sabato 1 marzo 2025

Cultura: una risorsa anche per la cooperazione internazionale

 

Aiutare lAfrica non significa intervenire solo su problemi contingenti, ma promuovere, riconoscere, valorizzare la cultura allo scopo di salvaguardare il patrimonio artistico e ambientale, affiancando allo sviluppo tecnologico un pensiero di tipo umanista”. È questo l’approccio dell’associazione Atout African arch.it fondata nel 2006 a Rovereto (TN) da un gruppo di architetti e capace con le sue attività nella cooperazione internazionale di abbracciare molti degli Obiettivi dell’Agenda 2030. Ne abbiamo parlato con la presidente Barbara Borgini.

Buongiorno Barbara e grazie per la disponibilità. Come è iniziata l’esperienza dell’associazione Atout African arch.it e perché?

BB: Nel 1998, mi sono trovata a fare un viaggio studio in Benin.

Sottolineo Benin, perché pur essendo la nostra un’Associazione che interviene da Statuto in Africa, non ho la presunzione di parlare di altri Stati che non conosco.  Il continente africano ha un’estensione tre volte gli Stati Uniti. Pertanto mi limiterò a parlare del Benin, piccolo Stato dell’Africa Occidentale Subsahariana grande circa come il triveneto, ma composto da più di 60 etnie differenti, ognuna con la propria lingua e tradizione culturale. Il Benin è stato definito il paese della “tolleranza” da Marc Augè nei suoi saggi “Il genio del Paganesimo” ed “Il Dio oggetto”, perché malgrado le innumerevoli invasioni coloniali (ricordiamo l’invasione portoghese che nel XVI secolo aveva dato origine al più importante traffico di schiavi per le Americhe), e quindi le molteplicità etniche presenti, il Paese ha sempre mantenuto un democratico equilibrio interno, a differenza dei Paesi limitrofi (vedi Bruce Charwin “Il viceré di Ouidah” da cui il film di W. Herzog “Il cobra verde”).

In quegli anni il Paese era molto diverso da oggi, ultimamente sta vedendo un rigoglioso sviluppo grazie (per fortuna o sfortuna) alle multinazionali cinesi che in cambio di materie prime offrono infrastrutture.

Mi permetto queste citazioni per mostrare che l’Associazione è nata non da studi specifici di Cooperazione, ma da personali riflessioni e ricerche autodidatte fatte di esperienze reali e concrete, che hanno indirizzato i nostri obiettivi su un piano umanistico. Difficilmente usiamo la parola “aiuti” perché rimanda ad un senso di dolore, paura ed inferiorità. Abbiamo sempre visto questo Paese nella sua ricchezza e nella potenzialità della cultura che lo identifica. Una cultura basata sul rispetto della Natura e dei valori dell’Uomo. Valori che nella nostra contemporaneità si stavano perdendo… pervasi dal pensiero occidentale, nel quale l’importantissima presenza tecnologico-scientifica talvolta prevarica e opprime.

Come mai avete scelto di collaborare con il Benin e i Paesi dellarea Subsahriana e quali sono le caratteristiche culturali e sociali di questa area geografica?

BB: Nulla avviene per caso!

Il viaggio sopracitato era stato organizzato dal coreografo Koffi Koko, dagli anni ’80 uno dei più importanti esponenti della traduzione contemporanea coreutica e teatrale, già presidente e fondatore in Benin di una Associazione Culturale Atout African International, col compito di promuovere e diffondere la cultura autoctona in tutto il mondo, anche invitando allievi nel suo Paese a partecipare direttamente alle attività dell’associazione e conoscerne la filosofia.

Il Benin (ex Regno del Dahomay- vedi Mati Diop “Dahomay”, G.P. Bythewood “The woman King”) è un Paese di profonda ed antica tradizione culturale ed artistica fin dal Regno di Edo, anno 1100 (vedi bronzi del Benin).

La particolarità della filosofia animista praticata da pressoché tutta la popolazione, che convive con le religioni cristiana e mussulmana, ti conduce ad una condizione metafisica in cui le azioni, i pensieri, i modi, i gesti, a partire da quelli della quotidianità, assumono un valore universale. Seguendo questo pensiero intendiamo rendere le nostre azioni durevoli nel tempo, e non transitorie.

Qual è la filosofia che sta alla base dei vostri interventi di cooperazione?

BB: Il rispetto e conoscenza della cultura, delle tradizioni e della storia locali, il confronto con il partner locale e le persone del luogo.

In Benin, conosciuto ancora come il paese dei Re (vedi “Nel paese dei re” Marco Aime), grande importanza hanno le relazioni coi saggi e notabili, oltre che con le amministrazioni pubbliche, che consultiamo sempre prima di iniziare un intervento.

Quando si entra in casa di altri ci si toglie le scarpe, e si rimane in silenzio ad ascoltare.

E’ la filosofia dell’ascolto dell’Altro, ci confrontiamo e ci arricchiamo vicendevolmente, non imponiamo niente, tanto meno nel campo in cui interveniamo cioè l’architettura. Il linguaggio contemporaneo occidentale architettonico è fatto di gesti egocentrici, per mettere in evidenza ed accrescere la fama della propria persona (archistar). Al contrario noi interveniamo in silenzio ed in punta di piedi, cercando di far emergere attraverso un semplice linguaggio fatto di materiali naturali e “poveri”, il cosiddetto “genius loci”. Possiamo chiamarla “architettura animista”, perché segue i codici della religione animista, predominante in tutta l’Africa Occidentale, ove la Natura è un Ente divino che regola e domina ogni cosa ed ogni azione in tutti i momenti della vita umana e delle cose.

