sabato 25 ottobre 2025

Rinnovabili VS nucleare

 

Nel 2023 i nuovi investimenti nelle energie rinnovabili hanno raggiunto quota 623 miliardi di dollari. Quelli dedicati all’energia atomica sono stati di circa 32,7 miliardi di dollari. Come mai? Perché già nel 2023 le energie rinnovabili totali hanno raggiunto i 3,9 TW di capacità installata (di cui 1,4 TW solo di fotovoltaico) coprendo circa il 43% di quella elettrica globale. Merito soprattutto dello sviluppo di eolico e fotovoltaico con i loro 460 GW aggiuntivi rispetto al 2022. Nel contempo la capacità nucleare operativa del 2023 è rimasta relativamente stabile, aumentando in modo quasi insignificante da 350 GW a 364 GW. Un anno fa il World Nuclear Industry Status Report 2024, il rapporto sullo Stato dell’industria nucleare 2024, redatto annualmente da un nutrito gruppo di esperti internazionali, confermava questo trend sostenendo che “L’energia nucleare affronta una crescente minaccia competitiva da parte delle energie rinnovabili, con il costo livellato dell’energia (LCOE) sia per l’eolico che per il fotovoltaico su scala di pubblica utilità ora ben al di sotto di quello dei nuovi reattori”

Il documento, che offre un quadro del settore tracciandone i principali sviluppi in termini di tecnologie, produzione e nuova capacità sia a livello mondiale che nazionale, riporta al suo interno uno speciale capitolo di approfondimento dedicato alla comparazione tra energia dell’atomo e fonti rinnovabili. Quello che emerge da questo focus è che “Le green energy superano costantemente il nucleare in termini di costi e velocità di implementazione” tanto che ormai “Sono preferite all’energia nucleare nella maggior parte dei Paesi”. Dal 2009 al 2024, il costo medio dell'energia elettrica per il fotovoltaico è sceso da 359 a 61 dollari per MWh. Quello dell’eolico a terra è passato da 135 a 50 dollari per MWh. Al contrario, l’LCOE del nucleare è aumentato nello stesso periodo da 123 a 182 dollari per MWh al punto da renderla “la fonte di energia su scala utility più costosa”. Questo significa che in un mondo dove gli interessi fossero guidati da principi di buon senso e sostenibilità, la finanza e la politica dovrebbero dedicare alle rinnovabili maggiore attenzione, con volumi di investimento in crescita, visto che oggi la capacità installata delle rinnovabili fa ombra ai reattori e “Il solo parco fotovoltaico mondiale supera la capacità nucleare in esercizio di circa quattro volte”.

Anche secondo il rapporto Global Nuclear Power Trackerpubblicato quest'anno dalla Global Energy Monitor, il nucleare, energia non rinnovabile ma a lungo considerata strategica per ridurre le emissioni climalteranti, si trova oggi in difficoltà a competere con la rapidità di crescita delle energie rinnovabili. L’energia atomica, infatti, paga il peso di infrastrutture sempre più vecchie, di nuove tecnologie ancora lontane dal concretizzarsi, del problema della sicurezza e della gestione delle scorie e dei costi di costruzione decisamente fuori scala rispetto alle alternative rinnovabili. I numeri messi in fila da questo nuovo rapporto non lasciano dubbi e la situazione europea appare ancora più chiara: “Nel Vecchio Continente sono andati persi 122 GW di capacità nucleare pianificata, più di quanto qualunque singolo Paese oggi abbia in esercizio. A questo bilancio vanno aggiunti 68 GW di reattori già ritirati e un parco impianti che invecchia rapidamente: il 90% delle centrali ancora in funzione ha più di 35 anni, un fattore che apre il tema della sicurezza, degli elevati costi di manutenzione e delle difficoltà a programmare una sostituzione credibile in tempi utili per gli obiettivi climatici”. Le rinnovabili europee oggi contano su oltre 600 GW di progetti eolici e solari su scala industriale in fase di pre-costruzione o già in costruzione, un volume quattordici volte superiore a quello del nucleare nello stesso stadio di sviluppo. Inoltre, “La gran parte di questa nuova capacità sarà operativa molto prima dei reattori in cantiere: per solare ed eolico i tempi medi di realizzazione variano da uno a quattro anni, contro i dieci o più richiesti per una centrale nucleare”.

Si tratta di un dato importante, perché questo evidente divario temporale nello sviluppo delle due diverse fonti energetiche è fondamentale se vogliamo provare ad arrestare il cambiamento climatico. Il tempo che ci rimane per limitare l’aumento delle temperature globali entro la soglia di 1,5-2°C è poco, anzi pochissimo (sempre se siamo ancora in tempo). In questo contesto, il nucleare appare poco adatto a contribuire in modo decisivo alla transizione energetica visto i cicli di costruzione troppo lunghi e l’alto rischio di cancellazione dei progetti, che rendono l’atomo una tecnologia nell'immediato decisamente meno efficace per garantire la rapida riduzione delle emissioni. Per Joe Bernardi, Project Manager del Global Nuclear Power Tracker, “Il nucleare resta indietro rispetto all’eolico e al solare in termini di costi, tempi di costruzione e crescita del mercato”. L’esempio di Hinkley Point C nel Regno Unito, con i suoi 5 anni di ritardo e ancora decisamente lontano dal completamento nonostante i miliardi spesi, certifica la lentezza tipica di questi progetti visto che “Ritardi simili si sono registrati in Francia e in Finlandia, rafforzando un trend che sembra strutturale”. 

Non dovrebbero esserci dubbi, quindi, su quale delle due soluzioni energetiche rappresenti il futuro. Se il nucleare rimane una fonte a basse emissioni capace di garantire continuità di produzione, nell’attuale contesto economico e di emergenza climatica, dovrebbero essere le rinnovabili a trainare la decarbonizzazione. Il messaggio del Global Energy Monitor è chiaro: “Il nucleare non è escluso dal futuro energetico, ma il suo contributo rischia di essere molto marginale, quasi nullo, nei tempi critici della transizione”.

Alessandro Graziadei

sabato 18 ottobre 2025

Asia “stupefacente”

 

Il problema della produzione, dell'uso e della diffusione delle sostanze stupefacenti non è un problema che tocca solo l'Asia, ma negli ultimi anni il business legale e illegale connesso al commercio di sostanze stupefacenti sta diventando un grosso problema per alcuni paesi asiatici. Il 2024 si era chiuso con un allarme arrivato dal Laos, in particolare dalla provincia laotiana di Bolikhamxay, nella parte centrale del Paese, dove il crescente consumo di nuove e vecchie droghe tra gli studenti ha allarmato Kongchan Xaypanya, il capo del quartier generale della Pubblica Sicurezza di Bolikhamxay. Secondo Kongchan, la nuova ondata di abuso di droghe non si è limita solo agli stupefacenti tradizionali e negli ultimi sei mesi del 2024 nella provincia sono stati registrati 309 casi legati all’abuso di droga. Indagini e controlli hanno portato al sequestro di 19.835 pillole di metanfetamina, 61 chilogrammi di ecstasy, 37,5 chilogrammi di eroina, 1.559 chilogrammi di metanfetamina, 320 chilogrammi di cannabis oltre a 15 chilogrammi di kratom, una sostanza che proviene da un albero che produce l'omonima sostanza oppiacea. Secondo i dati nazionali diffusi a novembre scorso dal vice primo ministro e ministro della Pubblica sicurezza, il generale Vilay Lakhamfongnel 2024 sono stati registrati 3.395 casi legati al traffico di droga, che hanno portato all'arresto di 5.168 persone, tra cui 199 stranieri.

