Non so voi, ma io quando penso all'Amazzonia penso ad una foresta che non solo per anni ha popolato il mio immaginario equatoriale ricco di biodiversità, ma penso ad un'area che è oggi il più grande polmone verde della terra. Ma lo è ancora? Lo studio “Critical slowing down of the Amazon forest after increased drought occurrence” pubblicato su PNAS a maggio di quest'anno ha previsto che entro il 2050 tra il 10% e il 47% dell’Amazzonia potrebbe essere sull’orlo di un punto di non ritorno. Analizzando i tempi di recupero attraverso le variazioni mensili tra 2001 e 2019 della colorazione delle foglie ricavate da dati satellitari, un gruppo di ricercatori dell’Università di Lovanio in Belgio, ha capito che la regione meridionale dell’Amazzonia, dove si concentra la maggior parte delle attività antropiche, mostra un “rallentamento critico” nella risposta alla ripresa dalla siccità della foresta. Il rallentamento critico è un fenomeno in cui i sistemi naturali mostrano un recupero idrico molto più rallentato che li avvicina a un progressivo degrado. Così anche se la maggior parte dell’Amazzonia non sta vivendo un rallentamento critico, le aree con precipitazioni variabili, sono oggi maggiormente suscettibili a questa tendenza.
La professoressa Johanna Van Passel e i suoi colleghi hanno evidenziato come l'Amazzonia abbia già vissuto tre siccità estreme nell'arco di 20 anni e si prevede che tali siccità diventeranno sempre più frequenti a causa dei cambiamenti climatici che hanno causato un aumento della frequenza, dell’intensità e della durata della siccità e dei suoi conseguenti “rallentamenti critici”. In un clima senza riscaldamento globale antropico, questi fenomeni si dovrebbe verificare solo una volta ogni 100 anni, ma adesso è diverso. “Il colore della chioma degli alberi può darci informazioni sulla salute e la resilienza della foresta - ha spiega Ben Somers, co-autore della ricerca - Il colore cambia sempre nel corso delle stagioni, ma se nel corso degli anni gli alberi hanno bisogno di sempre più tempo per riprendersi, allora c’è qualcos’altro in gioco. In questo caso si parla appunto di rallentamento critico, che potrebbe significare che l’ecosistema sta per raggiungere un punto di non ritorno verso il deperimento delle foreste su larga scala e alla fine si trasformerebbe in un sistema degradato con meno diversità e complessità”. A quanto pare per il momento, il punto di non ritorno non è ancora stato innescato, ma lo studio registra un sensibile rallentamento nei tempi di recupero dell’Amazzonia a partire dal 2015 e secondo gli autori, l’aumento dei casi di siccità in Amazzonia potrebbe espandere le aree forestali che subiscono questo rallentamento critico, portando potenzialmente al collasso locale degli ecosistemi forestali.
Secondo la Re Soil Fondation, che si occupa da decenni di salvaguardare uno dei beni più importanti e allo stesso tempo sottovalutati del Pianeta, il suolo, l’eccezionale siccità registrata nel Bacino dell’Amazzonia in particolare nel corso del 2023 è uno dei più drammatici effetti del cambiamento climatico. Il fenomeno sarebbe legato al rialzo generale delle temperature e al conseguente riscaldamento periodico delle acque superficiali dell’Oceano Pacifico Centro-Meridionale e Orientale nei mesi invernali che si verifica mediamente ogni cinque anni. A sostenerlo è anche un recente studio che ha coinvolto, tra gli altri, i ricercatori dell’Imperial College di Londra e dell’Universidade Federal do Rio de Janeiro. In questo studio “Scienziati brasiliani, olandesi, britannici e statunitensi hanno utilizzato metodi pubblicati e sottoposti a peer-review per valutare se e in che misura la siccità sia stata influenzata dai cambiamenti climatici e da El Niño, notoriamente associato alla presenza del fenomeno in Amazzonia”, si legge in una nota diffusa ad inizio anno dal World Weather Attribution (WWA), specializzato nell'analisi dell’incidenza degli eventi estremi.
L’indagine che ha preso in esame proprio l’eccezionale ondata di siccità che ha colpito quest'area equatoriale lo scorso anno ha evidenziato come il fenomeno si sia manifestato, sia sul fronte meteorologico, con un basso livello di precipitazioni, che nel suolo con una forte incidenza del rilascio dell’acqua. Un dato importante visto che “La variabile principale utilizzata per caratterizzare la siccità agricola è l’indice di Evapotraspirazione Precipitativa Standardizzata (SPEI) che utilizza la differenza tra le precipitazioni e l’evapotraspirazione potenziale stessa per stimare la disponibilità di acqua”, ha spiega il WWA. A livello meteorologico, invece, il fenomeno è descritto da un indice noto come Standardised Precipitation Index (SPI) e basato soltanto sulle piogge. Secondo gli scienziati i livelli di siccità osservati sono assolutamente eccezionali, e “Più i valori sono negativi come in questo caso, più la siccità è classificata come grave”.
Per gli autori dello studio “L’oscillazione del Niño ha contribuito certamente ad alimentare il fenomeno, ma il rialzo delle temperature avrebbe avuto in realtà un ruolo più rilevante” perché “La forte tendenza all’inaridimento è stata quasi interamente dovuta all’aumento delle temperature globali, ragion per cui la gravità della siccità attualmente in corso è in gran parte determinata dai cambiamenti climatici”. Combinando l’analisi degli indici con i modelli climatici gli scienziati hanno evidenziato come la probabilità che si verifichi la siccità meteorologica sia aumentata di dieci volte, mentre la siccità del suolo è diventata circa trenta volte più probabile. Questo specifico problema del suolo anche dell'Amazzonia era già noto, tanto che lo scorso anno, uno studio cinese pubblicato su Science, ha osservato come la siccità lampo, ovvero il fenomeno della carenza idrica improvvisa, stia diventando sempre più frequente su scala globale proprio a causa del cambiamento climatico. L’intensificazione di questo fenomeno interesserebbe negli ultimi 64 anni il 74% delle regioni globali identificate dal Rapporto speciale sugli eventi estremi dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). In Amazzonia in particolare l’esposizione agli impatti della siccità è stata aggravata da pratiche storiche di gestione della terra, dell’acqua e dell’energia, tra cui la deforestazione, la distruzione della vegetazione, gli incendi, la combustione di biomassa, l’agricoltura industriale, l’allevamento di bestiame e altri problemi socio-climatici di non facile risoluzione. Rischiamo così di compromettere per sempre il nostro polmone verde e la vita sulla terra.
Alessandro Graziadei
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