Quali le vostre principali attività di intervento?

BB: La formazione e la riduzione del tasso di disoccupazione è alla base della nostra mission, dato il campo in cui operiamo: la costruzione di manufatti.

Nei cantieri che diventano un pratico luogo formativo, attraverso tecniche migliorative ed innovative, insegniamo ad usare il materiale locale in modo più sicuro ed efficace. Così formiamo competenze artigianali professionali: diamo un lavoro cercando di sostituire la precarietà economica familiare che sta alla base di tutti i problemi. Utilizziamo materiale locale e naturale (terra, legno, pietra, ecc.) rifacendoci alle tecniche tradizionali ed apportando migliorie per creare solidità e durabilità agli edifici. Per questo inviamo in missione tecnici (architetti, ingegneri, geometri, ecc.) dall’Italia e dall’estero, giovani e meno giovani, con l’obiettivo di collaborare coi tecnici locali. Diventa così uno scambio interculturale sul luogo, utile per entrambe le parti.

Ad oggi abbiamo formato più di 6000 artigiani locali e inviato più di 40 tecnici nei 40 cantieri realizzati dal 2006 ad oggi.

Gli edifici costruiti sono a destinazione di pubblica utilità ed alto valore sociale per sopperire ai bisogni: scuole (per diminuire l’analfabetismo), ospedali (per dare un livello di sanità migliore), orfanotrofi e centri di formazione per le donne (a sostegno delle fasce più deboli), riforestazione e realizzazione di pozzi (a salvaguardia dell’ecosistema). Diffondiamo il nostro operato tramite conferenze, lezioni, mostre espositive, articoli.

“Larte è una grande risorsa, è un linguaggio universale e ciò che rende una cultura riconoscibile in tutto il mondo” ricordate sul vostro sito. In questo contesto perché l’architettura può diventare volano di sviluppo?

BB: Noi intendiamo l’architettura non come mera espressione tecnica, ma derivante da arcani e principi primi (Archè) della cultura del luogo; diviene un simbolo ricco di significato, leggibile ed interpretabile da tutti, così come ogni espressione artistica che abbia una derivazione simbolica, proprio tipica dell’arte africana.

Attraverso l’arte (musica, danza, pittura, poesia e scrittura) l’individuo può riconoscersi e riappropriarsi dell’identità perduta, a causa anche dei secoli di colonizzazione; ne diviene un linguaggio, un’espressione di dialogo.

Quando siamo arrivati in Benin le uniche architetture riconoscibili come tali erano quelle coloniali: portoghesi, spagnole e per ultime le contemporanee francesi, a cui ancora adesso si fa riferimento come stilemi. Ad esempio le scuole: la loro tipologia è standard e dettata dai francesi negli anni ‘70. Vengono ancora riprodotte tali e quali. Nel nostro piccolo, pur rispettando le normative delle aule, abbiamo inserito altri elementi per accrescere la convivialità e la didattica: spazi collettivi, aree da gioco maschili e femminili unite, orti scolastici, spazi in cui consumare i pasti insieme e fare ricreazione. Ma è attraverso la forma che ci distinguiamo, cercando di interpretare i segni e lo spirito di quel determinato luogo, rendendolo unico e riconoscibile. In questo modo si introduce, anche nel piccolo villaggio, un punto di riconoscimento, che diviene anche ritrovo delle persone, soprattutto quando installiamo i pannelli solari per illuminare dopo il tramonto (all’equatore ogni giorno alle 18).

Gli edifici sono costruiti con mattoni di terra cruda, e sono intonacati di terra, così rimangono rossi e si mimetizzano con il contesto; sembrano termitai nati dalla Terra. Chi vede per la prima volta i nostri edifici si chiede sempre: “Chi è il Beninese che costruisce così?’. Penso sia uno dei complimenti più belli!

L’arte è bellezza e la bellezza salverà il mondo (Platone, Sant’Agostino e Dostoevskij).

Negli ultimi anni avete avviato anche alcune esperienze di turismo responsabile sociale e culturale. Con quali scopi e con quali risultati?

BB:  Il viaggio è un’importante forma di conoscenza e di apertura verso l’Altro.

Sono personali le motivazioni che spingono a conoscere il Benin. Chi partecipa ai viaggi torna profondamente toccato, sia in positivo che in negativo. Sono esperienze forti che ti mettono di fronte a molti ostacoli, e a cercare immediate soluzioni, senza perdere tempo.

Chiediamo sempre un periodo di formazione in sede prima di intraprendere questo viaggio, perché a volte il miraggio dell’Africa, libera, bella, paradisiaca dove tutto è possibile, è simile al miraggio che hanno gli Africani quando vogliono viaggiare in Europa…

Consiglierei questo tipo di viaggio in particolare alle nostre Amministrazioni Pubbliche, che gestiscono le sezioni della Cooperazione Internazionale, per meglio capire, vedere le cose… e giudicare con obiettività!

Da questi incontri anche le persone del luogo traggono il beneficio dello scambio e del confronto.