Il Laos fa parte del cosiddetto "triangolo d’oro”, una regione dedita alla produzione di stupefacenti che comprende anche alcune zone del Myanmar e della Thailandia. L'elevata offerta di droga in questi Paesi fa sì che qui le pillole di metanfetamina vengano prodotte in grandi quantità e vendute a meno di 25 centesimi e questo nonostante le severissime pene. In Myanmar, se c’è una certezza che emerge dal caos in cui è precipitato il Paese dopo il colpo di Stato militare del febbraio 2021, è la ripresa su vasta scala della produzione di oppio, che lo ha riportato al primo posto nel mercato globale superando nuovamente l’Afghanistan, dove il ritorno al potere dei talebani ha portato all’imposizione di un divieto sulla coltivazione del papavero da oppio. La crescita della produzione è il risultato di una “crisi multipla” profonda e complessa, in cui conflitto, povertà e degrado ambientale si intrecciano da quattro anni. Secondo l’Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC), il valore annuo dell’oppio prodotto e commercializzato in Myanmar è stimato tra 589 milioni e 1,57 miliardi di dollari. Qui l’aumento delle piantagioni è in gran parte una conseguenza della mancanza di alternative economiche e molti agricoltori, spinti dalla povertà, sono stati costretti a riconvertire le proprie terre alla coltivazione del papavero. Tuttavia, la produzione di oppio non porta reali benefici economici alla popolazione locale e i guadagni per i coltivatori restano minimi: secondo l’Onu, il prezzo pagato ai produttori si aggira intorno ai 300 dollari al chilogrammo, con un margine di profitto di appena il 10%, ben lontano dai valori del mercato internazionale. 

Ma il mercato asiatico si è popolato negli ultimi anni anche di nuove sostanze stupefacenti come l'”Olio spaziale" una sostanza il cui ingrediente base è un anestetico, l’etomidato, che viene assunto tramite le sigarette elettroniche ed è sempre più popolare tra i giovanissimi di Hong Kong, della Cina continentale e di Taiwan. Se nel 2023 ad Hong Kong erano stati fatti solo otto arresti per il contrabbando di “Olio spaziale”, nel 2024 la cifra è salita a 278, tra cui 61 persone di età inferiore ai 21 anni, diventando la terza sostanza stupefacente più diffusa tra i ragazzi e le ragazze con meno di 21 anni, dopo la cannabis e la cocaina. Questa droga viene oggi mescolata con altri farmaci e vari aromi e poi venduta in forma di cartuccia per sigarette elettroniche, con un prezzo compreso tra i 100 e gli 800 dollari di Hong Kong (tra i 12 e i 95 euro). Questa sostanza, che dovrebbe essere prescritta solo da un medico, può produrre un'euforia transitoria, causare dipendenza e provocare seri danni al sistema nervoso centrale. Oltre a vietare la sostanza (oggi classificata al pari della cocaina) e ad aumentare le pene per chi viene trovato in possesso (fino a sette anni di carcere e un milione di dollari hongkonghesi di multa), Hong Kong ha avviato anche una serie di progetti a scopo preventivo nelle scuole primarie e secondarie, aumentato le attività di sensibilizzazione e intensificando le ispezioni, con particolare attenzione alla compravendita online della sostanza. 

Infine, negli scorsi mesi, un’inchiesta della BBC ha rivelato che Aveo Pharmaceuticals, un’azienda farmaceutica con sede a Mumbai in India, ha prodotto illegalmente oppioidi altamente assuefacenti, esportandoli in Africa occidentale senza licenza. La Aveo Pharmaceuticals ha modificato negli anni la composizione di alcuni dei suoi prodotti, inizialmente contenenti solo tapentadolo, ora venduto solo previa prescrizione medica, aggiungendo anche carisoprodol per eludere i controlli, creando così un mix in molti casi letale. Il carisoprodol è un miorilassante vietato in Europa per l'elevato potenziale di dipendenza, ma purtroppo in Ghana, Nigeria e Costa d’Avorio questi farmaci sono ampiamente diffusi tra i giovani per il loro basso costo e stanno generando un’emergenza sanitaria regionale. L'OMS stima che circa 100mila persone in Africa muoiano ogni anno a causa di farmaci falsificati o di scarsa qualità. Le autorità indiane hanno effettuato tra la fine del 2024 e l'inizio di quest'anno perquisizioni negli stabilimenti di Aveo Pharmaceuticals, sequestrando e interrompendo la produzione, ma il problema purtroppo non riguarda solo la Aveo Pharmaceuticals. Il contrabbando di farmaci senza licenza in India è un problema in crescita da anni e già prima della pandemia erano stati segnalati diversi farmaci indiani con gravi effetti collaterali poi ritirati dal mercato. Purtroppo l’espansione dell’industria farmaceutica indiana, le cui esportazioni oggi valgono circa 28 miliardi di dollari all’anno, è ancora accompagnata da un vasto mercato di farmaci contraffatti e non regolamentati. Nonostante il problema sia ben documentato, l’India continua a rappresentare un hub strategico per l’industria farmaceutica globale, non sempre facilmente controllabile.

sabato 11 ottobre 2025

Cingalesi a rischio pauperismo

 

Molte persone in Sri Lanka stanno finendo intrappolate in cicli di indebitamento. A lanciare l'allarme è stato lo scorso luglio il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) che in un report ha evidenziato come il debito sia oggi il principale fattore di vulnerabilità nella popolazione cingalese. Tra le cause c'è sicuramente il Covid-19 con la conseguente crisi economica del 2022 culminata nel fallimento del debito sovrano e i suoi strascichi, come l'aumento dell'inflazione, l'alto tasso di disoccupazione e degli interessi ormai insostenibili. Per la coordinatrice Undp nel Paese, Azusa Kubota l’Indice di Vulnerabilità Multidimensionale (MPI) evidenza come “Il debito sia risultato il principale fattore di vulnerabilità; almeno il 33,4% della popolazione è già colpito da un indebitamento insostenibile per beni essenziali, tra cui cibo e medicine”. Per incrementare gli sforzi a sostegno della popolazione, l’Undep ha annunciato una seconda fase del suo strumento di finanziamento del settore privato, incentrato sull'assistenza alle imprese guidate da donne e sul miglioramento dell'educazione finanziaria a livello nazionale. “La prima fase dello strumento ha mobilitato con successo oltre 6 milioni di dollari per assistere le comunità durante il picco della crisi economica” cercando di sottrarre molti cingalesi alla spirale degli usurai locali e delle istituzioni di microfinanza privata, che offrano prestiti ad alto tasso d'interesse durante le emergenze in modo apparentemente amichevole e favorevole, costringendo poi i mutuatari a pagare gli interessi per il resto della loro vita.

Gli analisti dell'Undep ritengono che dal 2022, quando la nazione insulare ha vissuto la peggiore crisi economica del secolo, l'inflazione abbia aumentato i prezzi delle materie prime, dell'energia e dei trasporti, con un impatto negativo su settori come l’agricoltura, la pesca e la manifattura. Così, per mantenere i margini di profitto, le aziende hanno optato per la riduzione della forza lavoro aumentando la disoccupazione e lasciando quasi il 50% delle famiglie gravata da debiti e con enormi difficoltà a gestire i mutui alla luce del sensibile aumento del costo della vita. L'economia dello Sri Lanka, infatti, dipende dalle importazioni per molti beni di prima necessità e la quantità di denaro necessaria per permettere ai cingalesi di arrivare a fine mese è notevolmente aumentata, visto i nuovi dazi sulle importazioni e l'assenza di sussidi pubblici, che hanno aumentato i prezzi oltre che del cibo anche per delle medicine e del carburante. Per l'Undep “I redditi delle famiglie sono ormai inadeguati a tenere il passo con l'aumento del costo della vita e le persone sono costrette a chiedere prestiti o a vendere gioielli e oggetti per la casa, compresi i mobili, perché anche i loro piccoli risparmi sono stati spesi. A causa della crisi attuale, la maggior parte delle persone non è in grado di pagare i prestiti e ne vengono aperti altri per ripagare i prestiti precedentemente contratti”. Poiché le banche statali e commerciali concedono prestiti solo a persone che hanno beni o garanti, i piccoli agricoltori, i pescatori, i lavoratori giornalieri e i lavoratori a basso reddito non possono più accedere a tali prestiti. 

