sabato 9 novembre 2024

C'è ancora un'Italia nucleare?

 

Mentre in Giappone veniva riattivato il reattore due della centrale nucleare di Onagawa nell’area di Fukushima, 13 anni dopo il disastro e dopo un importante aggiornamento della sicurezza, in Italia il 25 ottobre scorso Emanuele Orsini, neo presidente di Confindustria, si sbilanciava in un suo intervento all’assemblea generale “Facciamo il futuro. Brindisi”, annunciando che oggi “il nucleare di terza generazione, non è più quello di prima e seconda generazione, ma quello dei piccoli reattori modulari Smr”, una soluzione energetica considerata da Orsini "concreta" per venire incontro alle esigenze energetiche del Belpaese, grazie anche alla buona volontà di molti industriali, pronti “A trovare la location ai reattori all’interno delle nostre industrie. [...] Capisco che per un sindaco trovare un posto [per un reattore nucleare] sia complicato: ve li troviamo noi i posti” ha dichiarato un Orsini fiducioso nelle magnifiche sorti e progressive dell'atomo civile, al punto tale da annunciare “Che presto verrà costituita una società dove capofila ci saranno Enel, Ansaldo e Leonardo. Io credo che questo sia il primo passo ed è una cosa positiva, perché vuol dire investire in questo Paese nel nucleare”. Di una società italiana con partnership tecnologica straniera per produrre i reattori di terza generazione aveva già parlato a settembre il Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, mentre in ottobre lo aveva fatto anche il titolare del Ministro dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica Pichetto Fratin che aveva auspicato “Una catena del valore che graviti intorno a un soggetto industriale nazionale di riferimento, di dimensioni e competenze opportune, che si interfacci alla pari con i Paesi europei e internazionali e che preveda gran parte della catena produttiva [nucleare] non solo italiana, ma realizzata in Italia”.

Così ancora una volta la politicaa braccetto con una parte del mondo industriale, torna a sventolare la bandiera dell'atomo indifferente all'esito di due referendum popolari (1987 e 2011), alle devastanti conseguenze di eventuali incidenti (non solo per via di errori umani, ormai quasi impossibili grazie alla tecnologia, ma pensiamo a catastrofi naturali come i terremoti o i maremoti, i fenomeni atmosferici estremi, le guerre, gli attentati...), all’esperienza non proprio felice con i pochi Smr in funzione che dimostra che i reattori continueranno a costare molto di più del previsto e a richiedere molto più tempo per essere costruiti rispetto a quanto promesso dai proponenti, alla non rinnovabilità dell'Uranio, alle miniere presenti per lo più in Paesi non sempre governati da democrazie (vedi Russia, Kazakistan, Niger, Uzbekistan...) e all'annoso problema dello stoccaggio delle scorieproblema che abbiamo già toccato quest'anno, e non di poco conto. In Italia, infatti i rifiuti radioattivi, finora prodotti dagli ospedali e principalmente dalla nostra precedente esperienza “nuclearista” chiusa dal referendum del 1987 e durata dal 1963 al 1990 sono stati portati all’estero o sono ancora custoditi in depositi “temporanei”, ma non hanno mai potuto confluire in un Deposito Nazionale per permettere lo stoccaggio in sicurezza e in via definitiva, visto che non si è mai trovato un posto dove costruirlo. Dopo anni di attesa, lo scorso 14 dicembre il Ministero di Frattin ha ri-pubblicato l’elenco delle aree presenti nella Carta Nazionale delle Aree Idonee (CNAI), che individua le zone dove realizzare in Italia il Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi e il Parco Tecnologico per permetterne lo stoccaggio definitivo offrendo anche ad altri Comuni italiani la possibilità di proporsi quale futura area di stoccaggio. Il risultato è stato che nessuno si è fatto avanti spontaneamente ed i Comuni già individuati come aree idonee hanno mostrato una netta contrarietà alla localizzazione sul proprio territorio degli impianti.

Secondo Legambiente poi, “Sulla questione aree idonee ad ospitare il Deposito nazionale delle scorie nucleari, ancora una volta si è fatto il solito pasticcio all’italiana” perché sarebbe “Assurdo prevedere la possibilità di autocandidature anche da parte dei Comuni non compresi nella CNAI”. La possibilità di questo tipo di “autocandidatura” lascia, infatti, molto perplessi perché ipotizza un percorso poco rigoroso e poco attento alla sicurezza dei cittadini, che finirà per allungare inevitabilmente i tempi per l’individuazione del Deposito, che invece rappresenta (anche senza una prossima svolta nuclearista) una vera urgenza per la sicurezza di tutto il Paese. Se attualmente un Deposito nazionale per lo stoccaggio di rifiuti radioattivi è un'esigenza, lascia molto più perplessi la scelta di tornare ad investire su un'energia che dopo gli incidenti nucleari di Three Mile Island (1979), Chernobyl (1986) e Fukushima Daiichi (2011), tra la società civile di molti Paesi del mondo, soprattutto tra i membri occidentali dell’OCSE, ha portato ad un crescente disinteresse e, talvolta, anche un’aperta ostilità certificata in Italia da due scelte referendarie. Basterebbe questo, ma in aggiunta sappiamo che gli alti costi di investimento per la costruzione dei nuovi impianti e le incertezze legate alle tempistiche si riflettono in oneri per l’energia prodotta che superano anche i 200-250 euro per MWh (MegaWatt per ora), quando il prezzo dell’energia elettrica prodotta in Europa con le fonti rinnovabili solare ed eolica è spesso compreso fra i 50 e i 70 euro per Mwh.

Attualmente l’opzione nucleare è stata proposta e decisa dal Governo, inserita nel Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima e confermata da una mozione della Camera dei Deputati del mese di maggio 2023. Con decisione del Ministro per l’Ambiente e la Sicurezza Energetica del 21 settembre 2023 sono stati organizzati una Piattaforma nazionale per un nucleare "sostenibile" e Gruppi di lavoro sull’energia nucleare da fissione e da fusione che dovrebbero proporre un percorso (“road map”) con tappe da raggiungere e tempi da rispettare. Ma è evidente che i tempi dipendono dalle tecnologie a cui si vuole fare riferimento. Secondo Sergio Garriba coordinatore per l’Energia nella European Union Strategy for the Adriatic and Ionian Region (EU-SAIR) “Le opzioni tecnologiche disponibili per dare un futuro credibile all’energia nucleare di certo non mancano. La guerra in Ucraina ha dato un’accelerata a dibattito e progetti, riflessa dalla corsa del prezzo dell’uranio. Resta però altamente incerta la capacità delle soluzioni in campo di rispondere in tempi brevi e con costi contenuti alle esigenze della transizione verde, della sicurezza energetica e della competitività. Diversi ostacoli devono essere superati: complessità tecnica dei progetti, carenza di personale qualificato, regolamentazione rigorosa e scetticismo della popolazione (per lo meno in alcuni Paesi) nei confronti di tale fonte di energia. In un mondo caratterizzato poi dall’accesa competizione geopolitica tra Cina, Russia e Occidente e dall’ascesa di nuovi attori internazionali, il Rinascimento nucleare rischia di diventare l’ennesimo dossier scottante”.