Giovani e volontariato. La vostra associazione ha trovato e sta trovando nei giovani una risorsa?

BB: I giovani, come è giusto che sia, sono attratti da questa opportunità. A mio avviso la prendono solo come accrescimento personale, pertanto vengono in Benin, poi vanno in Senegal, poi a Zanzibar, perdendo quello che è l’obiettivo principale! Ci vuole sacrificio e impegno costante per poter costruire qualche cosa di solido e duraturo: è un impegno etico e morale.

Parlando del “volontariato”, rimane a mio avviso un termine purtroppo obsoleto perché è difficile nei giovani pensare di agire senza essere retribuiti, e questo è un grave problema nelle organizzazioni di volontariato che si basano proprio su questo concetto.

Per anni il Trentino ha dimostrato un grande impegno nella cooperazione internazionale ed è diventato per questo una terra promotrice di nuove relazioni internazionali. Tuttavia dal 2018, con la nuova amministrazione, si è assistito ad una brusca inversione di rotta, con conseguenti tagli alla cooperazione e ai suoi progetti e leliminazione della quota fissa (che ammontava a 0.25%) dedicata alla cooperazione. Con quali conseguenze sulla vostra associazione?

BB: Le conseguenze sono drastiche, non solo per i tagli, che hanno penalizzato comunque l’immagine che la Cooperazione Internazionale Trentina aveva acquisito nel mondo per le concrete e numerose azioni; ma per quanto ci riguarda nelle relazioni con l’Amministrazione regionale che sta tenendo in sospeso dal 2020 due progetti, per altro già realizzati e rendicontati, senza dare risposta alcuna né a noi, né tanto meno al nostro legale di fiducia, il quale sta seguendo il caso, che non sembra essere l’unico del panorama. 

Questo è inammissibile, un’Amministrazione non può cambiare le regole solo verbalmente, perché c’è stata un’inversione di marcia. I progetti devono seguire regole ben precise, dettate dalle convenzioni e dai protocolli, e le istituzioni hanno l’obbligo di rispondere al cittadino!

Ci affidiamo pertanto ad altre fonti di finanziamento, più serie e strutturate.

Assicurare la realizzazione dellobiettivo dello 0,70% del reddito interno lordo per la solidarietà internazionale, quota in linea con gli obiettivi internazionalmente concordati dallItalia, pensi possa diventare in futuro una realtà a livello locale e nazionale?

BB: Qui la risposta si lega alla domanda precedente. Se la volontà dei politici delle Amministrazioni locali va contro questi obiettivi, com’è possibile pensare che in futuro si possano realizzare questi obiettivi?

Grazie per la vostra disponibilità e per il lavoro di cooperazione internazionale che con costanza ed impegno portate avanti per il miglioramento dellambiente psico- fisico nel quale viviamo.

BB: Grazie a Voi a tutto il Vostro ampio e costante impegno di Abitare la Terra, che cerca di unire e diffondere il lavoro delle Associazioni. Nella convinzione che la Cooperazione nasca nelle nostre case, prima di poterla esportare!

Alessandro Graziadei


sabato 22 febbraio 2025

Carne e morale

Nel campo alimentare fattori legati alle tradizioni culturali  e fattori psicologici, spesso abilmente strumentalizzati dalla politica, giocano un ruolo chiave nell'orientare l'opinione pubblica e difendere interessi che raramente corrispondono a quelli della comunità e più spesso coincidono con quelli delle potenti lobby alimentari. Una comunicazione manipolata analoga a quella utilizzata in passato dall’industria del tabacco e, più recentemente, da quella dei combustibili fossili, viene spesso impiegata anche dall’industria della carne contro chi propone delle alternative vegetali o propone una dieta cruelty-free, presentati come portatori di teorie complottiste e pseudo scientifiche create ad arte contro l'”eccellenza” del Made in Italy. È questo il quadro che è emerso dall’indagine “I nuovi mercanti del dubbio”, pubblicata lo scorso luglio dalla fondazione Changing Markets, ricerca nata con l’obiettivo di favorire un’economia più sostenibile e di denunciare le pratiche irresponsabili portate avanti dai grandi produttori di carne e latticini che spesso lavorano per impedire una complessiva strategia di controllo delle emissioni di gas serra nell’industria alimentare. Per i ricercatori di Changing Markets “Porte girevoli, conflitti di interessi e accesso privilegiato ai principali politici consentono all’industria globale dell’allevamento di bloccare il monitoraggio e la regolamentazione delle emissioni. […]. I giganti del settore abusano del controverso parametro del Potenziale di riscaldamento globale (GWP) del metano per minimizzare l’impatto climatico del bestiame, finanziando gli scienziati per gettare fumo negli occhi dei politici”. Si tratta perlopiù di tattiche di greenwashing e disinformazione mirata alla Gen Z, che con massicci investimenti in marketing e comunicazione, portati avanti soprattutto attraverso i social network, sono finalizzate a confondere le idee, deviare l’attenzione da ciò che più conta, far rimandare le decisioni necessarie per rendere meno impattante il sistema alimentare. Considerato che attualmente circa un terzo delle emissioni totali di gas serra proviene da questo settore e, di questa quota, “Circa il 60% proviene dall’agricoltura animale, che da sola costituisce la più grande fonte di emissioni di metano prodotte dall’uomo” è evidente “L’urgente necessità di una legislazione più severa sull’industria della carne e dei latticini”.


