martedì 30 dicembre 2025

Economia circolare: tra il dire e il fare...

L'economia circolare e una conseguente evoluzione delle regole e dei modelli di consumo rappresentano una risorsa dal potenziale enorme nella lotta al cambiamento climatico. Un recente studio pubblicato su ScienceDirect al titolo Unlocking circular economy policies in integrated assessment models  ha individuato alcuni importanti criteri per migliorare gli Integrated assessment models (Iam), ovvero i Modelli di valutazione integrata utilizzati in tutto il mondo nelle analisi (anche dell'economia circolare), che sono strumenti fondamentali per oriantare le politiche climatiche e comprendere meglio le trasformazioni dei sistemi energetici necessarie al raggiungimento delle emissioni net zero. Per Leticia Magalar del Cmcc, che ha guidato la ricerca, “Per anni, i modelli climatici ci hanno detto che dobbiamo trasformare i nostri sistemi energetici, e avevano ragione”, ma, “Sono rimasti in gran parte silenziosi su un’altra potente soluzione climatica: usare meno risorse e usarle meglio. La nostra ricerca mostra che questo silenzio non dipende dal fatto che l’economia circolare non sia importante, ma dal fatto che i modelli non sono ancora attrezzati per valutarla adeguatamente”. Ora con questa ricerca pare sia stata individuata una più chiara direzione da seguire in questo campo.

Lo studio ha analizzato 15 Iam, rilevando che la copertura dei dati attuale relativa al contributo dell'economia circolare nella lotta al cambiamento climatico si concentra soprattutto sulla riduzione dell’uso dei materiali (50%) e sul riciclo (28%), mentre strategie come riparazione, riutilizzo ed estensione della vita dei prodotti rappresentano solo il 19% circa delle analisi. Inoltre i dati delle catene di approvvigionamento risultano spesso incompleti, con report per lo più legati alle fasi di produzione e consumo e una scarsa attenzione all’estrazione delle risorse e alla gestione dei rifiuti. Secondo la Magalar “Non possiamo pianificare ciò che non possiamo misurare […]. La posta in gioco è alta perché le strategie di economia circolare non garantiscono automaticamente benefici climatici. Il riciclo può essere energivoro; mantenere in uso elettrodomestici vecchi può significare far funzionare modelli meno efficienti; e i risparmi ottenuti acquistando prodotti ricondizionati potrebbero essere spesi in attività ad alta intensità di carbonio. Senza strumenti di valutazione adeguati, rischiamo di adottare politiche ben intenzionate che producono risultati deludenti o che, peggio, ostacolano i nostri obiettivi climatici”. La ricerca, infatti, rivela che il 70% degli studi attuali presume che le politiche circolari raggiungano automaticamente gli obiettivi prefissati, invece di modellare rigorosamente le prestazioni reali. Ciò evidenzia un’importante lacuna nella ricerca e nella valutazione delle politiche.  Inoltre, nessuno dei modelli analizzati dalla ricerca del Cmcc considera il funzionamento sistemico necessario affinché le politiche di economia circolare abbiano successo. Di fatto “Una politica di riciclo non può funzionare da sola: richiede un’adeguata raccolta differenziata da parte delle famiglie, infrastrutture di raccolta, fabbriche in grado di utilizzare materiali riciclati e prodotti progettati fin dall’inizio per essere riciclabili. Tutti questi elementi sono influenzati da differenze culturali e livelli di reddito che oggi non vengono considerati”, ha precisato la Magalar.

Quindi, i decisori politici nazionali ed europei che stanno già implementando misure di economia circolare, lo fanno spesso senza adeguati strumenti di modellizzazione, rischiando di sottostimare o più facilmente sopravvalutare i reali benefici climatici di questo virtuoso ma complesso sistema economico. Lo studio, che invece propone soluzioni pratiche per integrare le politiche di economia circolare in modo olistico, potrebbe adesso fornire ai decisori politici informazioni accurate e specifiche per garantire che gli investimenti nell’economia circolare siano più coerenti con gli obiettivi climatici. “In sintesi, i decisori politici possono ora comprendere meglio come le strategie di economia circolare siano attualmente trattate nei modelli climatici, e quali lacune occorra colmare per sostenere una pianificazione della mitigazione più intelligente ed efficace”, ha concluso la Magalar. Un'analisi importante che rende ancora più urgente un impegno politico a favore di misure di economia circolare che potrebbero contribuire in modo significativo alla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra nelle industrie ad alta intensità energetica, quali quelle dell'acciaio, dell'alluminio, del cemento e del calcestruzzo e della plastica, settori che attualmente rappresentano quasi il 15% delle emissioni totali dell'Unione europea. L'integrazione di misure di circolarità in questi settori migliorerebbe la sicurezza energetica ed economica dell'Unione riducendo la dipendenza dalle importazioni. A mettere nero su bianco questo auspicio è stata la nuova relazione del Joint research centre (Jrc) dal titolo “Capturing the Potential of the Circular Economy Transition in Energy-Intensive Industries”. Nel documento si sottolinea in particolare come una migliore gestione del fine vita di questi materiali materiali, comprese misure di riduzione, riutilizzo e recupero, potrebbe aiutare l'industria dell'Ue a ridurre tra 189 e 231 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente all'anno. Le misure di circolarità, sottolinea il Jrc, potrebbero essere particolarmente efficaci nel ridurre le emissioni nel settore siderurgico (da 64 a 81 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente all'anno) e nel settore della plastica (da 75 a 84 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente all'anno).