Di fatto i reattori di cui fantasticano Governo e Confindustria, ricordiamo, sono impianti che potrebbero entrare in funzione non prima del 2035 o 2040, sempre che i prototipi si dimostrino fattibili, cioè quando la quota di copertura energetica delle rinnovabili elettriche (che abbiamo visto ha già costi più bassi delle fonti convenzionali attuali) sarà tra l’80 e il 90%. Non solo. Lo sviluppo del nucleare in Italia potrebbe avvenire solo ad una serie di condizioni: che non sia nuovamente bloccato da un referendum, che ci siano fondi statali per sussidi molto generosi da far realizzare gli impianti e che il problema della localizzazione si riveli davvero così banale come lo prospetta Orsini, una cosa di cui è lecito dubitare guardando a quel che è accaduto e accade per la geolocalizzazione del Deposito nazionale per le scorie. Che sia anche il nucleare l'ennesimo italico ponte sullo stretto?

Alessandro Graziadei

sabato 2 novembre 2024

Esiste l'acciaio sostenibile?

 

Ogni volta che penso e vedo le tante applicazioni quotidiane che facciamo dell'acciaio non posso non pensare all'Ilva di Taranto e a come sulla pelle dei cittadini di Taranto il ricatto dello sviluppo scorsoio e soprattutto l'esigenza di un lavoro, abbia messo in scacco ambiente e salute attraverso una spirale dove ogni scelta possibile, anche la migliore, ha delle ricadute negative. Se nel 2019 la Corte europea dei diritti dell'uomo aveva già accertato come l'acciaieria provocasse "Significativi effetti dannosi sull'ambiente e sulla salute degli abitanti della zona", a fine giugno la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha preso posizione con una sentenza che stabilisce la supremazia del cittadino su quella della produzione e del fatturato stabilendo finalmente che “Se presenta pericoli gravi e rilevanti per l’ambiente e per la salute umana, l’Ilva può essere fermata”. L’acciaieria di Taranto, la seconda più grande d’Europa, può quindi chiudere i battenti, almeno temporaneamente. Il pronunciamento della Corte di giustizia dell’Unione è forse l’ultimo tassello di una storia travagliata e apparentemente senza fine. Adesso spetterà ai giudici italiani fare le valutazione del caso e procedere alle decisioni necessarie per attuare la sentenza. Ma mentre i giudici del Lussemburgo hanno tracciato la via da seguire in materia di diritto, è naturale chiedersi se esiste un'alternativa capace di coniugare salute e lavoro in materia di acciaio.

Una risposta è contenuta nel documento “Cleaning up steel in cars: why and how?” pubblicato sempre a giugno da Transport & Environmment (T&E). Per l'ong “L'acciaio prodotto con idrogeno verde e forni elettrici ad arco, o ricavato da rottami, può ridurre le emissioni di CO2 della produzione di automobili in Europa di 6,9 Mt nel 2030. Ciò equivale a evitare le emissioni annuali di 3,5 milioni di auto alimentate da combustibili fossili. L'impatto climatico della produzione di automobili è sempre più al centro dell’attenzione, dato che le emissioni dei gas di scarico andranno riducendosi tendendo allo zero”. Per T&E, l'acciaio verde dovrebbe avere un impatto sul clima compreso tra 50 e 400 kg di CO2 equivalente per tonnellata di acciaio prodotto rispetto ai 1.800 - 2.250 kg di CO2 equivalente per tonnellata  della produzione di acciaio convenzionale. Questa analisi basata sullo studio “The use of Green Steel in the Automotive Industry” ci fa capire che “Un impiego del 40% di acciaio verde, sul totale dell’acciaio impiegato per la produzione di un’auto elettrica (BEV), comporterebbe un aggravio di soli 57 euro sul prezzo di listino del veicolo. Il passaggio al 100% di acciaio verde entro il 2040 comporterà un costo ancor più ridotto, di soli 8 euro rispetto all'utilizzo di acciaio convenzionale”. Com'è possibile? Grazie alle tasse sulle emissioni di CO2 e al calo dei costi di produzione dell'acciaio verde. Il settore automobilistico è in grado di generare e sostenere questa domanda, poiché attualmente consuma il 17% dell'acciaio nell'Unione, ma per T&E perché i miliardi di euro di investimenti necessari per la produzione di acciaio low-carbon siano davvero investiti, occorrono prospettive di mercato solide e affidabili per i produttori. Serve quindi un mercato guida per l’acciaio verde.

T&E chiede per questo ai legislatori europei di “Contribuire alla creazione di un mercato guida per l'acciaio verde in Europa, fissando, a partire dal 2030, obiettivi per le case automobilistiche, affinché ne utilizzino una quantità progressivamente crescente nelle nuove auto”. Per Andrea Boraschi, direttore dell'ufficio italiano di Transport & Environment, “Il settore automobilistico è il secondo più grande consumatore di acciaio, ed è ben posizionato per essere un mercato guida per l'acciaio verde in Europa. Il valore relativamente elevato delle automobili, in particolare dei marchi più attivi sui segmenti premium, rende l’impiego di acciaio verde un costo aggiuntivo davvero irrisorio rispetto al valore del bene, ed è un costo destinato a essere progressivamente riassorbito”. Se veramente incentivare l’uso di acciaio verde costa meno del cambio di pneumatici per ogni singolo veicolo, l'Europa ha oggi l'opportunità di costruire un'industria dell'acciaio verde sapendo fin d'ora che il costo aggiuntivo per l’impiego di questo materiale sarà trascurabile fino a divenire, col tempo, più economico della versione convenzionale più inquinante. Certo prima “Abbiamo bisogno di legislatori che avviino il passaggio all'acciaio a basso contenuto di carbonio nell'industria automobilistica” ha concluso Boraschi. Sulla base del monitoraggio contenuto nel rapporto T&E “L'Europa sarà in grado di produrre fino a 172 milioni di tonnellate l’anno di acciaio a basso tenore di carbonio entro il 2030Questo quantitativo sarà più che sufficiente per soddisfare la domanda totale di acciaio del settore automobilistico, che nel 2022 ha consumato 36 milioni di tonnellate”, senza contare che la prevista riduzione di peso delle auto nel prossimo decennio diminuirà l'uso dell'acciaio nel settore automobilistico.

Se almeno il 40% dell'acciaio delle nuove auto sarà veramente verde entro il 2030, per poi salire al 75% nel 2035 e al 100% nel 2040, avremmo contenuto le emissioni di uno dei settori più critici per la nostra impronta ecologica e per il nostro fragilissimo equilibrio climaticoSe le case automobilistiche, in assenza di leggi ed incentivi (per quanto minimi) avranno il coraggio di porsi un obiettivo medio di impiego di acciaio verde applicato alle loro filiere, quindi a tutte le loro nuove auto, consentendo così di orientare la produzione e di assorbire i costi iniziali d’investimento, soprattutto attraverso i modelli premium, questo è ancora tutto da capire. Per questo questo secondo T&E l'obiettivo principale in questo momento è introdurre quest'obbligo fin d'ora attraverso la legge e in particolare attraverso la Direttiva UE sui Veicoli fuori uso (ELV), attualmente in fase di revisione da parte dei legislatori europei. Non ci resta che sperare che, alla luce dei costi non insostenibili per la lobby dei motori, la strada che ci porterà verso un acciaio finalmente più sostenibile, a Taranto, come in tutta Europa, sia in discesa!