L’indagine ha rivelato in modo evidente il potere dei gruppi di lobby della carne che combattono per evitare una legislazione meno favorevole nei loro confronti rispetto ai limiti di emissioni di gas serra. Minori finanziamenti o maggiori restrizioni per questo settore, infatti, rischierebbero di favorire una più diffusa adozione di abitudini alimentari a base di proteine vegetali, dieta ormai universalmente considerata più adatta alla nostra salute oltre che ad evitare il surriscaldamento globale. Il caso studio dedicato da Changing Markets al nostro paese è emblematico. Quando lo scorso novembre il Governo Meloni non solo ha chiuso la strada alla carne creata in laboratorio, subdolamente definita “sintetica”, ma ha anche imposto il divieto alla denominazione di "carne" per i prodotti trasformati contenenti proteine vegetali, la campagna mediatica di politici e lobby ha fatto propri molti pregiudizi e veicolato molta disinformazione, tanto che i ricercatori, durante questo periodo e solo in Italia, hanno rilevato "240.000 post sui social media contenenti disinformazione, con 1,27 milioni di engagements e 125.000 account diversi che hanno contribuito a questa discussione” nel nome della “Protezione della nostra cultura e della nostra tradizione”. Dallo studio emergono quindi “Picchi di disinformazione che sembrano strategici, sincronizzati proprio con la conferma del divieto di produzione di carne coltivata” e non stupisce sapere che oggi, anche a livello globale, secondo lo studio Meat and morality: The moral foundation of purity, but not harm, predicts attitudes toward cultured meat”, pubblicato in giugno da Matti Wilks dell’università di Edimburgo, Charlie Crimston dell’Australian National University e Matthew Hornsey dell’università del Queensland, “Le persone che affermano di vivere una vita sana è moralmente attenta sono più propense a rifiutare la carne prodotta in laboratorio, nota anche come carne coltivata, rispetto a coloro che non la pensano così”.


Questo studio sulle opinioni cresciute in questi ultimi anni nei confronti della carne coltivata a partire da cellule animali come alternativa all'allevamento intensivo ha scoperto che “Coloro che dichiaravano di avere maggiore interesse per il valore morale della vita degli animali erano meno propensi a credere che la carne coltivata fosse buona e più propensi a considerarla innaturale”. Wilks e Crimston, che hanno intervistato più di 1800 adulti negli Stati Uniti e in Germania sulle loro percezioni e atteggiamenti nei confronti della carne coltivata e sui loro valori morali in generale, sono convinti che “I sentimenti e le questioni etiche personali potrebbero spingere le persone a opporsi alla carne prodotta in laboratorio, un'industria emergente il cui valore stimato è di 3,1 miliardi di dollari”. I risultati dimostrano quindi che “Oltre alle sfide normative che l’industria in via di sviluppo della carne coltivata deve affrontare, potrebbe essere necessario superare alcuni atteggiamenti dei consumatori affinché questa venga più ampiamente accettata”. Quel che ha sorpreso maggiormente i ricercatori è stato il fatto che i partecipanti che avevano affermato che la crudeltà e l'insostenibilità erano fattori morali importanti nel loro processo decisionale, non hanno mostrato maggiore entusiasmo per la carne coltivata. Un risultato che è andato contro le previsioni dei ricercatori, secondo cui la carne coltivata in laboratorio dovrebbe essere "Una prospettiva più etica e allettante per le persone che credono che sia moralmente importante ridurre al minimo i danni ambientali prodotti dagli allevamenti".


È chiaro che oggi, anche grazie a processi comunicativi manipolati ad arte, la carne coltivata non viene ancora considerata come un potenziale modo per affrontare alcune delle preoccupazioni etiche e ambientali associate all'allevamento intensivo. “Il ruolo dell'emozione nel rifiuto della carne coltivata - hanno concluso i ricercatori - dimostrano la necessità di una discussione più sfumata e di una comprensione più approfondita delle preoccupazioni dei consumatori in merito alla carne coltivata e ai valori che le sostengono”.


Alessandro Graziadei

 

sabato 15 febbraio 2025

Insieme per la vita

 

Cercare di vivere in modo da preservare le risorse naturali e l’ambiente per le generazioni future, assicurando al contempo il benessere delle persone nel presente sono le linee guida seguite dell'Agenda 2030 e dai suoi 17 Obiettivi. Alcuni di questi Obiettivi dal 1985 sono anche quelli di ACAV (Associazione Centro Aiuti Volontari) che lavora per promuovere la solidarietà con l'Africa (in particolare in Uganda e Repubblica Democratica del Congo) attraverso progetti di cooperazione internazionale sostenibili e condivisi localmente nel rispetto del contesto culturale. Ci siamo fatti raccontare la loro storia e il loro impegno.

 Come è nata e perché l'esperienza di ACAV (Associazione Centro Aiuti Volontari)?