Attualmente in Sri Lanka il governo non è riuscito a fornire un'adeguata assistenza sociale ai lavoratori a basso reddito e a quelli con salario giornaliero e molte persone direttamente colpite dalla crisi usano il loro tempo per la ricerca di un lavoro e non sono in grado di dare voce ai loro problemi. Sebbene il programma Aswesuma, un nuovo programma di welfare per alleviare la povertà e migliorare l’equità sociale, offra dalle 3mila alle 15mila rupie mensili in base alle dimensioni della famiglia e alla vulnerabilità, i ritardi nell'erogazione degli aiuti e gli ostacoli burocratici impediscono un'assistenza tempestiva. Intanto l'agricoltura e la pesca, due settori chiave dell'economia isolana, stanno risentendo più di altri del contesto economico e politico. Il settore agricolo dello Sri Lanka sta attraversando una fase di forte crisi, con un calo significativo nella produzione delle principali colture come riso, tè e noce di cocco. Secondo i dati della Banca centrale dello Sri Lanka (Cbsl), il calo produttivo riguarda in particolare il risone (il riso grezzo, il principale prodotto agricolo a livello nazionale) ripercuotendosi poi sul prezzo del riso lavorato. Anche il tè, principale voce dell’export agricolo nazionale, e la noce di cocco stanno registrando pesanti contrazioni. In particolare, la produzione di risone per la stagione agricola che va da settembre 2024 a marzo 2025 è stimata intorno ai 2,57 milioni di tonnellate, un dato che segna un calo del 5,7% rispetto alla stagione precedente, provocando una carenza di riso sul mercato. Nonostante l’intervento del governo con misure di controllo sui prezzi del risone e del riso, i risultati finora sono stati limitati.

Nel contempo la pesca, già piegata dalle passate restrizioni durante la pandemia di Covid-19 sta affrontando un'altra grave sfida in materia di sicurezza: la pratica continuativa delle imbarcazioni indiane di pesca illegale nelle acque interne dello Sri Lanka. Il problema, che è cresciuto in modo esponenziale dopo la fine del conflitto interno nel 2009, ha devastato i mezzi di sussistenza delle comunità di pescatori del Paese, in particolare quelle nel nord già martoriate dalla guerra. Un dato su tutti serve a definire la portata dell’emergenza: per la prima volta in un decennio, nel 2024, i pescatori indiani arrestati in Sri Lanka hanno superato quota 500. In Sri Lanka il pesce costituisce il 50% del consumo di proteine animali degli abitanti, una risorsa fondamentale per garantire la sicurezza alimentare. L’industria ittica del Paese ha un enorme potenziale per aumentare le fonti di reddito, migliorare le scorte a disposizione e ottenere al contempo il riconoscimento del mercato, ma il settore interno ha dovuto affrontare numerose difficoltà, a partire dalle conseguenze persistenti del conflitto fino alla pesca eccessiva e agli effetti dei cambiamenti climatici. La disputa sulla pesca tra Sri Lanka e India rimane una sfida diplomatica complessa. Secondo il direttore esecutivo del Centro regionale per gli studi strategici (Rcss) George I. H. Cooke “I commercianti di pesce indiani stanno privando della sovranità economica la comunità di pescatori (tamil) dello Sri Lanka, in particolare quella del nord. [...] I commercianti indiani e le grandi aziende di pesca utilizzano pescherecci di grandi dimensioni e la devastante pesca a strascico. L’industria della nazione insulare deve affrontare una serie di sfide, tra cui la pesca eccessiva, quella illegale, non dichiarata e non regolamentata, nonché l’esaurimento degli stock ittici”. Una situazione che minaccia il sostentamento di oltre 2,5 milioni di residenti costieri e avrà un ulteriore impatto negativo sull’economia, sul tasso di povertà e sulla sicurezza alimentare del Paese.

Alessandro Graziadei

sabato 20 settembre 2025

L’E-Mobility in stallo?

 

La mobilità elettrica italiana ed europea è in stallo. Non è facile, infatti, sviluppare un modello di mobilità elettrica superando le barriere dei costi ancora elevati, di filiere per le materie prime non sempre tracciabili e responsabili, delle carenze infrastrutturali per le ricariche e dell'assenza di impianti di riciclo per le batterie. È questo il realistico quadro delle criticità che emerge dall'analisi sul mercato delle auto elettriche fatto dall’E-Mobility Trend Barometer 2025 di BearingPointun'azienda specializzata in servizi di management e technology consulting. L’indagine che si sofferma sulla maturità della mobilità elettrica in Italia, Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Cina evidenzia come il nostro Paese resta tra quelli con minore familiarità con i veicoli elettrici. “Solo il 19% degli italiani ha avuto almeno un’esperienza diretta alla guida di un’auto elettrica” e “Siamo indietro rispetto a Francia (31%), Germania (26%) e, di molto, rispetto alla Cina, dove il 68% degli intervistati lo ha fatto”. Questo gap esperienziale rappresenta uno degli elementi chiave del mercato della mobilità elettrica italiana, dove solo “Il 24% degli intervistati ha intenzione di scegliere un’auto elettrica come prossimo veicolo". Pur allineato al Regno Unito (24%) e Francia (27%), il dato è contenuto rispetto agli Stati Uniti (31%) e nettamente inferiore alla Cina (73%). 

In Italia tra i motivi che agevolano il passaggio all’elettrico, emergono i minori costi di gestione (18%), l'interesse per l’innovazione tecnologica (14%) e i benefici fiscali (12%), mentre l’ambiente emerge come la principale ragione con il 42% del campione. Si tratta della percentuale più alta tra i Paesi occidentali analizzati, a testimonianza della consapevolezza ecologica degli automobilisti italiani. Il quadro finale dell’E-Mobility Trend Barometer 2025 suggerisce però interventi mirati per accelerare la mobilità elettrica e che i principali ostacoli - costo, filiera e infrastrutture - si potrebbero superare solo aumentando la collaborazione tra istituzioni, costruttori e operatori privati. “Tuttavia - per BearingPoint - le condizioni di mercato ancora imprevedibili non aiutano la programmazione a lungo termine dei marchi automotive, in un contesto dove innovazione e adattabilità fanno la differenza. Per questo, la mobilità elettrica si affermerà globalmente, ma con velocità e percorsi diversi da Paese a Paese. Influenzata da fattori geopolitici, economici e culturali specifici. Il compito degli attori dell’ecosistema e-mobility è abilitare questi percorsi, rendendo la transizione sostenibile, accessibile e desiderabile per tutti i consumatori”. Per ora a livello europeo, nell’ambito del Grean Deal, la Commissione Europea ha recentemente varato un nuovo pacchetto di misure noto come Fit for 55 per raggiungere l’obiettivo di impatto climatico zero con indicazioni chiare per imprimere una forte accelerazione all’abbandono dei motori a combustione interna.

La timeline fissata dalla Commissione europea per l’abbandono di questi motori è il 2035, anno dopo il quale in Europa si potranno vendere esclusivamente auto e furgoni elettrici. Ci arriveremo pronti? Al momento pare di no. Oltre ai problemi etici legati alla filiera delle materie prime, se la scelta di passare al trasporto privato elettrico è una scelta che ha come obiettivo quello di ridurre drasticamente le emissioni di carbonio che sono la causa maggiore dell’inquinamento atmosferico visto che i trasporti sono responsabili del 30% delle emissioni europee di monossido di carbonio (CO), la scelta di promuovere i veicoli elettrici considerati meno inquinanti rispetto ai motori a combustione interna è una scelta ancora non priva di rischi. Ad oggi la loro Carbon Footprint è comunque troppo elevata se consideriamo la somma delle emissioni prodotte dalla fabbricazione, tutto il ciclo di vita dei veicoli e il loro smaltimento.  Il primo dato che sorprende nella filiera della e-mobility è il fatto che circa la metà delle emissioni di un’auto elettrica nel corso della sua vita derivano dalla fabbricazione. La realizzazione di un motore elettrico e delle batterie per alimentarlo pesano sull’ambiente molto di più di un motore a scoppio. Pertanto, le auto elettriche possono avere un importante impatto ambientale, a seconda di come sono realizzate. Una fabbrica che fa largo uso di energia rinnovabile per la realizzazione dei motori elettrici ridurrà alla base la maggior parte delle emissioni di CO del loro ciclo di vita. L'altro elemento l'elemento potenzialmente critico per l'auto elettriche è la loro alimentazione visto che le loro emissioni dipenderanno dalla composizione delle fonti energetiche del circuito a cui vengono allacciate per le ricariche. Una rete elettrica che si basa principalmente su combustibili fossili vanificherà i vantaggi del passaggio all’elettrico spostando solo la fonte dell’inquinamento dall’auto alla produzione energetica. Le auto elettriche, poi, presentano il problema delle batterie. Se le batterie a piombo acido delle auto con motore a combustione interna sebbene tossiche, sono ormai soggette ad un efficiente percorso di riciclo, non altrettanto si può dire per le nuove batterie al litio delle auto elettriche, ancora prive di un valido processo di smaltimento e recupero. 

