“Aiutare l’Africa non significa intervenire solo su problemi contingenti, ma promuovere, riconoscere, valorizzare la cultura allo scopo di salvaguardare il patrimonio artistico e ambientale, affiancando allo sviluppo tecnologico un pensiero di tipo umanista”. È questo l’approccio dell’associazione Atout African arch.it fondata nel 2006 a Rovereto (TN) da un gruppo di architetti e capace con le sue attività nella cooperazione internazionale di abbracciare molti degli Obiettivi dell’Agenda 2030. Ne abbiamo parlato con la presidente Barbara Borgini.
Buongiorno Barbara e grazie per la disponibilità. Come è iniziata l’esperienza dell’associazione Atout African arch.it e perché?
BB: Nel 1998, mi sono trovata a fare un viaggio studio in Benin.
Sottolineo Benin, perché pur essendo la nostra un’Associazione che interviene da Statuto in Africa, non ho la presunzione di parlare di altri Stati che non conosco. Il continente africano ha un’estensione tre volte gli Stati Uniti. Pertanto mi limiterò a parlare del Benin, piccolo Stato dell’Africa Occidentale Subsahariana grande circa come il triveneto, ma composto da più di 60 etnie differenti, ognuna con la propria lingua e tradizione culturale. Il Benin è stato definito il paese della “tolleranza” da Marc Augè nei suoi saggi “Il genio del Paganesimo” ed “Il Dio oggetto”, perché malgrado le innumerevoli invasioni coloniali (ricordiamo l’invasione portoghese che nel XVI secolo aveva dato origine al più importante traffico di schiavi per le Americhe), e quindi le molteplicità etniche presenti, il Paese ha sempre mantenuto un democratico equilibrio interno, a differenza dei Paesi limitrofi (vedi Bruce Charwin “Il viceré di Ouidah” da cui il film di W. Herzog “Il cobra verde”).
In quegli anni il Paese era molto diverso da oggi, ultimamente sta vedendo un rigoglioso sviluppo grazie (per fortuna o sfortuna) alle multinazionali cinesi che in cambio di materie prime offrono infrastrutture.
Mi permetto queste citazioni per mostrare che l’Associazione è nata non da studi specifici di Cooperazione, ma da personali riflessioni e ricerche autodidatte fatte di esperienze reali e concrete, che hanno indirizzato i nostri obiettivi su un piano umanistico. Difficilmente usiamo la parola “aiuti” perché rimanda ad un senso di dolore, paura ed inferiorità. Abbiamo sempre visto questo Paese nella sua ricchezza e nella potenzialità della cultura che lo identifica. Una cultura basata sul rispetto della Natura e dei valori dell’Uomo. Valori che nella nostra contemporaneità si stavano perdendo… pervasi dal pensiero occidentale, nel quale l’importantissima presenza tecnologico-scientifica talvolta prevarica e opprime.
Come mai avete scelto di collaborare con il Benin e i Paesi dell’area Subsahriana e quali sono le caratteristiche culturali e sociali di questa area geografica?
BB: Nulla avviene per caso!
Il viaggio sopracitato era stato organizzato dal coreografo Koffi Koko, dagli anni ’80 uno dei più importanti esponenti della traduzione contemporanea coreutica e teatrale, già presidente e fondatore in Benin di una Associazione Culturale Atout African International, col compito di promuovere e diffondere la cultura autoctona in tutto il mondo, anche invitando allievi nel suo Paese a partecipare direttamente alle attività dell’associazione e conoscerne la filosofia.
Il Benin (ex Regno del Dahomay- vedi Mati Diop “Dahomay”, G.P. Bythewood “The woman King”) è un Paese di profonda ed antica tradizione culturale ed artistica fin dal Regno di Edo, anno 1100 (vedi bronzi del Benin).
La particolarità della filosofia animista praticata da pressoché tutta la popolazione, che convive con le religioni cristiana e mussulmana, ti conduce ad una condizione metafisica in cui le azioni, i pensieri, i modi, i gesti, a partire da quelli della quotidianità, assumono un valore universale. Seguendo questo pensiero intendiamo rendere le nostre azioni durevoli nel tempo, e non transitorie.
Qual è la filosofia che sta alla base dei vostri interventi di cooperazione?
BB: Il rispetto e conoscenza della cultura, delle tradizioni e della storia locali, il confronto con il partner locale e le persone del luogo.
In Benin, conosciuto ancora come il paese dei Re (vedi “Nel paese dei re” Marco Aime), grande importanza hanno le relazioni coi saggi e notabili, oltre che con le amministrazioni pubbliche, che consultiamo sempre prima di iniziare un intervento.