ACAV: La legge 38 del 1979 segnò l'avvio di una vera politica di cooperazione internazionale allo sviluppo in Italia, creando un'architettura istituzionale specifica all’interno del Ministero degli Affari Esteri. Furono in quegli anni che un gruppo di persone di buona volontà con a cuore i problemi dell’Africa iniziarono ad organizzarsi insieme ai gruppi missionari per dare una struttura e un’organizzazione alle risorse da destinare ai Paesi in via di sviluppo. Fu così che esattamente 40 anni fa, nacque ACAV, che sarebbe diventata l'unica ONG del Trentino Alto Adige per decenni. L'obiettivo era passare dall'improvvisazione e dagli interventi sporadici a una progettualità mirata, con l'intento di sostenere sia progetti di emergenza che di sviluppo, in particolare nell'Africa subsahariana. 

Qual è stato il primo progetto dell'Associazione e dove è stato realizzato? 

ACAV: I primi progetti avviati da ACAV si concentrarono sulla perforazione di pozzi, un intervento fondamentale per rispondere a uno dei bisogni più urgenti nelle comunità africane più remote e rurali: l'accesso all'acqua. Inizialmente, l'associazione affiancò quindi i missionari presenti in Africa, rispondendo alle loro richieste di aiuto per fornire acqua potabile alle popolazioni più vulnerabili. Con il tempo, questi interventi hanno posto le basi per l'ampliamento delle attività di ACAV, che ha iniziato a diversificare i suoi progetti e ad affrontare altre sfide legate allo sviluppo e al miglioramento delle condizioni di vita nelle zone più disagiate allargando il suo campo di azione ai settori agricolo e dell’educazione. 

Come sono cambiati nel tempo i bisogni delle persone e i contesti dove operate? In particolare  come è cambiata la condizione delle donne?

ACAV: Nel corso degli anni, i bisogni delle persone e i contesti in cui operiamo sono cambiati certamente, così come è cambiato il lavoro di ACAV che ha saputo adattarsi. Come detto in precedenza, inizialmente ACAV si concentrava principalmente sull'accesso all'acqua, un problema fondamentale che riguardava molte zone isolate e difficilmente raggiungibili. Si faceva ricorso principalmente a risorse umane provenienti dal Trentino, comprese figure specializzate nel settore della perforazione, in quello agricolo, manager e persino autisti. Con il tempo, questa struttura è cambiata, evolvendo verso un modello che coinvolge sempre di più risorse locali. Oggi, ACAV fa quasi esclusivamente ricorso a personale africano, in particolare a giovani ragazze e ragazzi locali, che hanno studiato e imparato mestieri e competenze professionali in vari settori.

Anche il nostro intervento sul territorio si è evoluto. Se prima ci concentravamo principalmente sulla fornitura diretta di acqua, sopperendo a una mancanza di imprese locali attive nel settore, oggi ci siamo spostati verso un modello più complesso che oltre ai settori tradizionali include l'assistenza tecnica alle istituzioni locali nella gestione e rendicontazione dei progetti di grandi donatori, quali la UE e il coordinamento delle risorse locali. 

Per quanto riguarda la condizione delle donne nonostante i cambiamenti stiano avvenendo lentamente e con difficoltà, ci sono molti segnali positivi. Le donne stanno progressivamente conquistando spazi e opportunità, pur in un contesto maschilista che ancora caratterizza molte società tra cui anche quelle africane. Molti di questi miglioramenti sono dovuti a iniziative legislative messe in atto da politici illuminati, che hanno lavorato per migliorare la parità di genere e l'accesso delle donne alla politica, all'istruzione e al lavoro.

Anche all'interno dello staff africano di ACAV oggi, abbiamo donne che ricoprono ruoli importanti, contribuendo in maniera significativa al successo delle nostre attività. È un cambiamento concreto verso una maggiore inclusione e empowerment femminile, che speriamo continui a crescere nei prossimi anni.

Tra gli ambiti nei quali avete sviluppato il vostro impegno ci sono la Governace e lo sviluppo locale, l'educazione, l'agricoltura e la forestazione e l'accesso all'acqua. Ci raccontate secondo quali linee guida sviluppate il vostro impegno e a quali Obiettivi dell'Agenda 2030 corrispondono?

ACAV: Il nostro impegno si sviluppa secondo un approccio integrato e sostenibile, con una forte attenzione alle necessità locali, ai piani di sviluppo elaborati dagli enti territoriali e alla creazione di soluzioni durature. Ogni intervento è progettato per rispondere ai bisogni specifici delle comunità con cui lavoriamo, si integra in percorsi gia’ avviati da loro, rispettando il contesto culturale, sociale ed economico, e cercando di promuovere la loro autonomia e resilienza nel lungo periodo.

1. Governance e sviluppo locale

Lavoriamo per rafforzare la governance locale, affiancando le istituzioni locali con l’obbiettivo di migliorare l’efficacia, la trasparenza e l’inclusione. In particolare, puntiamo a migliorare la gestione delle risorse e l'efficacia dei servizi pubblici, in modo che le comunità possano gestire autonomamente le sfide locali. 

Obiettivi dell’Agenda 2030: 16. Pace, giustizia e istituzioni forti

2. Educazione

Crediamo che l'educazione sia la chiave per il cambiamento e l'emancipazione delle persone. Sosteniamo programmi educativi che vanno oltre la scuola tradizionale, offrendo formazione professionale per giovani, con un focus particolare sulle ragazze e le donne escluse da percorsi educativi e lavorativi, per garantire pari accesso al mercato del lavoro.