Alessandro Graziadei

sabato 19 ottobre 2024

Siamo ecologici, ma facciamo acqua da tutte le parti

 

Per il secondo anno consecutivo l’Italia si è confermata, a livello mondiale, tra i Paesi con il maggior grado di consapevolezza riguardo ai temi ambientali anche se aumenta lievemente lo scetticismo sulle cause della crisi climatica, un dato che mostra la necessità di non abbassare l'attenzione sui temi ecologici e di continuare ad investire in iniziative per formare e sensibilizzare l'opinione pubblica. È quanto emerge dai risultati del “Barometro della Trasformazione ecologica”, un sondaggio condotto anche quest’anno da Veolia in collaborazione con la società di consulenza Elabe che ha coinvolto un campione mondiale di 29.500 individui in 26 paesi e ha interrogato il campione sul grado di accettabilità delle soluzioni sostenibili, l’analisi degli ostacoli e le leve d’azione più condivise per accelerare la transizione ecologica. Ne emerge che noi italiani siamo ben consapevoli dei rischi per la salute del cambiamento climatico capace di determinare un aumento delle malattie, una ridotta qualità del cibo, effetti negativi per la salute mentale degli individui e il generale peggioramento della qualità della vita. Il 75% del campione  italiano si è anche dichiarato convinto che  serva da parte della politica un forte aumento di azioni concrete per la trasformazione ecologica perché "Ci costerà meno che l’inazione ambientale", una dato che va ben oltre la media mondiale del 66%! Per Emanuela Trentin, CEO di Veolia, è chiaro che oggi “9 italiani su 10, sono convinti che le autorità locali, le imprese, i governi, le istituzioni internazionali e i singoli individui debbano trovare e attuare soluzioni convergenti riguardo ai temi ambientali”.

L’indagine sembra sfatare un aspetto importante della crisi climatica, quello che aveva ben sintetizzato lo scrittore americano Jonathan Safran Foer secondo il quale “l’emergenza ambientale non è una storia facile da raccontare e, soprattutto, non è una buona storia: non spaventa, non affascina, non coinvolge abbastanza da indurci a cambiare la nostra vita”. Non è insomma preoccupante come un letale virus, o delle disumane guerre alle porte dell’Europa o in Medio Oriente. In realtà il secondo questa analisi, l’opinione pubblica italiana sugli impatti dei cambiamenti climatici mostra come i fattori clima alteranti non siano più percepiti come astratti per un’ampia percentuale di popolazione, ma si siano oggi un argomento più tangibile con conseguenze chiare nel breve termine. In particolare in merito al tema della decarbonizzazione dal Barometro emerge che 8 italiani su 10 sono disposti a pagare di più per l’energia prodotta localmente da rifiuti non riciclabili e biomasse per ridurre le emissioni di Co2, garantendo la sicurezza dell’approvvigionamento locale e riducendo la dipendenza dai paesi produttori di combustibili fossili; che il 54% degli italiani ritiene che un’azione ecologica vincente debba coniugare efficienza e innovazione; che per 9 italiani su 10 la trasformazione ecologica non può e non deve essere raggiunta senza il pieno coinvolgimento dell’opinione pubblica e di tutti gli stakeholder: “solo attraverso un impegno congiunto di autorità locali, aziende, governi, individui e istituzioni sarà possibile trovare e implementare soluzioni per contrastare il cambiamento climatico”.

Eppure nonostante queste consapevolezze "verdi" facciamo ancora acqua! In Europa, infatti, l’Italia è tra i Paesi peggiori come dispersione idrica con l'incredibile dato del 42% e se oggi il problema della siccità è esteso e globale, in Italia il quadro si fa più difficile considerando lo stato delle infrastrutture idriche visto che il 60% è vecchio di oltre 30 anni e il 25% supera addirittura i 50 anni. Secondo l’Agenzia europea per l’Ambiente ogni anno il 20% del territorio europeo e il 30% dei suoi abitanti siano soggetti a stress idrico. Nel 2022 (ultimo dato ufficiale dell'Agenzia) la situazione si è ulteriormente peggiorata, specialmente nei mesi estivi, con oltre il 60% del territorio europeo in condizioni critiche. Se questo è il quadro generale europeo, l'Italia è tra i fanalini di coda e ha perdite di risorsa idrica pari solo alla Romania, seguite da Irlanda e Bulgaria, dove le infrastrutture sono vecchie almeno quanto le nostre. In cima alla classifica per efficenza idrica ci sono i Paesi Bassi con solo il 5% di perdite, seguiti da Germania (6%); Danimarca (8%); Estonia (12%); Finlandia (17%); Repubblica Ceca (18%); Francia (20%); Belgio e Svezia (21%); Spagna e Uk (23%). Sempre facendo confronti europei, l’Italia è il secondo Paese dell’Unione per prelievi di acqua ad uso potabile (il doppio della media europea, tre volte la Germania) e un consumo pro capite giornaliero pari a 220 litri al giorno. Un dato incredibile, e come se non bastasse nonostante una qualità dell'acqua mediamente buona, ogni italiano consuma 200 litri all’anno di acqua in bottiglia. Si tratta di abitudini che impattano sull’ambiente, anche per la quantità di plastica prodotta e circolante.  

Come mai la politica non ha mai messo mano alla salvaguardia di questo prezioso bene comune? A quanto pare la tariffa italiana è tra le più basse d’Europa e per questo non si fanno investimenti significativi e si preferisce mantenere la tariffa ai minimi, scelta più popolare dal punto di vista del consenso dei cittadini, anche se meno razionale dal punto di vista industriale. La spesa media dell’utenza domestica per il servizio idrico nel 2022 è stata di 326 euro (2,17 euro per metro cubo) Iva inclusa, per un consumo di 150 metri cubi l’anno. Migliorare gli investimenti e svecchiare la rete dovrebbe essere dunque una priorità nazionale e se è vero che c’è il Pnrr che con i suoi investimenti previsti nel settore delle infrastrutture idirche ci dovrebbe aiutare, certamente la presenza nel Belpaese di 2.400 gestori non aiuta ad avere criteri, qualità ed efficienza degni di un paese europeo.