Quando si entra in casa di altri ci si toglie le scarpe, e si rimane in silenzio ad ascoltare.
E’ la filosofia dell’ascolto dell’Altro, ci confrontiamo e ci arricchiamo vicendevolmente, non imponiamo niente, tanto meno nel campo in cui interveniamo cioè l’architettura. Il linguaggio contemporaneo occidentale architettonico è fatto di gesti egocentrici, per mettere in evidenza ed accrescere la fama della propria persona (archistar). Al contrario noi interveniamo in silenzio ed in punta di piedi, cercando di far emergere attraverso un semplice linguaggio fatto di materiali naturali e “poveri”, il cosiddetto “genius loci”. Possiamo chiamarla “architettura animista”, perché segue i codici della religione animista, predominante in tutta l’Africa Occidentale, ove la Natura è un Ente divino che regola e domina ogni cosa ed ogni azione in tutti i momenti della vita umana e delle cose.
Quali le vostre principali attività di intervento?
BB: La formazione e la riduzione del tasso di disoccupazione è alla base della nostra mission, dato il campo in cui operiamo: la costruzione di manufatti.
Nei cantieri che diventano un pratico luogo formativo, attraverso tecniche migliorative ed innovative, insegniamo ad usare il materiale locale in modo più sicuro ed efficace. Così formiamo competenze artigianali professionali: diamo un lavoro cercando di sostituire la precarietà economica familiare che sta alla base di tutti i problemi. Utilizziamo materiale locale e naturale (terra, legno, pietra, ecc.) rifacendoci alle tecniche tradizionali ed apportando migliorie per creare solidità e durabilità agli edifici. Per questo inviamo in missione tecnici (architetti, ingegneri, geometri, ecc.) dall’Italia e dall’estero, giovani e meno giovani, con l’obiettivo di collaborare coi tecnici locali. Diventa così uno scambio interculturale sul luogo, utile per entrambe le parti.
Ad oggi abbiamo formato più di 6000 artigiani locali e inviato più di 40 tecnici nei 40 cantieri realizzati dal 2006 ad oggi.
Gli edifici costruiti sono a destinazione di pubblica utilità ed alto valore sociale per sopperire ai bisogni: scuole (per diminuire l’analfabetismo), ospedali (per dare un livello di sanità migliore), orfanotrofi e centri di formazione per le donne (a sostegno delle fasce più deboli), riforestazione e realizzazione di pozzi (a salvaguardia dell’ecosistema). Diffondiamo il nostro operato tramite conferenze, lezioni, mostre espositive, articoli.
“L’arte è una grande risorsa, è un linguaggio universale e ciò che rende una cultura riconoscibile in tutto il mondo” ricordate sul vostro sito. In questo contesto perché l’architettura può diventare volano di sviluppo?
BB: Noi intendiamo l’architettura non come mera espressione tecnica, ma derivante da arcani e principi primi (Archè) della cultura del luogo; diviene un simbolo ricco di significato, leggibile ed interpretabile da tutti, così come ogni espressione artistica che abbia una derivazione simbolica, proprio tipica dell’arte africana.
Attraverso l’arte (musica, danza, pittura, poesia e scrittura) l’individuo può riconoscersi e riappropriarsi dell’identità perduta, a causa anche dei secoli di colonizzazione; ne diviene un linguaggio, un’espressione di dialogo.
Quando siamo arrivati in Benin le uniche architetture riconoscibili come tali erano quelle coloniali: portoghesi, spagnole e per ultime le contemporanee francesi, a cui ancora adesso si fa riferimento come stilemi. Ad esempio le scuole: la loro tipologia è standard e dettata dai francesi negli anni ‘70. Vengono ancora riprodotte tali e quali. Nel nostro piccolo, pur rispettando le normative delle aule, abbiamo inserito altri elementi per accrescere la convivialità e la didattica: spazi collettivi, aree da gioco maschili e femminili unite, orti scolastici, spazi in cui consumare i pasti insieme e fare ricreazione. Ma è attraverso la forma che ci distinguiamo, cercando di interpretare i segni e lo spirito di quel determinato luogo, rendendolo unico e riconoscibile. In questo modo si introduce, anche nel piccolo villaggio, un punto di riconoscimento, che diviene anche ritrovo delle persone, soprattutto quando installiamo i pannelli solari per illuminare dopo il tramonto (all’equatore ogni giorno alle 18).