Obiettivi dell’Agenda 2030: 4. Istruzione di qualità

3. Agricoltura e forestazione

Promuoviamo l’agricoltura sostenibile per migliorare produttività e sicurezza alimentare, favorendo il passaggio dalla sussistenza all’imprenditorialità. Offriamo formazione agricola, socioeconomica e imprenditoriale, oltre a sementi, attrezzi e assistenza tecnica durante il ciclo produttivo e la fase post-raccolta.

Obiettivi dell’Agenda 2030: 2. Fame zero

4. Accesso all'acqua

Lavoriamo per fornire soluzioni per l'accesso a risorse idriche sicure, sia attraverso la costruzione di pozzi, che il miglioramento delle infrastrutture esistenti e l’educazione della comunità sull'importanza di una gestione sostenibile dell'acqua.

Obiettivi dell’Agenda 2030: 6. Acqua pulita e servizi igienico-sanitari.

Come ci ricorda l'Obiettivo n.6 raggiungere l’accesso globale all’acqua potabile sicura e ai servizi igienici entro il 2030, promuovendo la qualità dell’acqua, l’efficienza nel suo utilizzo e la protezione degli ecosistemi idrici è un Goals strategico. Ci raccontate perché questo tema è così centrale anche per la salute delle persone e per la dimensione sanitaria dei contesti dove operate?

ACAV: L’Obiettivo 6 dell’Agenda 2030, che mira a garantire l’accesso universale all’acqua potabile sicura e ai servizi igienici, non è solo un traguardo fondamentale per lo sviluppo sostenibile, ma anche una questione cruciale per la salute pubblica e la qualità della vita. L’accesso all’acqua potabile e a infrastrutture igienico-sanitarie adeguate rappresenta infatti il primo passo per combattere malattie che derivano da condizioni insalubri, come diarrea, colera, tifo e altre infezioni trasmesse per via idrica. Queste malattie colpiscono in particolare i gruppi più vulnerabili, come bambini, donne e rifugiati, aggravando ulteriormente situazioni di povertà e precarietà.

Nei contesti in cui operiamo, il legame tra acqua e salute è immediatamente evidente. La carenza di acqua potabile e di servizi igienici adeguati non solo compromette la salute individuale e collettiva, ma ha anche un impatto diretto sullo sviluppo economico e sociale delle comunità. La mancanza di servizi igienici costringe le persone, spesso donne e ragazze, a percorrere lunghe distanze per accedere a fonti idriche non sicure, esponendole a rischi fisici, sanitari e sociali. Inoltre, senza un adeguato accesso all’acqua, le strutture sanitarie locali non possono garantire condizioni igieniche sicure, aumentando i rischi di infezioni e riducendo l’efficacia degli interventi sanitari.

Per questo motivo, i nostri progetti mettono al centro la creazione e il rafforzamento di infrastrutture idriche e sanitarie, integrandole con programmi di sensibilizzazione e formazione che promuovano l’uso consapevole e sostenibile delle risorse idriche.

In numeri parliamo di?

ACAV: Negli ultimi 5 anni abbiamo riabilitato 200 pozzi e perforato 36 di nuovi, si sono quindi formati 236 comitati di gestione dell’acqua e dato accesso all’acqua a quasi 250.000 persone

Quanto è importante lavorare nel rispetto del contesto locale e quali sono le difficoltà incontrate in un percorso di cooperazione come il vostro, che vuole valorizzare lo scambio culturale, il confronto e il reciproco arricchimento?

ACAV: Abbiamo capito che lavorare nel rispetto del contesto locale è fondamentale per ottenere risultati duraturi e sostenibili in un percorso di cooperazione internazionale. Questo approccio non solo garantisce che le iniziative siano realmente rilevanti per le esigenze delle comunità, ma permette anche di costruire una partecipazione attiva da parte dei beneficiari, rendendo i progetti più efficaci nel lungo periodo. L'obiettivo non è solo fornire assistenza, ma costruire capacità locali per far sì che le comunità possano autogestirsi e affrontare in modo autonomo le sfide future.

ACAV lo fa in 4 modi:

Coinvolgendo le istituzioni locali: Collaborare con amministrazioni, autorità e associazioni è cruciale per integrare i progetti nel territorio. Affiancare e rafforzare le iniziative pianificate in modo condiviso dalle istituzioni locali,  garantisce continuità agli interventi e rafforzano il legame con le comunità.

Valorizzando le risorse umane locali: La presenza continuativa in un territorio permette di investire sulle competenze delle persone del posto favorisce l’autonomia delle comunità, promuove la leadership locale e riduce la dipendenza da risorse esterne. 

Co-creando il cambiamento: Il cambiamento deve nascere insieme ai protagonisti locali. Ogni intervento va costruito in sinergia con le comunità, rispettandone priorità ed esigenze, per facilitare processi di sviluppo condivisi.

Realizzando interventi sostenibili: Solo con un approccio partecipativo si possono sviluppare soluzioni sostenibili e adeguate alle risorse disponibili.

Un altro fattore cardine è sicuramente la valorizzazione delle risorse umane locali, anche nei ruoli strategici. Condividere procedure e logiche di progettazione, verifica e rendicontazione nel rispetto della differente cultura non è sempre facile, ma non impossibile. Ci sono in questo campo delle storie o dei percorsi professionali che avete piacere di condividere e farci conoscere?