Alessandro Graziadei


sabato 12 ottobre 2024

C'era una volta l'Amazzonia

Non so voi, ma io quando penso all'Amazzonia penso ad una foresta che non solo per anni ha popolato il mio immaginario equatoriale ricco di biodiversità, ma penso ad un'area che è oggi il più grande polmone verde della terra. Ma lo è ancora? Lo studio “Critical slowing down of the Amazon forest after increased drought occurrence” pubblicato su PNAS a maggio di quest'anno ha previsto che entro il 2050 tra il 10% e il 47% dell’Amazzonia potrebbe essere sull’orlo di un punto di non ritorno. Analizzando i tempi di recupero attraverso le variazioni mensili tra 2001 e 2019 della colorazione delle foglie ricavate da dati satellitari, un gruppo di ricercatori dell’Università di Lovanio in Belgio, ha capito che la regione meridionale dell’Amazzonia, dove si concentra la maggior parte delle attività antropiche, mostra un “rallentamento critico” nella risposta alla ripresa dalla siccità della foresta. Il rallentamento critico è un fenomeno in cui i sistemi naturali mostrano un recupero idrico molto più rallentato che li avvicina a un progressivo degrado. Così anche se la maggior parte dell’Amazzonia non sta vivendo un rallentamento critico, le aree con precipitazioni variabili, sono oggi maggiormente suscettibili a questa tendenza.


La professoressa Johanna Van Passel e i suoi colleghi hanno evidenziato come l'Amazzonia abbia già vissuto tre siccità estreme nell'arco di 20 anni e si prevede che tali siccità diventeranno sempre più frequenti a causa dei cambiamenti climatici che hanno causato un aumento della frequenza, dell’intensità e della durata della siccità e dei suoi conseguenti “rallentamenti critici”.  In un clima senza riscaldamento globale antropico, questi fenomeni si dovrebbe verificare solo una volta ogni 100 anni, ma adesso è diverso. Il colore della chioma degli alberi può darci informazioni sulla salute e la resilienza della foresta - ha spiega Ben Somers, co-autore della ricerca - Il colore cambia sempre nel corso delle stagioni, ma se nel corso degli anni gli alberi hanno bisogno di sempre più tempo per riprendersi, allora c’è qualcos’altro in gioco. In questo caso si parla appunto di rallentamento critico, che potrebbe significare che l’ecosistema sta per raggiungere un punto di non ritorno verso il deperimento delle foreste su larga scala e alla fine si trasformerebbe in un sistema degradato con meno diversità e complessità”A quanto pare per il momento, il punto di non ritorno non è ancora stato innescato, ma lo studio registra un sensibile rallentamento nei tempi di recupero dell’Amazzonia a partire dal 2015 e secondo gli autori, l’aumento dei casi di siccità in Amazzonia potrebbe espandere le aree forestali che subiscono questo rallentamento critico, portando potenzialmente al collasso locale degli ecosistemi forestali.


Secondo la Re Soil Fondation, che si occupa da decenni di salvaguardare uno dei beni più importanti e allo stesso tempo sottovalutati del Pianeta, il suolo, l’eccezionale siccità registrata nel Bacino dell’Amazzonia in particolare nel corso del 2023 è uno dei più drammatici effetti del cambiamento climatico. Il fenomeno sarebbe legato al rialzo generale delle temperature e al conseguente riscaldamento periodico delle acque superficiali dell’Oceano Pacifico Centro-Meridionale e Orientale nei mesi invernali che si verifica mediamente ogni cinque anni. A sostenerlo è anche un recente studio che ha coinvolto, tra gli altri, i ricercatori dell’Imperial College di Londra e dell’Universidade Federal do Rio de Janeiro. In questo studio “Scienziati brasiliani, olandesi, britannici e statunitensi hanno utilizzato metodi pubblicati e sottoposti a peer-review per valutare se e in che misura la siccità sia stata influenzata dai cambiamenti climatici e da El Niño, notoriamente associato alla presenza del fenomeno in Amazzonia”, si legge in una nota diffusa ad inizio anno dal World Weather Attribution (WWA), specializzato nell'analisi dell’incidenza degli eventi estremi. 

L’indagine che ha preso in esame proprio l’eccezionale ondata di siccità che ha colpito quest'area equatoriale lo scorso anno ha evidenziato come il fenomeno si sia manifestato, sia sul fronte meteorologico, con un basso livello di precipitazioni, che nel suolo con una forte incidenza del rilascio dell’acqua. Un dato importante visto che “La variabile principale utilizzata per caratterizzare la siccità agricola è l’indice di Evapotraspirazione Precipitativa Standardizzata (SPEI) che utilizza la differenza tra le precipitazioni e l’evapotraspirazione potenziale stessa per stimare la disponibilità di acqua”, ha spiega il WWA. A livello meteorologico, invece, il fenomeno è descritto da un indice noto come Standardised Precipitation Index (SPI) e basato soltanto sulle piogge. Secondo gli scienziati i livelli di siccità osservati sono assolutamente eccezionali,  e “Più i valori sono negativi come in questo caso, più la siccità è classificata come grave”.


Per gli autori dello studio “L’oscillazione del Niño ha contribuito certamente ad alimentare il fenomeno, ma il rialzo delle temperature avrebbe avuto in realtà un ruolo più rilevante” perché “La forte tendenza all’inaridimento è stata quasi interamente dovuta all’aumento delle temperature globali, ragion per cui la gravità della siccità attualmente in corso è in gran parte determinata dai cambiamenti climatici”. Combinando l’analisi degli indici con i modelli climatici gli scienziati hanno evidenziato come la probabilità che si verifichi la siccità meteorologica sia aumentata di dieci volte, mentre la siccità del suolo è diventata circa trenta volte più probabile. Questo specifico problema del suolo anche dell'Amazzonia era già noto, tanto che lo scorso anno, uno studio cinese pubblicato su Science, ha osservato come la siccità lampo, ovvero il fenomeno della carenza idrica improvvisa, stia diventando sempre più frequente su scala globale proprio a causa del cambiamento climatico. L’intensificazione di questo fenomeno interesserebbe negli ultimi 64 anni il 74% delle regioni globali identificate dal Rapporto speciale sugli eventi estremi dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). In Amazzonia in particolare l’esposizione agli impatti della siccità è stata aggravata da pratiche storiche di gestione della terra, dell’acqua e dell’energia, tra cui la deforestazione, la distruzione della vegetazione, gli incendi, la combustione di biomassa, l’agricoltura industriale, l’allevamento di bestiame e altri problemi socio-climatici di non facile risoluzione. Rischiamo così di compromettere per sempre il nostro polmone verde e la vita sulla terra.


Alessandro Graziadei




 

sabato 5 ottobre 2024

L'eolico: una risorsa da saper gestire

Le energie rinnovabili sono il futuro e tra queste l'energia prodotta dall'eolico avrà un ruolo fondamentale per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione, sia a livello nazionale che globaleAlcuni progetti certo potrebbero essere meno grandiosi e meno impattanti, seguire procedure di realizzazione più chiare e più sostenibili, ma è evidente che l'ambiente e il paesaggio oggi vanno salvati non tanto dalle rinnovabili, quanto piuttosto dalla crisi climatica. È con queste premesse che nelle scorse settimane l'International Union for Conservation of Nature (IUCN) ed Ecowende hanno firmato un accordo di partenariato con l'obiettivo di fornire una consulenza per la salvaguardia della natura all’impresa che realizza i parchi eolici a Hollandse Kust West nel Mare del Nord. In base all'accordo, “L'IUCN istituirà un team consultivo scientifico indipendente per fornire indicazioni a Ecowende sull'implementazione delle migliori pratiche in termini di monitoraggio della biodiversità. Il team fornirà inoltre consulenza a Ecowende per rispettare i suoi impegni sulla mitigazione dell'impatto negativo del parco e, ove possibile, stimolare l'impatto positivo sull'ecologia del Mare del Nord”. Questo team sarà composto da scienziati ed esperti con esperienza in ecologia marina nella regione del Mare del Nord che si concentreranno su uccelli migratori, pipistrelli, popolazioni ittiche del Mare del Nord, mammiferi marini e specie marine presenti sui fondali marini (le comunità bentoniche).


