
Quanto è importante la componente divulgativa delle vostre ricerche e come viene portata avanti?
BP: La dimensione divulgativa è molto importante, perché gli studi di genere si caratterizzano anche per un orientamento ad incidere sul contesto sociale, promuovendo una maggiore equità (di genere, ma non solo). In tal senso non solo cerchiamo di dare visibilità agli esiti delle attività realizzate, ma spesso lavoriamo in una prospettiva partecipativa, attraverso il ricorso alla ricerca-intervento, che coinvolge i destinatari anche nel disegno progettuale.
Prima di arrivare al contesto trentino, almeno geograficamente, partiamo da lontano. Il premio Nobel per la Pace 2023 appena assegnato è andato a Narges Mohammadi (in foto) attivista iraniana per i diritti delle donne, in carcere dal 2016, un segnale importante per il riconoscimento del coraggio di molte attiviste e cittadine iraniane. Il Nobel per l’economia di quest’anno è invece andato alla statunitense Claudia Goldin per la sua ricerca sull’occupazione femminile e le differenze di genere. L’Accademia svedese è lo specchio di una maggiore attenzione alle tematiche di genere o viceversa ha voluto ricordare che occorre fare di più su queste questioni?
BP: Credo che valgano entrambe le letture. Da un lato i premi a Narges Mohammadi e Claudia Goldin riflettono una maggiore consapevolezza presente nella società e anche nell’Accademia svedese del ruolo delle donne nella società, dopo un lungo tempo di scarsa considerazione, soprattutto in alcuni ambiti scientifici, dall’altro si tratta anche di un riconoscimento rispetto alla rilevanza delle istanze da loro portate avanti (dalla questione dei diritti a quella delle asimmetrie presenti nel mondo del lavoro) e quindi un invito globale a dedicarvi maggiore attenzione e impegno.
Come nel 1975, il 24 ottobre scorso le donne islandesi si sono astenute dal lavoro per un’intera giornata per protestare contro la violenza di genere e la disparità salariale. Nonostante l’Islanda sia il primo Paese al mondo per uguaglianza di genere, il gap salariale è ancora troppo elevato e quasi la metà della popolazione femminile ha dichiarato di aver subito almeno una volta nella vita violenza di genere o sessuale. A pochi giorni dalla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre, qual è la situazione italiana su salari e violenze?
BP: Violenza di genere e disparità salariale sono fenomeni universali, anche se in paesi diversi si presentano con differente intensità. Nonostante l’Islanda sia un paese molto più virtuoso di altri su questo fronte, persistono ancora significativi squilibri e questa è la ragione per cui le donne islandesi hanno scioperato e sono scese in piazza. La situazione italiana è sicuramente più critica rispetto a quella Islandese (nella stessa classifica mondiale sulla parità di genere in cui l’Islanda occupa la prima posizione, l’Italia è al 79° posto, dopo aver perso 16 posizioni in un solo anno) e lo è su molteplici fronti a partire dalle opportunità di partecipazione economica (104° posto). Per quanto riguarda in particolare la violenza non è facile operare confronti internazionali vista la ancora limitata presenza di dati e le modalità di raccolta non omogenee, cui si aggiunge il fatto che il maggior numero di denunce emerge proprio in quei contesti in cui esiste maggiore consapevolezza sul tema. Sta di fatto che comunque la violenza di genere, nelle sue diverse forme – che vanno dalle molestie sul lavoro, alla violenza digitale, ai femminicidi – risulta ancora molto presente in Italia e in alcuni ambiti anche in crescita, anche a causa di una cultura diffusa che tende a sottovalutarne la gravità.
È possibile pensare ad una manifestazione analoga anche in Italia?
BP: In occasione dell’8 marzo da alcuni anni varie associazioni femministe aderiscono alla manifestazione Lotto Marzo, che prevede anche uno sciopero, però l’adesione è sicuramente più contenuta e meno diffusa. Le ragioni possono ancora una volta essere attribuite al fatto che in Italia il grado di consapevolezza rispetto alle questioni legate alle diseguaglianze di genere è ancora piuttosto limitato rispetto ad altre realtà occidentali, anche tra le stesse donne. L’adesione a manifestazioni di questo tipo è consistente solo laddove si riconosce l’esistenza e la gravità di un problema. Nonostante in Italia le diseguaglianze siano più consistenti che in altri paesi (o forse proprio per questo), la consapevolezza che esse siano un problema e che possano essere affrontate e superate anche attraverso un impegno collettivo è ancora poco presente, anche se qualcosa sta cambiando nelle generazioni più giovani.
Le disuguaglianze di genere si presentano spesso come una sommatoria di più fattori. Quali sono i principali e quali quelli che più ostacolano la parità di genere?