ACAV: Un esempio significativo è l’evoluzione di un progetto pilota iniziato nel 2019 finanziato dall’Unione Europea (EUTF) nella città di Koboko per sostenere la città nella risposta alla pressione creata dalla massiccia presenza di rifugiati. Grazie a questo progetto che è stato interamente gestito molto bene dai nostri colleghi ugandesi, abbiamo potuto ottenere un secondo finanziamento, più importante per sostenere due amministrazioni locali in Uganda, la città di Koboko e di Arua. Insieme hanno ottenuto un finanziamento di 4 milioni di euro per rispondere alle sfide legate alla migrazione e rafforzare i servizi pubblici. Lo staff locale di ACAV ha saputo trasformare una complessa procedura di candidatura in un’opportunità concreta per il loro territorio.

Questo percorso non solo ha permesso di migliorare i servizi per la popolazione, ma ha anche creato una rete di professionisti locali più preparati e autonomi, in grado di gestire progetti futuri. È una dimostrazione pratica di come la cooperazione possa generare risultati sostenibili, aprendo nuove prospettive per lo sviluppo locale.

I tagli al mondo della solidarietà internazionale sono la cifra politica di questi ultimi anni sia a livello locale che nazionale. Assicurare la realizzazione dell’obiettivo dello 0,70% del reddito interno lordo per la solidarietà internazionale, quota in linea con gli obiettivi internazionalmente concordati dall’Italia, pensate possa diventare in futuro una realtà a livello locale e nazionale?

ACAV: Come attori del settore, ci auspichiamo fortemente che questa cifra diventi una realtà e siamo pronti a fare la nostra parte. Riteniamo fondamentale non solo garantire un utilizzo efficace delle risorse, ma anche sensibilizzare l'opinione pubblica e le istituzioni sull'importanza della solidarietà internazionale.

La cooperazione non è solo un atto di generosità: è una risposta strategica alle sfide globali, che contribuisce a creare stabilità, a rafforzare i legami tra i Paesi e a promuovere sviluppo sostenibile in linea con gli Obiettivi dell’Agenda 2030. Continueremo a lavorare per rendere possibile questa visione e a essere disponibili a collaborare con chiunque condivida questo impegno.

“Fare del bene”, con una cooperazione partecipata e condivisa è un percorso lento, che non sempre è facile far conoscere. Quali sono le iniziative di ACAV sul territorio locale per diffondere e promuovere le vostre attività? 

ACAV: Per questo, ACAV si impegna costantemente a promuovere le proprie attività sul territorio locale attraverso diverse iniziative. Tra queste, il Giornalino ACAV Informa, pubblicato due volte all’anno, in cui diamo spazio alle voci dei beneficiari, del nostro staff e condividiamo aggiornamenti sui progetti, sul contesto e sull’attualità dei Paesi in cui operiamo. A ciò si affiancano la newsletter mensile e una presenza attiva sui social media.

Inoltre, organizziamo progetti di educazione alla cittadinanza globale e promuoviamo eventi sul territorio. L’ultimo esempio è stato il Concerto di Natale con il Coro Stella del Cornet, una preziosa occasione per presentare il progetto nella scuola di Amuru e per promuovere la campagna Amore per Amuru – Un pasto al giorno può cambiare il futuro. Queste iniziative ci permettono di far conoscere meglio le nostre attività e sensibilizzare la comunità sui temi della cooperazione internazionale

Grazie per la vostra disponibilità e per l'impegno nella cooperazione con l'Africa che con costanza ed impegno portate avanti dal 1985.

Grazie a voi!


sabato 1 febbraio 2025

Competitività o ambiente. C'è scelta?

 

Le piccole e medie imprese (Pmi) rappresentano la spina dorsale dell’economia europea, con 25,8 milioni di attività che impiegano 88,7 milioni di lavoratori. Il loro impatto ambientale cumulativo è significativo e rappresenta circa il 63% delle emissioni di CO2 di tutte le aziende dell'Unione europeaSecondo l’ultimo report in materia dell'Eurobarometro “SMEs, resource efficiency and green markets” commissionato dalla Direzione Generale per il Mercato Interno, l’Industria, l’Imprenditoria della Commissione Europea, oggi il 93% delle Pmi dell’Unione sta implementando almeno una misura di efficienza delle risorse energetiche. Le azioni più comuni includono la riduzione dei rifiuti e il risparmio energetico, altre misure includono il risparmio di materiali (57%), il risparmio idrico (49%) e il riciclo interno dei materiali (48%). Tuttavia, solo il 24% delle Pmi europee utilizza prevalentemente fonti energetiche provenienti da energia rinnovabile. Un dato che pare non impressionare il Partito popolare europeo (Ppe) per il quale, nel documento sulla semplificazione burocratica per le aziende firmato a Berlino dai leader del partito nella riunione del 18 gennaio scorso, “La legislazione europea sulla sostenibilità aziendale si sta rivelando eccessiva e onerosa” e ha per questo chiesto che le direttive dell'Unione sulla rendicontazione della sostenibilità aziendale e sulla diligence “Siano congelate per due anni”. Così, dopo aver a lungo sostenuto il Green Deal europeo il partito presieduto da Manfred Weber, che ha espresso la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, fa un deciso e preoccupante dietrofront sulle politiche ambientali comuni.