Una scelta coraggiosa e lungimirante perché di fatto la transizione verso l'energia verde non dovrebbe mai avvenire a spese dell'ambiente e per IUCN “Esistono ancora lacune significative nella nostra comprensione globale degli effetti dell'offshore sugli ecosistemi marini, nell'efficacia di alcune misure di mitigazione e nel perseguimento di un impatto netto positivo nei progetti eolici offshore. L'istituzione di un team consultivo indipendente aiuterà nella valutazione più ampia dell'impatto ambientale dell'offshore sull'ecologia e faciliterà la diffusione della conoscenza”. Questo accordo punta a stabilire un nuovo punto di riferimento ecologico per lo sviluppo e la gestione di parchi eolici non solo nel Mare del Nord. L'obiettivo, infatti, è consentire la costruzione di futuri parchi eolici offshore che abbiano un impatto netto positivo sulla natura, cosa molto importante, visti i grandi progetti e la necessità un'accelerazione nello sviluppo soprattutto dell'offshore e per fare in modo che la natura e il clima ne traggano vantaggio sia sopra che sotto l'acqua. Per Hermione van Zutphen, responsabile del programma di ecologia di Ecowende, “L'ampia rete di membri dell'IUCN e la sua lunga esperienza nello sviluppo di politiche di conservazione della natura e di sviluppo sostenibile ci forniranno una fonte inestimabile di conoscenze e competenze per garantire che il nostro programma di ecologia colmi le lacune di conoscenza e contribuisca positivamente agli ecosistemi marini”.


Un esempio virtuoso di collaborazione tra realtà industriali ed ecologiste che potrebbe essere utile anche al Belpaese dove in luglio a Roma si è svolto iI Summit italiano sull’offshore, organizzato dall’Associazione nazionale energia del vento (Anev) alla presenza tra gli altri del Ministro delle Imprese, Adolfo Urso. Il Summit è servito per chiedere al Governo e al Parlamento di intervenire subito per far nascere una solida filiera industriale nazionale dell'eolico offshore che ci consentirebbe di produrre in Italia le componenti necessarie alla realizzazione di impianti eolici offshore galleggianti e superare la dipendenza energetica da Paesi terzi. L’Italia, secondo alcuni studi dell’Aenv, confermati dal Global Wind Energy Council, è il terzo mercato a livello mondiale per potenziale di sviluppo dell’offshore galleggiante. Infatti, al 2040 il potenziale dell’offshore italiano è di 11 GW di potenza installata (10 GW è quello stimato da Terna). L’Italia ha già sviluppato una propria capacità industriale per quanto riguarda l'eolico a terra e potrebbe fare altrettanto con l’offshore, ma ad oggi, questa resta solo un'ipotesi. Secondo le stime del tink tank Ambrosetti l’offshore galleggiante in Italia può valere 27 mila nuovi posti di lavoro al 2050, ma di ad oggi lungo gli oltre 7mila km di coste nazionali c’è un solo impianto offshore galleggiante anche perché il nuovo Decreto Aree Idonee (dello scorso luglio) permette alle Regioni di limitare fortemente gli spazi dove poter veder sorgere le pale e manca ancora un Piano nazionale di gestione dello spazio marittimo, assenza che ha posto in infrazione europea l'Italia.


Senza abdicare a criteri di tutela del ambientale, conservazione e biodiversità secondo Simone Togni, presidente di AnevL’offshore è la tecnologia che ci permetterà di raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione al 2030, 40 e 50. Per fare ciò bisogna incoraggiare le aziende italiane che vorrebbero investire in questo settore definendo un quadro normativo e regolatorio chiaro. Inoltre è indispensabile oltre che urgente, la creazione di una filiera industriale nazionale solida, pronta a consentire le forniture necessarie alla realizzazione di impianti eolici off-shore in tempi rapidi”. L’Anev per questo continuerà a promuovere l’offshore affinché si riescano a raggiungere entro il 2040 gli 11 GW di potenza installata in modo efficiente e utile, senza dimenticare però che esistono anche alcuni interessanti progetti, decisamente meno impattanti, legati al “micro eolico”. Un esempio è la tecnologia sviluppata tra gli altri da ENLIL. Opportunamente collocata lungo le vie trafficate come autostrade, linee di metro e altre linee di trasporto urbano ed extraurbano, la turbina ad assetto verticale ENLIL ruota ogni qual volta un mezzo di trasporto vi passa accanto grazie al movimento dell'aria generato dalle vetture, alimentando così la produzione di energia pulita. Un po' come un moderno mulino a vento, questa micro turbina eolica (raramente supera i due metri di altezza) è in grado di catturare lo spostamento d'aria causato dall'avanzamento delle autovetture e produrre la rotazione dell'asse, trasformando poi il movimento in energia elettrica che può essere utilizzata direttamente o stoccata in batterie. Una soluzione che potrebbe ben coniugare paesaggio, ambiente e transizione energetica!


Alessandro Graziadei

 

sabato 28 settembre 2024

Ci stiamo tropicalizzando!

 

Stiamo assistendo ad un progressivo spostamento delle piogge tropicali verso nord causato da complessi cambiamenti climatici dovuti alle emissioni di carbonio che influenzano la formazione delle zone di convergenza intertropicali, zone che raccolgono circa un terzo delle precipitazioni mondiali (fino a 4 metri di pioggia all'anno). In queste aree lungo o vicino all'equatore gli alisei degli emisferi settentrionale e meridionale si incontrano e si lanciano verso l'alto nelle quote più fredde, aspirando grandi volumi di umidità dagli oceani. Mentre questa aria umida si raffredda a quote più elevate, si formano nubi temporalesche, che consentono temporali torrenziali. A spiegare il fenomeno sono stati Wei Liu, Shouwei Li e Antony Thomas dell’Università della California Riverside (UCR), Chao Li del Max-Planck-Institut für Meteorologie e Maria Rugenstein della Colorado State University con lo studio Contrasting fast and slow intertropical convergence zone migrations linked to delayed Southern Ocean warming”, pubblicato a fine giugno su Nature Climate ChangePer il gruppo di scienziati “Le emissioni incontrollate di carbonio costringeranno le piogge tropicali a spostarsi verso nord nei prossimi decenni, il che avrà un impatto profondo sull'agricoltura e sulle economie vicine all'equatore”. Ad essere più colpite saranno le regioni tropicali a nord e sud dell’equatore, in particolare i Paesi dell'Africa centrale, il Sud America settentrionale e gli stati insulari del Pacifico e a subirne le conseguenze più drammatiche saranno soprattutto le coltivazioni di caffè, cacao, olio di palma, banane, canna da zucchero, tè, mango e ananas