BP: Le disuguaglianze di genere rappresentano un fenomeno complesso e trasversale a molti diversi ambiti, a partire dalle famiglie, passando per la scuola e i contesti educativi, per arrivare al mondo del lavoro e della politica, così come a quelli della scienza, dello sport, dello spettacolo e così via. Si presentano in forme differenti, dalla segregazione orizzontale (diversa presenza di donne e uomini di diversi contesti) a quella verticale (una presenza decrescente di donne al salire delle posizioni decisionali), dalle discriminazioni esplicite alle diverse forme di violenza di genere. Tali disuguaglianze non sono il prodotto di fattori naturali e fisiologici, ma il frutto di specifiche costruzioni sociali che cambiano sia storicamente che culturalmente. Tra i principali ostacoli alla parità di genere troviamo sicuramente gli stereotipi di genere, ovvero delle generalizzazioni semplificate che tendono ad attribuire a uomini e donne caratteristiche e comportamenti tipici a partire da corpi diversamente sessuati. Gli stereotipi da un lato tendono a condizionare i comportamenti e le scelte delle persone che ne sono oggetto e dall’altro portano a penalizzare i soggetti che si discostano dalle aspettative associate alle categorie di appartenenza.
E quali sono i provvedimenti legislativi e le pratiche dal basso, necessari per meglio appianare questi squilibri?
BP: Trattandosi di un fenomeno complesso non esistono ovviamente soluzioni singole o semplici, ma sono necessarie una pluralità di interventi di diversa natura, dagli interventi normativi – tra cui l’introduzione di azioni positive (es. quote), le politiche per favorire l’equilibrio vita-lavoro, le premialità e gli incentivi economici, i sistemi di certificazione e monitoraggio (come i bilancio di genere) – agli interventi culturali, che richiedono tempi più lunghi, ma hanno maggiore efficacia. Tra questi ultimi si segnalano in particolare le iniziative educative e formative, le azioni di sensibilizzazione, gli interventi sulle culture organizzative, la valorizzazione dei modelli di ruolo nella società.
Dalla sua introduzione lo schwa ha contribuito ad allargare il dibattito in corso da alcuni anni su come rendere l’italiano una lingua più inclusiva e meno legata al predominio del genere maschile. Oggi la lingua è ancora uno dei principali indicatori delle asimmetrie di genere?
BP: Sì, certamente, la lingua è da un lato uno specchio della società e ne riflette le asimmetrie esistenti, riproducendole, a parte dalla sottorappresentazione femminile in alcuni ambiti e posizioni. Al contempo può però anche essere un veicolo di cambiamento, perché il linguaggio costruisce la realtà (ciò che è nominato esiste, ciò che non è nominato è invisibile), per cui adottare strategie inclusive di uso del linguaggio è sicuramente un modo per riconoscere l’esistenza e il ruolo di diverse categorie, a partire dalle donne, nella società. Proprio per il fatto che mettono in discussione strutture consolidate, tali iniziative incontrano ancora rilevanti resistenze.
Da appartenente al genere maschile, figlio di una cultura ancora patriarcale, e da giornalista, mi rendo conto che la strada da fare contro ogni molestia e discriminazione è ancora tanta, sia a livello culturale che a cascata nella mia professione. Quali sono gli errori, orrori e stereotipi più frequenti da evitare per migliorare la comunicazione dei temi di genere a tutti i livelli (privato e pubblico)?
BP: Tra i fattori che creano un terreno favorevole alla violenza di genere vi è in effetti anche la rappresentazione mediatica della violenza: modalità di comunicazione che insistono su vittimizzazione e sensazionalismo, retoriche giustificatorie, scarso approfondimento, enfasi su comportamenti delle vittime (stile di vita, aspetto fisico, abitudini sessuali) e non sulle relazioni, fino all’utilizzo di linguaggi sessisti rischiano di sminuire la gravità del fenomeno e di riprodurre i bias culturali che ne sono alla base, non aiutando a comprenderne le cause e a promuovere un effettivo cambiamento.
Negli ultimi anni a livello trentino, italiano (e non solo) la ricerca sul genere e le sue applicazioni pratiche hanno dovuto fare i conti con una diffidenza quando non un’avversione politica e a volte anche dei media molto forte. Un esempio a livello provinciale è stata la cancellazione dei corsi di educazione alla relazione di genere nelle scuole. Quale “rischio” ha intravisto la politica e talvolta anche il mondo della comunicazione in questo tipo di ricerche e di proposte?