Sebbene esista un'alternativa al litio e il loro riciclo non sia impossibile, attualmente non siamo in grado di assorbire lo smaltimento di circa dodici mila tonnellate di batterie al litio previste entro il 2030 principalmente perché il riciclo non è economicamente conveniente dal momento che l’estrazione dei materiali grezzi risulta ancora meno costosa. In Europa non si ricicla il Litio e solo il 12% di Alluminio, il 22% del Cobalto, l’8% del Manganese e il 16% del Nickel sono riciclati. Così se una batteria al litio ha una vita media di circa 20 anni, ma nel corso del tempo riduce la propria capacità di accumulo, ne consegue che batterie funzionanti all’80% del proprio potenziale vadano sostituite. Sfruttare per altri scopi queste batterie dismesse allungandone il ciclo di vita e ottimizzando le emissioni per la loro realizzazione è una sfida ancora aperta. Intanto l'Unione ha recentemente proposto variazioni alla norma che regola la commercializzazione delle batterie sul proprio territorio. La nuova norma prevede l’obbligo di recupero e riciclo del 95% di Cobalto, Rame, Piombo e Nickel, del 70% del Litio e livelli minimi obbligatori di materiali riciclati all’interno delle batterie di nuova immissione a partire dal 2030. Una norma che mira anche a contenere l’eccessivo sfruttamento ambientale ed umano per la loro estrazione, visto che l’approvvigionamento dei materiali necessari alla realizzazione delle batterie al litio avviene con grandi costi ambientali e spesso con lo sfruttamento delle popolazioni delle zone minerarie. Insomma non possiamo pensare di estrarre in continuazione risorse per costruire batterie e motori elettrici. Dobbiamo pensare a riciclare.

Rimane il problema da qui al 2030 dell'implementazione delle infrastrutture per la distribuzione dell'energia elettrica e del fabbisogno energetico! Se il passaggio al trasporto elettrico non sarà, infatti, accompagnato da scelte politiche serie sulle fonti energetiche, si potrebbe assistere ad un paradossale aumento delle emissioni di CO perché la richiesta di nuova energia per la mobilità europea potrebbe (almeno in una prima fase della transizione) essere soddisfatta con l’aumento dell’energia prodotta da combustibili fossili. In Europa le politiche messe in atto mirano a potenziare le fonti di energia rinnovabile marciano a velocità diverse (in Italia tra ritardi e disuguaglianze regionali) e la neutralità climatica entro il 2050 che dovrebbe scongiurare tale rischio è tutt'altro che scontata. Di fatto oggi la tecnologia esiste e dovrebbe essere sfruttata nel miglior modo possibile. Tuttavia, per rendere tutto il processo sostenibile, dobbiamo ancora lavorare tanto sull’intero ciclo di vita dell’auto elettrica.

Alessandro Graziadei


sabato 6 settembre 2025

I sommersi!

Come abbiamo già avuto modo di scrivere anche in un recente articolo, lo scorso mese l’Istat ha presentato l’ottava edizione del Rapporto sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibileun'analisi sui progressi dell'Italia nel campo dei Sustainable Development Goals – SDGs adottati con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Lo studio, realizzato attraverso 320 statistiche e 148 indicatori proposti dall’Inter-Agency Expert Group on SDG Indicators delle Nazioni Unite (UN IAEG-SDGs), ci offre un affresco realistico dello stato dell'arte italiano di questi 17 Obiettivi. L’analisi dell’evoluzione temporale delle misure statistiche Istat-SDGs restituisce un quadro variegato che sottolinea, nel complesso, l’esigenza di un’accelerazione e nel dettaglio che su alcuni fronti facciamo acqua da tutte le parti. In che senso? Quello letterale, visto che gli scenari attesi per il Belpaese dall'Istat ci indicano, “La potenziale sommersione di circa 10.000 km quadrati lungo oltre 1.600 km di costa in base al sollevamento marino atteso, con l'amplificazione di eventi estremi causati da tempeste e tsunami”. Una situazione allarmante, dove per esempio a Venezia, anche il sistema di dighe mobili Mose potrebbe "Non essere sufficiente alla protezione della laguna in caso di eventi estremi già prima del 2100” e dove entro il 2070, le probabilità che uno tsunami superi le altezze massime di inondazione di uno o due metri “Saranno comprese tra il 10% e il 30% in più rispetto ai livelli attuali”.

Un allarme simile era arrivato anche dalla nuova mappa interattiva pubblicata dalla Nasa lo scorso aprile, uno strumento capace di mostrarci l’innalzamento previsto del livello del mare. Lo strumento, messo a punto dal Sea Level Change Team, consente agli utenti di cliccare su qualsiasi punto degli oceani o delle coste e visualizzare le proiezioni decennio per decennio a partire dal 2020 fino al 2150 grazie ai dati raccolti da satelliti e sensori terrestri e ai dati forniti dall'IPCC che valutano ogni 5-7 anni l’evoluzione del clima del pianeta attraverso informazioni cruciali sui cambiamenti di temperatura, sull’aumento dei gas serra, sul ritiro dei ghiacciai e sul livello medio dei mari, dati che vengono tutti integrati nello strumento Nasa per offrire una visione più precisa e comprensibile anche per i non addetti ai lavori. Alla base di queste previsioni c’è la conferma di una tendenza in rapido peggioramento: negli ultimi 30 anni, la velocità con cui il livello del mare si alza è raddoppiata. Se “Nel 1993 l’innalzamento era di 2,1 millimetri all’anno. Oggi siamo arrivati a 4,5 millimetri ogni 12 mesi. Se questa tendenza non cambierà, il mare potrebbe salire di ulteriori 169 millimetri entro il 2053, causando potenziali impatti devastanti per aree costiere e città basse sul livello del mare, come molte zone dell’Alto Adriatico”. In particolare se andiamo ad osservare l'evoluzione temporale di alcune aree costiere del Nordest italiano, come Venezia e Trieste, già soggette a fenomeni di subsidenza e acqua alta, risulta particolarmente evidente la loro vulnerabilità all’innalzamento dei mari e agli eventi estremi, come mareggiate, erosione costiera e allagamenti. Secondo i modelli proposti dal team Nasa, queste aree potrebbero essere tra le più colpite d’Europa, se non verranno messe in atto strategie efficaci di adattamento e mitigazione. Secondo Benjamin Hamlington, ricercatore a capo del Sea Level Change Team della Nasa, “Le cause principali sono il riscaldamento globale e lo scioglimento dei ghiacci dovuto alle emissioni di gas serra”, ha spiegato lo scienziato.