Lo studio, che ha tenuto conto di come le emissioni di carbonio influenzano la quantità di energia radiante nella parte superiore dell'atmosfera, ha anche preso in considerazione i cambiamenti nel ghiaccio marino, nel vapore acqueo e nella formazione delle nubi. Questi e altri fattori hanno determinato condizioni che spingono verso nord, fino a 0.2 gradi in media, le zone di convergenza che formano la pioggia. Secondo Ma Liu, professore associato di cambiamenti climatici e sostenibilità al Department of Earth Sciences and Planetary Sciences dell'UCR, “Lo spostamento verso nord durerà solo circa 20 anni prima che forze più grandi derivanti dal riscaldamento degli oceani meridionali spostino le zone di convergenza verso sud e le mantengano lì per un altro millennio”. Liu sottolinea che “Il cambiamento delle precipitazioni è molto importante. Si tratta di una regione con precipitazioni molto intense. Quindi, un piccolo cambiamento causerà grandi cambiamenti economici e sociali che influenzeranno molte regioni”. Per realizzare la previsione il team di ricercatori ha utilizzato sofisticati modelli informatici per prevedere l'influenza atmosferica delle emissioni di anidride carbonica derivanti dalla combustione continua di combustibili fossili e di altre fonti. Come accade anche per simulazioni ancora più complesse, come nel caso della “Gemella della Terra”, “In pratica, cerchiamo di simulare il mondo reale. Nel modello, possiamo aumentare le nostre emissioni di anidride carbonica dai livelli preindustriali a livelli molto più alti” ha spiegato Liu. 


Una delle conseguenze di questo spostamento delle piogge tropicali sono i relativi spostamenti anche dei cicloni tropicali che hanno un forte impatto sui trend delle precipitazioni. A seconda di dove si verificano, possono causare fino al 20% delle precipitazioni annue totali sulla terraferma e fino al 40% su alcune regioni oceaniche. Questo rende importante avere una migliore comprensione dell’impatto dei cicloni tropicali sul clima, e verificare le potenziali tendenze associate al riscaldamento globale, un lavoro che lo studio “Freddy: breaking record for tropical cyclone precipitation?”, da poco pubblicato su Environmental Research Letters da Enrico Scoccimarro, Paolo Lanteri e Leone Cavicchia della Fondazione Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC), ha provato a realizzare analizzando le precipitazioni legate ai cicloni tropicali in vari dataset osservativi, con un’attenzione particolare al ciclone tropicale Freddy, che ha interessato l’Oceano Indiano Meridionale nel 2023. Per Scoccimarro, “Una quantificazione affidabile della quantità di acqua associata ai cicloni tropicali gioca un ruolo fondamentale nell’aiutare gli stakeholder e i decisori politici ad anticipare e prepararsi a questo tipo di eventi, che hanno impatti significativi sulla società e sugli ecosistemi”. Lo studio, finanziato dal programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione Europea nell’ambito del progetto Climate Intelligence (CLINT), ha certificato che Freddy è stato il ciclone tropicale più intenso in termini di energia rilasciata e il terzo più mortale mai registrato nell’emisfero australe, con impatti distruttivi in Madagascar, Mozambico, Zimbabwee e soprattutto Malawi. Freddy ha avuto un comportamento piuttosto particolare: si è sviluppato vicino alla costa occidentale dell’Australia all’inizio di febbraio 2023 e poi ha attraversato l’Oceano Indiano meridionale, raggiungendo la costa orientale dell’Africa in poche settimane. Per i ricercatori “Solitamente, i cicloni sono alimentati dal calore e dall’energia dell’oceano, quindi perdono intensità quando toccano terra e tendono a dissiparsi. Insolitamente, invece di dissiparsi dopo l’approdo, Freddy è tornato nell’oceano, dove ha guadagnato più energia e ha invertito la sua direzione, colpendo nuovamente la costa del Mozambico e poi del Malawi”. Questo comportamento insolito lo ha reso il ciclone tropicale più lungo mai registrato, con una durata di 38 giorni , battendo il record precedente di 30 giorni di oltre una settimana e percorrendo una distanza totale di oltre 8.000 chilometri.


Per questo Freddy è stato riconosciuto come il ciclone tropicale più intenso mai registrato in termini di energia ciclonica accumulata (ACE), una misura che esprime l’energia rilasciata da un ciclone tropicale durante la sua vita e che fornisce una stima sia dell’intensità del ciclone, che è solitamente la sua velocità massima, sia della sua durata, dando una misura dell’energia dissipata, che è più rappresentativa dell’attività complessiva del ciclone. Per Scoccimarro “Al CMCC sono stati condotti molti studi per cercare di comprendere gli effetti del cambiamento climatico sui cicloni tropicali. Da un lato è vero che con un clima più caldo abbiamo un’atmosfera più stabile, e quindi ci aspettiamo meno cicloni tropicali. D’altra parte, però, è anche vero che una maggiore disponibilità di energia nell’oceano porta a tempeste più intense. Inoltre, se capita che una tempesta ritorni nell’oceano, ha maggiori probabilità di rafforzarsi nuovamente e colpire di nuovo la terraferma, e questo è proprio quello che è successo di recente con Freddy”. In ogni caso ha concluso Scoccimarro “In media, in un clima più caldo, è più probabile che si verifichino tempeste più intense. In un clima cambiato, probabilmente avremo meno tempeste, ma probabilmente saranno molto più intense”.


Alessandro Graziadei

sabato 14 settembre 2024

La città dei vivi, nonostante un certo giornalismo...


Metti un martedì sera di metà settembre, a Trento, nella cornice ancora molto estiva del Parco della Predara dove la Bookique (“l'unico luogo a Trento dove non si vedono le montagne”) ha ospitato martedì sera un dialogo su giornalismo, finzione e attualità tra Nicola Lagioia, scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico, Premio Strega nel 2015, e già direttore del Salone del Libro di Torino fino al 2023, e Silvia Boccardi, giornalista, autrice, esperta di nuovi linguaggi mediali che ha collaborato con “Will”, con “LA7”, con “Rai 2”, “BBC”, “The Guardian” e “The Wall Street Journal”. Ad organizzare l'evento la Rassegna Generazioni un progetto culturale regionale innamorato il Trentino Alto Adige/Südtirol che è diventato un brillante incubatore di idee, progetti e azioni animate da un team di professionisti impegnati nel promuovere cultura a 360 gradi. Quello a cui assisto assieme ad oltre 150 persone è un incontro che invita ad interrogarci su ciò che siamo diventati in una società in cui realtà e finzione presentano confini sempre più labili e i due ospiti, molto a loro agio nei campi della narrazione e del giornalismo di inchiesta hanno provato a rispondere, partendo dalle loro esperienze professionali, ad alcune fondamentali domande che la contemporaneità ci pone: realtà e finzione sono mondi contrastanti? Quanto la vita vera incide nella narrazione e quanto il mondo reale, nelle sue manifestazioni, supera i limiti dell’immaginario?