BP: Adottare una prospettiva di genere ha certamente implicazioni rilevanti, perché si mette in evidenza il fatto che le diseguaglianze che attraversano la nostra società non sono naturali e quindi immodificabili, ma sono il frutto di una costruzione sociale e quindi possono essere superate e questo genera molta apprensione in gruppi e movimenti legati a una visione tradizionale della società e della divisione dei ruoli. Questo fa sì che vengano diffuse letture distorte degli interventi per la parità di genere, soprattutto quelle legate ai percorsi educativi (che sono peraltro la strada privilegiata per promuovere la parità di genere), in cui si afferma che tali interventi siano in realtà mirati a trasformare i bambini in esseri mutanti, promuovendo pratiche come la pedofilia e la pornografia. Il che ovviamente non ha alcun fondamento, ma serve a generare ansia e panico nelle famiglie. Tra le retoriche dominanti in questi gruppi vi è quella secondo cui di temi come la violenza di genere si deve parlare solo all’interno delle famiglie e non a scuola, dimenticando tuttavia che la violenza di genere è un fenomeno che ha luogo soprattutto all’interno delle famiglie.
Secondo lei perché le conseguenze delle disparità e della violenza vengono spesso sminuite o fatte ricadere sulle vittime?
BP: Proprio per le ragioni culturali di cui si parlava prima. In un contesto dove prevale una cultura di genere tradizionale, che attribuisce a donne e uomini ruoli e posizioni fortemente asimmetrici, si fa fatica a riconoscere che la violenza sia un problema fisiologico, legati ai modelli di genere dominanti, e non una questione riconducibile a singoli casi patologici. E questo avviene in diversi contesti: dai commissariati e le caserme in cui si denuncia, agli ospedali, ai media, ai social, all’opinione pubblica più in generale. In tal modo così le donne subiscono una seconda aggressione e finiscono a loro volta per autocolpevolizzarsi.
Infine, in settembre ha partecipato a Trento all’incontro “Genere e cooperazione internazionale”, in memoria di Giorgia Depaoli. Cosa è emerso attorno all’attuale approccio di genere e diversità nei progetti di cooperazione internazionale?
BP: Dall’incontro è emerso come anche all’interno del mondo della cooperazione sia cresciuta l’attenzione nei confronti delle disuguaglianze di genere, così come gli interventi che adottano una prospettiva di genere, se non intersezionale. Inizialmente sono stati adottati approcci focalizzati sull’empowerment delle donne, a partire dal riconoscimento di fenomeni come la povertà e la subordinazione femminile, in molte aree del mondo, così come del ruolo cruciale che le donne possono giocare per lo sviluppo sociale. In anni più recenti si è passati ad approcci più orientati ad una prospettiva di genere, che quindi considerano maggiormente le relazioni tra donne e uomini e gli squilibri di potere, così come a letture di carattere ‘post-coloniale’, che evitano di imporre i modelli dominanti nei paesi occidentali, partendo dall’ascolto delle realtà locali e soprattutto dei soggetti più vulnerabili e solitamente meno considerati (tra cui appunto le donne), sostenendone priorità e proposte.
Professoressa Poggio grazie mille per il suo tempo e le sue spiegazioni!
Alla luce del 105esimo femminicidio di quest'anno, questa volta di Giulia Cecchettin, chiudiamo il pezzo rilanciando il commento apparso sul suo profilo Facebook della Professoressa Barbara Poggio:
"Giulia Cecchettin ha l’età delle mie figlie. Giulia ha l’età delle ragazze che incontro in aula. Giulia, picchiata e uccisa da un “bravo ragazzo” che non vuole che si laurei e scelga una vita senza di lui.Giulia, matricola 105 nella intollerabile conta di donne morte per mano di uomini che non sanno accettarne la libertà.Giulia, ultima vittima di una cultura di genere tossica, che questo paese continua ad alimentare.Per Giulia ci si indigna, per Giulia si piange, per Giulia si invoca giustizia, per Giulia si chiede vendetta. Ma anche di Giulia ci si dimenticherà in fretta per piangere la prossima, matricola 106. E l’unica cosa che anche questa volta non verrà fatta, in nome di Giulia e di tutte le altre, sarà cercare di cambiare quella cultura in cui trova cittadinanza la loro morte, lavorando sull’educazione. Perché per chi governa questo paese, così come il territorio in cui vivo, questo sistematico stillicidio di donne è un costo tutto sommato accettabile per poter garantire la persistenza del vecchio e rassicurante modello patriarcale. E in fondo ha anche una sua intrinseca utilità, perché ricorda a Giulia, e a tutte le altre, qual è il loro posto nella società. Qual è il nostro posto in questa società".
Di Alessandro Graziadei
Articolo uscito anche su Abitarelaterra.org
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