Per il leader della Cdu Friedrich Merz e il presidente del Ppe, Weber, la critica all’eccessiva regulation di Bruxelles parte dalla constatazione che “Negli ultimi tre anni abbiamo perso oltre 300.000 posti di lavoro nell’industria tedesca, anche a causa dell’eccessiva regolamentazione nazionale ed europea”. Per questo il Ppe suggerisce di limitare per due anni l’applicazione di normative green alle sole aziende con un organico superiore ai mille dipendenti e propone una riduzione di almeno il 50% nei carichi di rendicontazione anche per le grandi aziende. In particolare il Ppe chiede di armonizzare le legislazioni attuali che causano confusione e doppie rendicontazioni attraverso l'applicazione di un regolamento omnibus che creerebbe certezza giuridica per tutte le aziende interessate e ridurrebbe l’onere burocratico a lungo termine. Se per Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni, potremmo essere all’alba di una nuova era del Ppe, basata su "Un approccio più pragmatico e meno ideale" per il deputato europeo di Socialisti e Democratici (S&D) Tiemo Wölken la ricerca di un compromesso tra competitività e ambiente del Ppe rischia di innescare una preoccupante marcia indietro sui temi ambientali: Serve energia rinnovabile, non dipendenza da importazioni di petrolio e gas da Stati autocratici. Dobbiamo renderci indipendenti e smettere di raccontarci storie superate che mettono in pericolo vite umane e posti di lavoro”, ha spiegato la scorsa settimana Wölken, che è anche membro della Commissione Ambiente ENVI. La fine dell’accordo sul transito del gas russo da Kiev per la S&D non dovrebbe cambiare i piani green di Bruxelles ma rinforzarli: “Questa è la missione dell’Unione Europea, il Green Deal. Noi socialdemocratici lo difenderemo”.

Di fatto in materia di energie rinnovabili l'Europa sembra tenere il passo con lo sviluppo di uno modello energetico sempre più sostenibile senza troppe difficoltà. Il 23 gennaio il think tank sulle rinnovabili Ember ha presentato European electricity review, la prima panoramica completa del settore elettrico dell'Unione nel 2024, che delinea la netta avanzata di una profonda trasformazione energetica nel vecchio continente: “Nel 2024 per la prima volta il fotovoltaico ha prodotto più elettricità (11%) del carbone (10%), mentre l'eolico (17%) ha generato più elettricità del gas (16%) per il secondo anno consecutivo”. Di fatto la forte crescita del solare, unita alla ripresa dell’idroelettrico, ha portato la quota delle rinnovabili a quasi la metà della produzione di energia elettrica dell'Ue (47%), mentre i combustibili fossili si sono fermati al 29%. Solo cinque anni fa, nel 2019, i fossili fornivano il 39% dell'elettricità dell'Ue, mentre le fonti rinnovabili erano ferme a poco più di un terzo (34%). Per Chris Rosslowe, analista senior di Ember e primo autore del rapporto “I combustibili fossili stanno mollando la loro presa sull'energia dell'Ue. All'inizio del Green Deal europeo, nel dicembre 2019, pochi pensavano che la transizione energetica dell'Ue potesse essere al punto in cui è oggi; l'eolico e il solare stanno spingendo il carbone ai margini e costringendo il gas a un declino strutturale”. Attualmente questa avanzata delle rinnovabili ha permesso di evitare ulteriori rincari energetici per famiglie e imprese visto che senza la nuova capacità di produzione eolica e solare installata negli ultimi cinque anni, l'Unione avrebbe importato 92 miliardi di metri cubi in più di gas fossile e 55 milioni di tonnellate in più di carbone, con un costo aggiuntivo di 59 miliardi di euro.

In base alle stime Ember qualcosa di simile accade anche in Italia, che pur non riuscendo a stare al passo con i progressi energetici rinnovabili europei, senza i nuovi impianti solari ed eolici installati tra la fine del 2019 e il 2024, avrebbe importato 4 miliardi di metri cubi in più di gas fossile e 5 milioni di tonnellate in più di carbone, per un costo aggiuntivo di 3,3 miliardi di euro.  Per Beatrice Petrovich, analista senior di Ember “L'Italia si sta avvicinando a un futuro energetico pulito, ma rimane molto dipendente dal gas fossile per la produzione di elettricità, rendendo le famiglie e le imprese più vulnerabili alle impennate nei prezzi del gas rispetto ad altri Paesi dell'Ue. Mantenere la crescita dell'eolico e del solare aiuterà a proteggere i consumatori italiani dagli shock dei prezzi sul mercato globale del gas”. Nel 2024, grazie alla forte crescita del solare fotovoltaico e dell'idroelettrico, quasi la metà dell'elettricità prodotta in Italia è stata da fonti rinnovabili (49%). Il solare ha generato il 14% dell'elettricità italiana nel 2024, più della media Ue, e ha registrato il tasso di crescita più elevato degli ultimi 10 anni, raggiungendo un record storico. “Questi dati sono più che incoraggianti - ha spiegato Michele Governatori, responsabile Relazioni esterne e Energia del think tank italiano Eccoclimate - e potremmo fare meglio se i politici ne prendessero atto e, invece di disperdere risorse nelle energie fossili o in soluzioni costose e remote come il nucleare, si concentrassero su solare, eolico, accumuli e flessibilità della domanda”. Forse è tempo che competitività e ambiente non siano più messi in contrapposizione!

Alessandro Graziadei