Se non bastassero queste due importanti analisi, sempre lo scorso aprile, a certificare il rischio di erosione con arretramenti della costa che arriveranno sino a 10 metri l’anno è stato anche lo studio tutto italiano pubblicato sulla rivista “Estuarine, Coastal and Shelf Science” dai professori Monica Bini e Marco Luppichini del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa. La ricerca ha analizzato i cambiamenti delle coste sabbiose italiane negli ultimi 40 anni, dal 1984 al 2024, con particolare attenzione ai delta fluviali, utilizzando un software che analizza immagini satellitari. Il risultato è che il 66% dei 40 principali fiumi italiani è soggetto all’erosione costierapercentuale che sale 100% se si escludono le aree protette da difese artificiali. Il cambiamento climatico sta avendo un impatto significativo sull'evoluzione delle coste italiane - ha spiegato Marco Luppichini - in particolare incidono la diminuzione delle precipitazioni e l’aumento degli eventi meteorologici estremi che alterano il ciclo idrologico e la capacità dei corsi d’acqua di trasportare sedimenti fino alla costa. A questo si aggiungono l’innalzamento del livello del mare, che contribuisce alla scomparsa di tratti di litorale, e l’incremento della temperatura delle acque superficiali del Mediterraneo che intensifica tempeste e mareggiate, accelerando il processo erosivo e riducendo la resilienza delle spiagge”. Secondo lo studio, le aree più a rischio erosione sono oggi il delta del Po, il Serchio, l’Arno e l’Ombrone in Toscana e infine il delta del Sinni in Basilicatatutte zone caratterizzate da un forte arretramento della linea di costa e da una significativa perdita di sedimenti dovuta a fattori climatici e antropici.

Se il delta del Po è una delle zone più vulnerabili, in Toscana le foci dell’Arno e del Serchio sono soggette ad un arretramento costante di 2-3 metri l’anno, mentre il delta dell’Ombrone registra una delle situazioni più critiche, con tassi di erosione fino a 5-6 metri l’anno. La ridotta disponibilità di sedimenti, dovuta a modifiche antropiche lungo il corso del fiume, e l'aumento delle mareggiate rende infatti questa zona particolarmente fragile, mettendo a rischio gli ecosistemi del Parco della Maremma e le attività economiche legate al turismo e all’agricoltura. Il delta del Sinni, in Basilicata, rappresenta infine uno dei casi più estremi, con un’erosione che supera i 10 metri l'anno, una delle più critiche in Italia. “È chiara l’urgenza di adottare strategie sostenibili per gestire le coste, mitigare gli effetti dell’erosione e proteggere le aree più fragili. Grazie al nostro studio abbiamo realizzato un database omogeneo per l’intero territorio nazionale così da aiutare una possibile pianificazione degli interventi a difesa delle zone più a rischio, come i delta fluviali, veri e propri “hotspot” della crisi climatica in corso”, ha concluso Luppichini. Ancora una volta il messaggio implicito di questi tre studi è piuttosto chiaro: il tempo per intervenire è ora. Conoscere l’entità del rischio permette di anticipare le misure, ma serve anche una riduzione concreta delle emissioni e delle misure di mitigazione del rischio serie ed immediate per evitare gli scenari peggiori. 

Alessandro Graziadei

 

sabato 30 agosto 2025

Il pesce tra mercato e sostenibilità

 

Considerato lo stile di vita dei suoi cittadini, il 6 maggio scorso l’Italia ha esaurito il budget annuale di risorse naturali a disposizione, vivendo per i sette mesi restanti in debito ecologico, ovvero superando la biocapacità di produrre la quantità di risorse naturali che ci servono per soddisfare i nostri bisogni.  Per l’Italia si tratta di un peggioramento rispetto al 2024, quando l’Overshoot Day calcolato dal Global Footprint Network era arrivato il 19 maggio 2024. La situazione si fa particolarmente critica se parliamo degli stock ittici del Belpaese. Sì perché il pesce in Italia sta finendo e così, dopo lo stop già in corso da Trieste ad Ancona, dal 16 agosto scorso fino al 29 settembre si fermeranno anche le flotte di pescherecci tra il sud delle Marche e la Puglia, in un tratto di mare che va da San Benedetto del Tronto a Bari. Mentre il fermo pesca lungo tutto l’Adriatico è già realtà, dal 1° al 30 ottobre la sospensione interesserà anche il resto d’Italia, dallo Ionio al Tirreno fino alle isole. Per Coldiretti Pesca “Il fermo pesca 2025 arriva in un momento critico: la proposta di bilancio della Commissione Von Der Leyen prevede un taglio dei fondi destinati al settore ittico da 6,1 miliardi a poco più di 2 miliardi, con una riduzione del 67%”, un dato allarmante se si considera che “La Flotta Italia ha già perso un terzo delle barche e 18mila posti di lavoro, anche a causa delle scelte europee”.

In Italia, “Negli ultimi quarant'anni - ha spiegato Coldiretti Pesca - la dipendenza dall'import nella pesca è passata dal 30% al 90%, con 840 milioni di chili di pesce straniero arrivati lo scorso anno, a fronte di una produzione interna di circa 130 milioni di chili”. Per il pesce fresco vige l'obbligo di indicare l'origine, ma per il pescato l'informazione è meno chiara rispetto ad altri alimenti: invece della dicitura “Italia”, si trova indicata solo la zona di cattura, che per il Mediterraneo è identificata con la sigla non proprio comprensibile di “Fao 37”. “Nei ristoranti, inoltre, il pesce non è accompagnato da alcuna etichetta. Solo per i prodotti di acquacoltura la normativa prevede l'indicazione del Paese di origine” ha precisato Coldiretti Pesca, ricordando che “Pur con la sospensione temporanea delle attività nelle aree interessate, sulle tavole non mancherà il pesce italiano grazie ai prodotti provenienti dalla piccola pesca, dalle draghe, dall'acquacoltura e dalle zone non soggette a fermo”.  Ma non è solo l'Italia, i suoi mari e più in generale il Mediterraneo a soffrire la difficile rigenerazione degli stock ittici. Il Rapporto 2025 sullo stato delle risorse ittiche marine mondiali, che la FAO ha presentato alla scorsa Conferenza delle Nazioni Unite sugli Oceani tenutasi a Nizza dal 9 al 13 giugno, ha fornito una valutazione della pesca globale, evidenziando luci e ombre visto che mentre “Alcune delle attività di pesca marittima mondiali si stanno riprendendo grazie a una gestione rigorosa e scientifica, molte altre rimangono ancora sotto pressione”.

Basato sul contributo di oltre 650 esperti provenienti da oltre 200 istituzioni e più di 90 Paesi, questo rapporto partecipativo e inclusivo analizza le tendenze in tutte le aree di pesca marittima della FAO e offre il quadro più chiaro sull’andamento della pesca marittima globale. Il Rapporto riporta il raggiungimento della sostenibilità biologica di 2.570 singoli stock ittici, un aumento significativo rispetto alle precedenti edizioni del rapporto. Viene confermato che il 64,5% di tutti gli stock ittici è sfruttato entro livelli biologicamente sostenibili, mentre il 35,5% degli stock è ancora classificato come sovrasfruttato. Nelle zone di pesca marittima sottoposte a un’efficace gestione della pesca, i tassi di sostenibilità superano di gran lunga la media globale. Per QU Dongyu, Direttore Generale della FAO, “Una gestione efficace rimane lo strumento più potente per la conservazione delle risorse ittiche. Questa analisi fornisce una comprensione senza precedenti, consentendo un processo decisionale più informato e basato sui dati. Questo rapporto fornisce ai governi le prove necessarie per definire le politiche e coordinarle in modo coerente”. Nel Pacifico nord-orientale (Area 67) e nel Pacifico sud-occidentale (Area 81), per esempio, gli investimenti a lungo termine e i solidi quadri di gestione stanno dando i loro frutti. I tassi di sostenibilità di tutti i singoli stock raggiungono rispettivamente il 92,7% e l’85%. In Antartide (Aree 48, 58 e 88), è addirittura il 100% degli stock valutati ad essere pescato in modo sostenibile. 