Brillantemente condotti da Caterina Moser, responsabile della comunicazione e referente del Progetto Ambasciatori della Fondazione Antonio Megalizzi, la serata è partita dal libro di LagioiaLa città dei vivi” una dettagliata ricostruzione dell’omicidio di Luca Varani, avvenuto a marzo 2016, da parte di Manuel Foffo e Marco Prato, due ragazzi di buona famiglia che hanno compiuto un gesto inspiegabile, inimmaginabile anche per loro solo pochi giorni prima. “Questo libro prova a ricordarci che esiste un particolare tipo di finzione che prende vita nei documenti del reale”. Per Lagioia, infatti, “per raccontare la realtà, non sempre basta solo la storiografia o il giornalismo, anche la narrativa può portare un contributo importante. Un contributo che non ha i tempi della storia o la fretta del giornalismo, ma che partendo come in questo caso dagli atti processuali ha la possibilità di entrare, anche a distanza di anni, nella profondità e nella complessità dei fatti”. In questo senso la letteratura, a differenza del cattivo giornalismo, non crea mostri. Il “mostro” è spesso consolatorio, significa che noi non saremo mai così, e invece questo libro ci ricorda come nella vita tutto è umano e anche nel nostro di Mondo, le ossessioni più torbide esistono. Non siamo solo vittime. Abbiamo la possibilità di compiere il male e di scoprirlo dentro di noi, “Abbiamo tutti un lato oscuro, e su questo la narrativa e lo scrittore sono forse più capaci di riconoscerlo rispetto al giornalismo” ha spiegato Lagioia. Oggi l'informazione sembra lo specchio del mondo reale, ed è “un'informazione capace di fare del male”. Come uscirne? Al centro di questo processo narrativo c'è “la sensibilità e la responsabilità di chi scrive, di chi come Lagioia ha incontrato i protagonisti di questo delitto e non ha nascosto le sue intenzioni: scrivere un libro su quello che è accaduto, con la consapevolezza di non alterare la verità processuale, ma di poter in ogni caso ferire non solo i protagonisti, ma parenti, amici, e le tante altre “vittime” di questo omicidio. Raccontare questo omicidio senza cadere nel morboso o facendone solo un'accusa era difficilissimo. E Lagioia è riuscito a raccontare la realtà più nera e farci entrare anche nella testa degli assassini, non per condannarli o perdonarli, questo non spetta a noi, ma per riuscire semplicemente a vederli.

  

Il giornalismo ne è ancora capace di fare quello che è riuscito alla narrativa? Per Silvia Boccardi, “il metodo e il rigore con i quali si approccia la complessità della realtà sono i cardini di una buona inchiesta giornalistica, che non sposa una tesi preconcetta e non può essere influenzata dal mio pregiudizio. La tesi di un'inchiesta viene costruita sul campo e non prima. La Boccardi, autrice della pregevole inchiesta sociale “Perfette mai” è riuscita a raccontare, senza cadere nella morbosità, nella spettacolarizzazione e tutelando e proteggendo le vittime di questa storia, l'ossessione della nostra società per la perfezione dei corpi femminili, modificati da diete, operazioni chirurgiche, cosmetici invasivi e filtri digitali, ossessione spesso indotta da chi ci lucra e ci specula, provando a influenzare anche il processo legislativo a discapito della salute pubblica, (tema che per la Boccardi è vitale). Il rigore di inchieste come questa sono sempre più rare nel giornalismo contemporaneo, dove, nei reportage video come nella carta stampata conta un'immagine o un titolo sensazionalistico, che spesso nulla centra con l'inchiesta ed è utile solo al clikbait. Esistono di fatto oggi “titoli totalmente inventati” e “professionisti ai quali sono attribuite riflessioni mai fatte o dette” ha ricordato Lagioia. Oggi la carta stampata è “in crisi di risorse ancor prima che di idee, gli editori puri non esistono più, le tirature sono passate da 600.000 copie a 60.000, la televisione ha un enorme problema di pluralismo" e “fa rimpiangere in RAI la buona e vecchia lottizzazione dei partiti” visto che oggi non solo la RAI è diventata “monocolore e mono opinione”. Tema questo centrale anche per la Boccardi per la quale un problema enorme del giornalismo italiano, fatto tutto da direttori maschi, bianchi ed eterosessuali, “è aver dimenticato il valore fondamentale della diversità”. Esiste quindi un racconto del reale fatto da un'unica prospettiva: “topdownche non tiene conto delle diversità generazionali, di genere e neanche di quelle culturali”.


Un'ultima importante riflessione suggerita dalla Moser è quella attorno ai social media. Per la Boccardi “si tratta di piattaforme dalle grandi criticità, ma anche di grande opportunità, perché sono solo strumenti che permettono di fare inchieste molto serie ed interessanti”Per Lagioia “esiste un concreto rischio nel giornalismo contemporaneo: inseguire i social con alcune notizie che fanno grandi visualizzazioni, ma sono gossip e non notizie, non permettono la costruzione di una visione critica da parte dell'opinione pubblica”. Dall'altro lato è indubbio che senza social “probabilmente Gennaro Sangiuliano sarebbe ancora il nostro Ministro della Cultura” o “il caso di Stefano Cucchi non si sarebbe riaperto e concluso come sappiamoPer lo scrittore esiste però anche qui un serio problema a monte, ed è quello che è ben rappresentato da X e dal suo proprietario ed imprenditore Elon Musk, sicuramente capace di influenzare l'informazione e forse anche le future elezioni americane. Ci sarebbe poi da ricordare una coda critica della serata dedicata all'uso e abuso della televisione pubblica fatto dall'ex Ministro Sangiuliano, suggerita da alcune domande dal pubblico, un caso che per Lagioiaè Porn Hub” e che la Boccardi ha sintetizzato perfettamente ricordando che “quello non è giornalismo, perché nessuno ha posto domande scomode”. C'è tempo anche per un ultimo messaggio di speranza per la professione giornalistica “che si può ancora fare e bene, a tanti livelli, anche perché oggi non occorre per forza il far parte della redazione di un grande giornale per fare del buon giornalismo, a volte è vero il contrario" ha concluso la Boccardi.


Durante l’evento il pubblico è stato coinvolto dall'associazione InCo in una rappresentazione artistica visiva che ha provato con il pubblico a risponde alla domanda “Chi sono gli Humans of Trentino”? anche attraverso l’esposizione della mostra fotografica “Humans of Trentino” un progetto giovanile finanziato dal programma Erasmus+ che vuole favorire l’uguaglianza, la solidarietà e i legami tra tutti i cittadini e i rappresentanti dei diversi gruppi sociali e culturali.A fine serata mi sono alzato sapendo che oggi il giornalismo è sì in crisi, ma che è ancora possibile raccontare la realtà nonostante un certo giornalismo.