Gli edifici sono costruiti con mattoni di terra cruda, e sono intonacati di terra, così rimangono rossi e si mimetizzano con il contesto; sembrano termitai nati dalla Terra. Chi vede per la prima volta i nostri edifici si chiede sempre: “Chi è il Beninese che costruisce così?’. Penso sia uno dei complimenti più belli!
L’arte è bellezza e la bellezza salverà il mondo (Platone, Sant’Agostino e Dostoevskij).
Negli ultimi anni avete avviato anche alcune esperienze di turismo responsabile sociale e culturale. Con quali scopi e con quali risultati?
BB: Il viaggio è un’importante forma di conoscenza e di apertura verso l’Altro.
Sono personali le motivazioni che spingono a conoscere il Benin. Chi partecipa ai viaggi torna profondamente toccato, sia in positivo che in negativo. Sono esperienze forti che ti mettono di fronte a molti ostacoli, e a cercare immediate soluzioni, senza perdere tempo.
Chiediamo sempre un periodo di formazione in sede prima di intraprendere questo viaggio, perché a volte il miraggio dell’Africa, libera, bella, paradisiaca dove tutto è possibile, è simile al miraggio che hanno gli Africani quando vogliono viaggiare in Europa…
Consiglierei questo tipo di viaggio in particolare alle nostre Amministrazioni Pubbliche, che gestiscono le sezioni della Cooperazione Internazionale, per meglio capire, vedere le cose… e giudicare con obiettività!
Da questi incontri anche le persone del luogo traggono il beneficio dello scambio e del confronto.
Giovani e volontariato. La vostra associazione ha trovato e sta trovando nei giovani una risorsa?
BB: I giovani, come è giusto che sia, sono attratti da questa opportunità. A mio avviso la prendono solo come accrescimento personale, pertanto vengono in Benin, poi vanno in Senegal, poi a Zanzibar, perdendo quello che è l’obiettivo principale! Ci vuole sacrificio e impegno costante per poter costruire qualche cosa di solido e duraturo: è un impegno etico e morale.
Parlando del “volontariato”, rimane a mio avviso un termine purtroppo obsoleto perché è difficile nei giovani pensare di agire senza essere retribuiti, e questo è un grave problema nelle organizzazioni di volontariato che si basano proprio su questo concetto.
Per anni il Trentino ha dimostrato un grande impegno nella cooperazione internazionale ed è diventato per questo una terra promotrice di nuove relazioni internazionali. Tuttavia dal 2018, con la nuova amministrazione, si è assistito ad una brusca inversione di rotta, con conseguenti tagli alla cooperazione e ai suoi progetti e l’eliminazione della quota fissa (che ammontava a 0.25%) dedicata alla cooperazione. Con quali conseguenze sulla vostra associazione?
BB: Le conseguenze sono drastiche, non solo per i tagli, che hanno penalizzato comunque l’immagine che la Cooperazione Internazionale Trentina aveva acquisito nel mondo per le concrete e numerose azioni; ma per quanto ci riguarda nelle relazioni con l’Amministrazione regionale che sta tenendo in sospeso dal 2020 due progetti, per altro già realizzati e rendicontati, senza dare risposta alcuna né a noi, né tanto meno al nostro legale di fiducia, il quale sta seguendo il caso, che non sembra essere l’unico del panorama.
Questo è inammissibile, un’Amministrazione non può cambiare le regole solo verbalmente, perché c’è stata un’inversione di marcia. I progetti devono seguire regole ben precise, dettate dalle convenzioni e dai protocolli, e le istituzioni hanno l’obbligo di rispondere al cittadino!
Ci affidiamo pertanto ad altre fonti di finanziamento, più serie e strutturate.
Assicurare la realizzazione dell’obiettivo dello 0,70% del reddito interno lordo per la solidarietà internazionale, quota in linea con gli obiettivi internazionalmente concordati dall’Italia, pensi possa diventare in futuro una realtà a livello locale e nazionale?
BB: Qui la risposta si lega alla domanda precedente. Se la volontà dei politici delle Amministrazioni locali va contro questi obiettivi, com’è possibile pensare che in futuro si possano realizzare questi obiettivi?
Grazie per la vostra disponibilità e per il lavoro di cooperazione internazionale che con costanza ed impegno portate avanti per il miglioramento dell’ambiente psico- fisico nel quale viviamo.
BB: Grazie a Voi a tutto il Vostro ampio e costante impegno di Abitare la Terra, che cerca di unire e diffondere il lavoro delle Associazioni. Nella convinzione che la Cooperazione nasca nelle nostre case, prima di poterla esportare!
Alessandro Graziadei