Secondo David Agnew, Segretario esecutivo della Commissione per la conservazione delle risorse marine viventi dell’Antartide, che ha contribuito alla revisione, “Risultati positivi come quelli per l’Antartide, il Pacifico nord-orientale e il Pacifico sud-occidentale riflettono i benefici per la gestione sostenibile della pesca derivanti da istituzioni solide, un monitoraggio coerente e completo, l’integrazione di prove scientifiche nelle decisioni di gestione e l’attuazione di approcci precauzionali e basati sugli ecosistemi”. Nel Mediterraneo, invece, nonostante la pressione di pesca sia diminuita del 30% e la biomassa sia aumentata del 15% dal 2013, solo il 35,1% degli stock è pescato in modo sostenibile. Nel Pacifico sud-orientale (Area 87), è il 46% degli stock ad essere sostenibile, mentre nell’Atlantico centro-orientale (Area 34) la percentuale si attesta al 47,4%. Queste aree è bene ricordarlo, includono Paesi in cui la pesca è fondamentale per la sicurezza alimentare e la nutrizione, l’occupazione e la riduzione della povertà, in particolare attraverso attività su piccola scala e artigianali. È in queste zone, soprattutto per via della pesca su piccola scala fondamentale per la locale sovranità alimentare, dove persistono criticità da iper sfruttamento e una copertura insufficiente dei siti di sbarco. 

La FAO ha più volte esortato i Paesi del Pacifico sud-orientalea ad investire in sistemi di raccolta e gestione dei dati e in approcci basati sulla scienza, per allineare gli obiettivi di sostenibilità e mantenere la pesca "sulla buona strada", ma non è facile quando l'alternativa ad uno sviluppo sostenibile futuro è la fame immediata. “Ora abbiamo il quadro più chiaro di sempre sullo stato della pesca marittima. I dati mostrano cosa funziona e dove siamo carenti - ha concluso Qu - Il prossimo passo è chiaro: i governi devono potenziare ciò che funziona e agire con urgenza per garantire che la pesca marittima sia vantaggiosa per le persone e per il pianeta. Questa è l’essenza della Trasformazione Blu della FAO, un appello a costruire sistemi alimentari acquatici più efficienti, più inclusivi, più resilienti e più sostenibili per aumentare il loro contributo alla sicurezza alimentare globale, soddisfare i requisiti nutrizionali e migliorare i mezzi di sussistenza di una popolazione in crescita“. Un equilibrio, quello tra mercato e sostenibilità del pescato, tutt'altro che facile.

Alessandro Graziadei


sabato 23 agosto 2025

Clima e climatizzatori


Il 2024 è stato l'anno più caldo mai registrato dal 1850 e il primo a superare la soglia di riscaldamento di 1,5 °C. L'anno scorso, la temperatura media superficiale globale è stata di +1,55 °C superiore ai livelli preindustriali. In un rapporto pubblicato a fine maggio l'Organizzazione Meteorologica Mondiale e il Met Office del Regno Unito hanno aggiornato le loro previsioni climatiche globali per i prossimi cinque anni, confermando che le temperature in questo periodo dovrebbero rimanere a livelli record. Esiste, infatti, “Il 70% di possibilità che il limite fissato dall'Accordo di Parigi per evitare effetti catastrofici del cambiamento climatico, ovvero un aumento di 1,5 gradi centigradi della temperatura media globale rispetto ai livelli preindustriali, venga superato nell'intero quinquennio 2025-2029”. Secondo il rapporto, “C'è una probabilità dell'80% che almeno uno dei prossimi cinque anni superi il record del 2024. E una probabilità dell'86% che almeno uno di questi anni registrerà una temperatura superiore di oltre 1,5 °C alla media del periodo 1850-1900”. Più in generale, la media annuale globale per ogni anno tra il 2025 e il 2029 sarà da 1,2°C a 1,9°C superiore alle temperature preindustriali. Il 2025 fino ad adesso promette “bene” e quest'estate forse sarà ricordata come una delle più calde degli ultimi 100 anni. Ormai ci siamo abituati e le temperature in aumento le affrontiamo dove è possibile con i condizionatori. I condizionatori d’aria sembrano ormai indispensabili perché il caldo non è solo un fastidio, ma anche una causa di morte, se estremo, e tanto più la temperatura media globale salirà, tanto più ci sarà bisogno di climatizzatori nelle case, negli uffici, negli ospedali e nelle RSA, per ragioni sia di salute pubblica che di produttività economica. Come accade in inverno con i riscaldamenti, anche le temperature record estive tornano a porre in Europa la questione dell'inquinamento e dei consumi crescenti di energia dovuti alla diffusione capillare dei climatizzatori

Questi “salvagenti” tecnologici hanno, infatti, un prezzo ambientale da pagare. I gas refrigeranti che circolano al loro interno per tenerci al fresco, gli idrofluorocarburi (HFC), partecipano all’effetto serra potenzialmente più dell’anidride carbonica anche se sono gas refrigeranti che hanno fatto il loro ingresso nel mercato alla fine degli anni 80 in sostituzione dei clorofluorocarburi (CFC) e degli idroclorofluorocarburi (HCFC), sostanze ancora più dannose per l'ozono stratosferico. Anche se una macchina funzionante non rilascia questi refrigeranti nell’atmosfera, il problema si pone in caso di perdite nell’impianto, di manutenzione o di smaltimento non regolare. L’Unione europea ha intenzione di ridurre drasticamente l’uso di gas fluorurati, che valgono il 2,5 per cento delle sue emissioni di gas serra e tra il 2024 e il 2028 le loro vendite dovranno diminuire del 60 per cento rispetto alla media del 2011-2013, con tagli più profondi negli anni seguenti fino – è la proposta del Parlamento europeo – all’eliminazione totale entro il 2050. Alternative più “pulite” agli Hfc, esistono, un esempio sono le idrofluoroolefine (HFO), che hanno un effetto serra bassissimo, ma sono complicate e costose da produrre. Ci sono poi, sempre a ridotto potenziale di riscaldamento globale, i cosiddetti refrigeranti naturali come l’ammoniaca e il propano che la Germania ha già deciso di incentivare per promuoverne l’utilizzo nei condizionatori e nelle pompe di calore. Il secondo “prezzo” da pagare sull'altare del fresco è che i condizionatori utilizzano tanta elettricità, più di qualsiasi altro elettrodomestico, tanto da arrivare intorno al 10 per cento dei consumi globali: un dato critico se quell’elettricità viene prodotta bruciando combustibili fossili. Il paradosso di queste macchine, insomma, è che sembra che mitighino la stessa crisi climatica che contribuiscono ad aggravare con la loro richiesta energivora. In Italia in particolare se è vero che negli ultimi anni il settore delle energie rinnovabili  ha registrato un’accelerazione significativa, trainata in particolare dall’espansione del fotovoltaico secondo lo studio della Banca d'Italia dal titolo "Il recente sviluppo delle energie rinnovabili in Italia", uscito a febbraio, l’attuale ritmo di crescita non è sufficiente per centrare gli obiettivi fissati dal Piano nazionale integrato per l’energia e il clima.

Ma gestire clima e climatizzatori è oggi una sfida che riguarda non solo Italia ed Europa, ma anche altre parti del mondo dove i numeri dei climatizzatori sono ancora più preoccupanti. A livello globale, infatti, è il Sud-est asiatico l’area dove il mercato dei condizionatori oggi cresce a ritmo più sostenutotanto che secondo alcuni recenti dati dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (Iea), oggi il consumo di energia per i condizionatori nei Paesi dell’Asean era già aumentato di quasi otto volte rispetto a trent’anni prima. Secondo alcune proiezioni entro il 2040 nel solo Sud-Est asiatico si supereranno i 300 milioni di unità installate, rispetto ai 37 milioni del 2023. Secondo Asia News a preoccupare gli esperti è il circolo vizioso che queste macchine mettono in moto: “Il progresso economico e l’aumento delle temperature favoriscono la diffusione dei climatizzatori, che a loro volta però contribuiscono al riscaldamento globale a causa delle ingenti emissioni di carbonio.[ …] I condizionatori raffreddano gli ambienti spostando il calore dall’interno all’esterno e richiedono una grande quantità di energia elettrica per funzionare. Questa contribuisce massicciamente alle emissioni di carbonio, ma se venisse prodotta da fonti pulite l’impatto ambientale dei condizionatori sarebbe molto più basso. Attualmente, però, non succede: nel Sud-Est asiatico (come in molte altre aree del mondo), gli impianti di raffreddamento dipendono in larga parte da fonti fossili”. Nel solo 2024, l’uso del carbone per la produzione di energia è aumentato ancora del 1,5 % rispetto all’anno precedente. Ciò dipende da diversi fattori tra cui la mancanza di sistemi di accumulo efficienti dell’energia prodotta con il solare e l’eolico, per definizione soggetta a oscillazioni a seconda dei fenomeni atmosferici e dalle difficoltà di trasportare l’energia prodotta da fonti rinnovabili per la mancanza di infrastrutture adeguate. 