Alessandro Graziadei








 

venerdì 13 settembre 2024

Più turisti, più rifiuti?

 

“L'estate sta finendo e un anno se ne va” o quasi e si porta in dote un'altra stagione estiva record per il turismo. Già lo scorso anno in Italia questo settore aveva raggiunto e superato i livelli pre-Covid con oltre 134 milioni di arrivi e 451 milioni di presenze negli esercizi ricettivi. Una buona notizia dal punto di vista economico, più critica dal punto di vista ambientale, in particolare nella gestione dei rifiuti urbani, perché questo incremento di turisti e quindi di rifiuti provoca spesso un peggioramento delle capacità di garantire un’adeguata raccolta e un efficace smaltimento della differenziata, soprattutto nei piccoli centri scarsamente popolati. Secondo un’analisi condotta dall’Ispra e relativa al 2022, (anno turisticamente meno impattante rispetto agli ultimi due) l’incidenza della produzione urbana di rifiuti dovuta alle nuove presenze stagionali si attesa a quasi 10 chilogrammi per abitante. Una cifra media che non restituisce la dimensione del problema soprattutto in quei Comuni e quelle Regioni che nei mesi della stagione turistica arrivano a presenze e produzioni di rifiuti anche cinque volte superiori alle media. Un caso su tutti è il Trentino Alto Adige, dove l’impatto del turismo sui rifiuti arriva addirittura a 58 chilogrammi per abitante. Sul lago di Garda, per esempio, la multiutility che gestisce il servizio di igiene urbana, Garda Uno, analizzando i dati sempre del 2022 rivela che se “A febbraio si producono 43 Kg di rifiuti al mese per ogni abitante e la differenziata media è del 79%, ad agosto - con il picco turistico - si sale a 64 Kg/abitante/mese e, non a caso, la quota di differenziata scende al 71,6%”.


Che fare? Quest'estate le soluzioni adottate dai Comuni a più alto valore turistico sono state il potenziamento del servizio porta a porta, l’apertura straordinaria delle isole ecologiche e l’introduzione di postazioni mobili di raccolta accompagnate da numerose attività di comunicazione. Molte campagne informative comunali multilingue, mirate soprattutto ai turisti stranieri, hanno aiutato a non far abbassare la quota di raccolta differenziata nonostante il complessivo aumento dei rifiuti urbani. Una mossa efficace visto che nel 2023 la componente turistica straniera ha superato quella degli italiani e si è attestata sul 52,4% delle presenze negli esercizi ricettivi. Un importante ruolo è stato giocato anche dalla tecnologia, ad esempio dall’app multilingue Juncker che permette a tutti gli utenti, permanenti o temporanei che siano, di avere accesso alle regole, sempre aggiornate e geolocalizzate, sulla raccolta differenziata del Comune in cui ci si trova. Purtroppo non sempre il “problema” sono solo i turisti e i rifiuti urbani. Per esempio nel territorio comunale di Fucecchio (FI), in prossimità di importanti aree produttive, solo nell’ultimo anno si sono registrate 350 segnalazioni, di cui 136 relative ad abbandoni importanti di rifiuti non urbani. Ad inizio estate Alia Multiutility, il gestore unico e interamente pubblico dei servizi d’igiene urbana della Toscana centrale, ha rimosso 4.420 chilogrammi di scarti tessili tra i due ponti che attraversano il torrente Vincio e il canale Maestro e oltre 30 chilogrammi di taniche abbandonate, contaminate da mastice e altri prodotti chimici.


Gli scarti tessili e di lavorazione abbandonati, purtroppo, contribuiscono in maniera significativa all'inquinamento del suolo e delle acque, favorendo incendi e la proliferazione di insetti e parassiti dannosi per la flora e la fauna locale. Questi rifiuti, inoltre, classificati come speciali e pericolosi, richiedono spesso analisi chimiche e tempi di gestione più lunghi rispetto ai rifiuti ingombranti o urbani. Per Emma Donnini sindaca di Fucecchio “L'abbandono dei rifiuti è un reato penale, sia che venga commesso da un'azienda che da un privato cittadino. La normativa prevede anche un inasprimento delle pene per chi abbandona rifiuti. È importante rafforzare i controlli sul territorio, ma anche promuovere una cultura del rispetto dell'ambiente e degli spazi pubblici, educando le giovani generazioni alla cittadinanza attiva. La deterrenza e le sanzioni sono importanti, ma da sole non sono sufficienti”. Per contrastare il fenomeno anche qui è ormai fondamentale la tecnologia e la collaborazione dei cittadini che possono segnalare abbandoni di rifiuti attraverso Aliapp, la nuova app di Alia che permette in pochi secondi di geolocalizzare e allegare documentazione fotografica dei rifiuti e permette di richiedere servizi e ritiri a domicilio e di gestire le proprie utenze direttamente dallo smartphone. Tutti ottimi sistemi che chiamano in causa i cittadini, ma nel cammino verso un'economia sempre più circolare e con meno rifiuti una parte importante non possono non giocarla gli attori politici. Come?


Negli scorsi mesi l’Agenzia europea dell’ambiente (European Environment Agency, EEA) ha lanciato l'ennesimo allarme sui danni ambientali e anche per la salute provocati dall’odierno mercato della plastica, dall’altro, ha ricordato che a livello comunitario si deve fare di più per abbattere i livelli di inquinamento e di emissione di gas climalteranti che la lavorazione della plastica porta con sé. L’Agenzia dell’Unione europea, il cui compito è fornire informazioni indipendenti e qualificate sull’ambiente, ha pubblicato in merito un dettagliato studio da cui emerge che “Il consumo di plastica in Europa è ancora troppo elevato e continuerà ad aumentare nei prossimi anni e che la produzione di questo materiale genera inquinamento, il suo scorretto smaltimento rende mari e spiagge saturi di rifiuti plastici e sono sempre più elevati i livelli di micropalstiche nell'ambiente e nel sangue”. Che fare? Per l'EEA occorre puntare su “La circolarità della materia plastica, che sta aumentando, ma ancora troppo lentamente”. Lo sviluppo di un’economia circolare è fondamentale per rendere la plastica più sostenibile e per l'agenzia “Questa è stata una priorità politica chiave per l’Ue, facilitata dalla direttiva sulla plastica monouso e il piano d’azione per l’economia circolare, ma sono ancora necessari ulteriori sforzi da parte di un’ampia gamma di parti interessate, tra cui l’industria, le Ong, le comunità di ricerca e il settore pubblico”. Per gli autori dello studio non è impossibile porre un argine concreto a questo genere di inquinamento: “I modi per aumentare il tasso di utilizzo circolare dei materiali per la plastica includono l’eliminazione dei prodotti di plastica problematici ed evitabili, una migliore progettazione e meccanismi di smistamento e investimenti in una maggiore capacità di riciclaggio”. Ai nostri neoeletti europarlamentari spetta  accelerare queste pratiche, lobby e volontà personali permettendo. 


Alessandro Graziadei