In Asia, purtroppo, sono frequenti casi in cui l’energia rinnovabile viene prodotta, ma non utilizzata. L’energia idroelettrica, in particolare, è molto diffusa ma è soggetta a cali di produzione proprio nei periodi caldi perché i bacini idrici si riducono. Per esempio, in Cina nel 2022 la siccità che ha colpito il fiume Yangtze, ha causato gravi blackout nelle province che più dipendono dalle dighe, come il Sichuan e lo Yunnan. Secondo la National Energy Administration (Nea), l’amministrazione statale cinese responsabile della strategia energetica, la domanda di elettricità potrebbe superare quest’anno quella del 2024 di circa 100 GW. Anche in India, si stima che il consumo elettrico abbia raggiunto nuovi record nell’estate del 2024, con un aumento del 10% rispetto all’anno precedente. E si stima che presto l'India supererà la Cina diventando il maggiore consumatore al mondo di aria condizionata. New Delhi sta cercato di mitigare il problema attraverso soluzioni semplici come la verniciatura bianca dei tetti per riflettere la luce solare e l’uso di impianti di raffreddamento in terracotta come alternative all'aria condizionata. Anche Singapore, uno dei Paesi con il più alto tasso di utilizzo di climatizzatori al mondo, sta sperimentando strategie alternative tra le quali la più semplice e forse la più efficace: chiedere ai cittadini di mantenere una temperatura non inferiore ai 25 °C visto che ogni grado in più nella temperatura impostata del condizionatore, consente un risparmio energetico fino al 12%.

Alessandro Graziadei



sabato 9 agosto 2025

Gli alluvionati!

La pioggia anche intensa e i temporali (come il caldo), soprattutto d'estate, sono eventi comuni, ma il problema oggi non è il fenomeno meteorologico in sé, piuttosto la frequenza e l'intensità di alcuni rovesci, non a caso chiamati estremi perché trasformano le piogge in vere e proprie inondazioni! Negli ultimi anni le inondazioni improvvise, infatti, sono uno dei pericoli naturali più letali e distruttivi al mondo, con oltre 5.000 morti all'anno e perdite economiche per oltre 50 miliardi di dollari, sempre all'anno. A rilevarlo è stata l'Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) dopo le pesanti perdita di vite umane causate dalle inondazioni improvvise in Texas, dove tra il 4 e il 7 luglio scorsi sono state centinaia le vittime e decine i dispersi, tra cui molti bambini che si trovavano nei campi estivi. “Nel giro di poche ore in Texas sono caduti mesi di pioggia con gravi problemi di allerta meteo” ha affermato il Wmo, perché se è vero che gli ultimi allarmi sono arrivati quando le persone dormivano e non c'erano sirene locali attivabili è anche vero che il fiume Guadalupe è salito di quasi 8 metri in 45 minuti. Come mai? “Un'atmosfera più calda trattiene più umidità, il che significa che le precipitazioni estreme stanno diventando più frequenti e intense” ha spiegato il Wmo e per questo le recenti catastrofiche inondazioni sottolineano l'urgente necessità di migliorare i sistemi di previsione e allerta e lavorare (molto) sulla mitigazioni e sulla prevenzione degli effetti del cambiamento climatico. 

Negli ultimi anni, sempre  il Wmo, ha registrato un vero e proprio bollettino di guerra, dove la bomba è d'acqua. Le inondazioni del 2020 nell'Asia meridionale, che hanno colpito sei Paesi, hanno causato più di 6.500 morti e 105 miliardi di dollari di danni. In Pakistan sono state più di 1.700 le vittime e 33 milioni le persone colpite dalle tempeste nel 2022, con perdite stimate in 40 miliardi di dollari. Nel 2024 le inondazioni in Europa, Medio Oriente e Africa hanno causato danni per 34 miliardi di dollari. Oltre all’Emilia-Romagna, più volte flagellata dalla pioggia, sempre nel 2024 è avvenuta la catastrofica alluvione di Valencia. Nella giornata del 29 ottobre la Spagna meridionale è stata investita da piogge torrenziali che hanno toccato i 490 millimetri in meno di 8 ore (di cui 340 millimetri caduti in 4 ore) a Chiva, nella Comunità Valenciana. Sono quantità paragonabili a quelle attese in un intero anno nella zona, ma caduti nell'arco di poche ore. Ne ha fatto seguito un’alluvione violentissima che ha portato a più di 200 morti e oltre 120mila sfollati. E il 2025? Solo il mese di luglio 2025 ha confermato in maniera drammatica la crescente instabilità climatica globale con una serie di inondazioni legate al monsone che hanno colpito duramente vaste aree dell’Asia meridionale e orientale, mettendo in ginocchio intere comunità e infrastrutture strategiche.

In India, le precipitazioni torrenziali hanno paralizzato i trasporti e danneggiato gravemente le reti viarie e i sistemi energetici. In Pakistan, la portata del disastro ha spinto le autorità a dichiarare lo stato di emergenza e la minaccia di piena eccezionale lungo i bacini superiori del fiume Jhelum ha sollevato timori per ulteriori disastri idrogeologici in un territorio già fragile. Anche la Corea del Sud ha affrontato una situazione molto  critica tra il 16 e il 20 luglio, con piogge senza precedenti di intensità superiori ai 115 mm all’ora che hanno provocato vittime, evacuazioni di massa e danni estesi a infrastrutture civili ed energetiche. Il 21 luglio, forti tempeste hanno colpito il sud della Cina continentale, facendo scattare allarmi per frane e inondazioni improvvise, un giorno dopo che il tifone Wipha aveva investito anche Hong Kong. In Nepal  il 7 luglio una violenta alluvione ha travolto il distretto di Rasuwa a causa dell'esondazione di un lago glaciale situato oltreconfine, nella regione autonoma del Tibet. L’evento, non correlato alle precipitazioni, è stato provocato dallo svuotamento repentino di un lago glaciale formatosi a fine 2024 e cresciuto in modo anomalo per lo scioglimento dei ghiacci nei mesi successivi. Il disastro ha causato la morte di almeno sette persone, la distruzione di una centrale idroelettrica e il crollo di un ponte molto importante per gli scambi commerciali. Secondo l’ICIMOD, centro di ricerca con sede a Kathmandu, questi fenomeni glaciali si stanno intensificando, segno evidente del riscaldamento accelerato nelle aree d’alta quota. 

Se queste sono le premesse, nel 2025 quasi certamente il mondo si troverà ad affrontare il costo più elevato mai registrato per i disastri climatici, con una stima di 145 miliardi di dollari di perdite assicurate. Questo dato, diffuso dal gruppo assicurativo Swiss Re, rappresenta un aumento del 6% rispetto all’anno precedente e conferma la tendenza all’incremento dei danni economici causati da eventi estremi come uragani, inondazioni, tempeste e incendi. La crescita dei costi è strettamente legata all’intensificarsi del cambiamento climatico e all’aumento della vulnerabilità urbana in tutto il pianeta. I 145 miliardi di dollari stimati per il 2025 rappresentano il sesto valore più alto mai registrato a livello mondiale. Tuttavia, il divario tra danni assicurati e danni totali rimane ampio, soprattutto in paesi con bassa penetrazione assicurativa e nel 2024, a fronte di 318 miliardi di danni totali, solo 137 miliardi erano coperti da assicurazione. Dal 2021 nel Vecchio Continente si sono verificati quattro eventi alluvionali che hanno causato danni per diversi miliardi di dollari, tre dei quali nel 2024 per complessivi 9 miliardi di dollari, di questi 4,7 miliardi solo nella comunità Valenciana. L’Italia non è estranea a questo allarme e secondo Swiss Re il nostro Belpaese è una delle aree più esposte in Europa ai rischi naturali e, contemporaneamente, presenta uno dei livelli più bassi di protezione contro le catastrofi naturali.  

Tutte le recenti analisi delle Università, degli Istituiti di ricerca, delle Ong e delle Agenzie internazionali evidenziano come l’espansione delle aree urbane, la crescita demografica e soprattutto il riscaldamento globale stiano radicalmente trasformando la geografia del rischio climatico e alluvionale. Possiamo fare ricche le assicurazioni e continuare a morire, oppure chiedere alla politica di fare qualcosa per prevenire e mitigare gli effetti delle alluvioni, salvando vite e investendo subito risorse pubbliche in politiche lungimiranti capaci di evitare danni economici ben peggiori.

Alessandro Graziadei

 

sabato 2 agosto 2025

Le illusioni del millennio

 

Il 10 luglio scorso l’Istat ha presentato l’ottava edizione del Rapporto sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibileun'analisi sui progressi dell'Italia nel campo dei Sustainable Development Goals – SDGs adottati con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite,. Si tratta di un'analisi fatta attraverso 320 statistiche e 148 indicatori proposti dall’Inter-Agency Expert Group on SDG Indicators delle Nazioni Unite (UN IAEG-SDGs), che ci offre un quadro realistico dello stato dell'arte italiano di questi 17 Obiettivi. L’analisi dell’evoluzione temporale delle misure statistiche Istat-SDGs restituisce un quadro variegato che sottolinea, nel complesso, l’esigenza di un’accelerazione. Nonostante una quota maggioritaria di misure risulti in miglioramento, sia nell’ultimo anno (oltre il 50%) sia nel decennio (oltre il 60%), oltre il 20% delle misure sono caratterizzate da “stagnazione” sia nel breve sia nel lungo periodo. Per il presidente dell’Istat Francesco Maria Chelli in Italia, “A distanza di 10 anni dal varo dell’Agenda 2030 e di 5 dalla scadenza temporale individuata, i progressi verso gli SDGs pur rilevanti in molti casi non risultano all’altezza delle aspettative”. È importante sottolineare come l’ultimo decennio sia stato segnato dalla crisi pandemica, dall’aumento delle tensioni geopolitiche e dei conflitti internazionali, dalla spirale inflazionistica innescata dall’incremento dei prezzi dei prodotti energetici, tutti “imprevisti” che hanno condizionato negativamente i percorsi dell'Agenda 2030. Tuttavia ha aggiunto Chelli Le Nazioni Unite hanno di recente suonato un campanello d’allarme, sottolineando come senza interventi straordinari nei prossimi cinque anni il fallimento su larga scala degli SDGs rappresenti lo scenario più probabile”.

In particolare per l'Istat nell’ultimo anno i Goal italiani che registrano minori progressi, collocandosi in una situazione di stabilità, quando non di regressione, sono il 15 (Vita sulla terra), il 16 (Pace, giustizia e istituzioni), il 6 (Acqua) e il 5 (Parità di genere), con una percentuale di misure stabili e in peggioramento superiore al 60%, particolarmente elevata per il Goal 15 (89%) e 16 (80%). Le variazioni negative più frequenti evidenziate dai dati Ispra le troviamo nel Goal 16 e nel 3 (Salute), che contano una quota di misure in peggioramento pari, rispettivamente, al 60% e al 40%. I Goal che raccolgono indicatori ambientali si caratterizzano per una maggiore inerzia, mentre all’opposto, nell’ultimo anno i Goal 17 (Partnership per gli obiettivi), 8 (Lavoro e crescita economica) e 7 (Energia) registrano un miglioramento più marcato, con risultati generali leggermente superiori a quello dei Goal 4 (Istruzione, che nonostante la performance positiva dell’ultimo anno, presenta oltre 4 misure su 10 in peggioramento), 12 (Consumo e produzione responsabili) e 11 (Città sostenibili). Nel confronto su base decennale si osserva una situazione generalmente migliore in 14 Goal su 17 con una percentuale di misure in miglioramento  elevata per il Goal 7, il Goal 13 (Lotta al cambiamento climatico), il Goal 16, il Goal 5 e il Goal 17.

A livello  geografico nel Belpaese emerge ancora una polarizzazione tra Centro-nord e Mezzogiorno con il Nord dove il 51,2% delle misure mostrano valori migliori della media nazionale, mentre nel Mezzogiorno il 52,2% risulta in posizione peggiore. I Goal che contribuiscono maggiormente all’andamento più sfavorevole delle regioni del Mezzogiorno sono l’8 (Lavoro e crescita economica), il 10 (Ridurre le disuguaglianze), l’1 (Povertà zero) e il 4 (Istruzione), con più del 60% di misure in posizione peggiore rispetto alla media. Nelle regioni del Nord, invece, le più ampie criticità si riscontrano per i Goal 2 (Fame zero), 14 (Vita sott’acqua) e 12 (Consumo e produzione responsabili), che registrano andamenti peggiori della media per almeno la metà delle misure. Nell'Italia centrale, le Marche (che si collocano in posizione migliore anche rispetto alla media del Nord) e la Toscana si distinguono per la più consistente incidenza di misure in posizione favorevole rispetto al profilo nazionale (rispettivamente 55% e 50%) attribuibile soprattutto ai Goal 1, 8 e 10 ma anche al Goal 2. Il risultato sfavorevole del Lazio è invece riconducibile ai Goal 5, 10 e, in particolare, al Goal 16. Tra le regioni del Mezzogiorno, infine, dove solo poco più di un quarto delle misure segnala un posizionamento migliore della media nazionale, Abruzzo, Molise e Basilicata evidenziano i risultati più favorevoli (almeno un terzo di misure migliori), attribuibili in particolare ai Goal di matrice ambientale (13, 14 e 15). Le regioni più svantaggiate sono, di contro, la Campania e la Sicilia: a pesare negativamente sono, per entrambe, soprattutto le misure relative al Goal 4 (in particolare l’elevata quota di giovani che abbandonano il sistema di istruzione e formazione) e 1 (bassa intensità di lavoro e deprivazione materiale), che segnalano criticità anche per Basilicata e Calabria. Tuttavia, malgrado le importanti disparità a svantaggio del Mezzogiorno, l’evoluzione temporale degli indicatori mostra una qualche tendenza alla ricomposizione dell’eterogeneità tra le regioni.

Nel confronto europeo come ne usciamo? Nel complesso si rilevano per l’Italia ritardi rispetto alla media europea per la maggior parte degli indicatori economici dell’area Prosperità e per quelli dell’area Pace e Partnership, ma, nel complesso, il nostro Paese presenta una posizione più favorevole nell’area Persone e Pianeta, con una maggiore incidenza di indicatori che superano la media dei 27 Paesi dell'Unione. Si rilevano per l’Italia ritardi rispetto alla media per la maggior parte degli indicatori economici, oltre che per alcuni indicatori in ambito sociale e ambientale, ma non sono rari i casi in cui il nostro Paese presenta un vantaggio rispetto al contesto europeo. Per esempio il confronto del posizionamento tra Italia, Germania, Spagna e Francia dal 2015 ad oggi mostra come nell’area Persone, i migliori risultati vengono raggiunti dalla Francia e dall’Italia che si collocano in prima posizione per cinque indicatori su 14, la Spagna raggiunge i migliori piazzamenti nell’area Pianeta (sei prime posizioni su 11), mentre la Germania si distingue nell’area Prosperità (10 prime posizioni su 15). In generale però l’Italia, pur registrando progressi per alcuni indicatori chiave, resta strutturalmente fragile. La politica tutta ne prenda atto e possibilmente provi a porvi rimedio, prima che gli "Obiettivi del Millennio" si trasformino in "illusioni del millennio"!

Alessandro Graziadei