Le misure di circolarità nei settori citati, si legge nel report, ridurrebbero in pochi anni anche la domanda di energia da combustibili fossili a livello dell'Ue di quasi il 4,7 % rispetto al 2023 e il consumo di elettricità a livello dell'Unione diminuirebbe in misura analoga. Nel complesso, ciò potrebbe ridurre la dipendenza dai combustibili fossili importati e dai materiali critici necessari per la produzione di elettricità, rafforzando al contempo la resilienza dell'Ue di fronte alla volatilità energetica globale. Anche in questa analisi abbondano le raccomandazioni per aiutare i responsabili politici e l'industria a prendere decisioni informate sulle misure di economia circolare che possono sostenere la transizione dell'Unione europea verso un'economia più sostenibile e competitiva. Quali? Tra le principali “La promozione di tecnologie per migliorare la qualità dei materiali riciclati, la riduzione dell'uso delle risorse attraverso una progettazione più efficiente e l'orientamento della domanda di mercato tramite strumenti di appalti pubblici verdi”. Queste strategie, viene sottolineato, “Sono in linea con gli obiettivi dell'Ue di migliorare la sostenibilità e la competitività, mitigando al contempo i rischi macroeconomici derivanti dalle dipendenze globali”. Come sempre ora tocca ai politici (interessi di lobby permettendo) dare seguito alle indicazioni degli scienziati. 

Alessandro Graziadei

 

martedì 23 dicembre 2025

Una nuova dieta planetaria...

Salute, clima ed equità. Sono queste le grandi variabili strettamente legate al nostro regime alimentare, visto che il cibo che consumiamo ogni giorno determina la nostra salute, la nostra impronta ecologica e nel contempo i diritti degli individui. Ma esistono dei criteri che definiscano scientificamente cosa significa “mangiare bene” per noi, per una società equa e sostenibile? Sì, è la Planetary Health Diet (Phd)una guida universale per nutrirsi in modo sano, equo e rispettoso dei limiti ecologici della Terra elaborata dalla Eat–Lancet Commission on Healthy, Sustainable and Just Food Systems 2025. Questa nuova “dieta planetaria” è fondata principalmente su cereali integrali, frutta, verdura, legumi, semi e frutta secca, con un consumo moderato di latticini, pesce e pollame, e quantità molto ridotte di carne rossa, zuccheri e grassi saturi. Per gli autori e le autrici non si tratta di “Una dieta vegetariana in senso stretto, ma di una transizione verso un modello prevalentemente vegetale, in cui le proteine animali vengono ridimensionate a favore di fonti più sostenibili”. Un’alimentazione in linea con la Phd comporterebbe “Circa 2.500 kcal al giorno, di cui oltre la metà provenienti da alimenti vegetali. Il consumo di carne rossa dovrebbe ridursi a 14 grammi al giorno, quello di pesce a 28 grammi, mentre frutta e verdura dovrebbero rappresentare almeno 500 grammi complessivi quotidiani”. Queste proporzioni, chiaramente adattabili ai diversi contesti culturali e alle caratteristiche di età, genere e metabolismo delineano un equilibrio che dovrebbe tutelare sia la salute umana, sia quella degli ecosistemi ambientali e sociali.

Iniziamo dalla salute. Secondo gli scienziati di Lancet “Oggi oltre il 30% delle patologie croniche, dal diabete alle malattie cardiovascolari, è riconducibile a regimi alimentari sbilanciati”, e “Un cambiamento globale e radicale delle diete potrebbe prevenire fino a 15 milioni di morti premature ogni anno, pari a oltre un quarto dei decessi totali nel Mondo”. Gli studi epidemiologici alla base di questa guida mostrano che le diete più vicine alla Phd riducono significativamente il rischio di malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2, alcuni tumori e la demenza, tanto che chi segue regimi alimentari più vegetali e meno ricchi di prodotti ultra-processati vive mediamente più a lungo e in migliori condizioni di salute. Ma la sfida alimentare non riguarda solo quanto mangiamo, bensì come e cosa assumiamo ogni giornoIl lavoro di Lancet evidenzia, infatti, il cosiddetto “triplice fardello della malnutrizione”: carenze nutrizionali, eccesso calorico e mancanza di micronutrienti che spesso convivono nella stessa popolazione, o persino nello stesso individuo. “In molti Paesi a basso reddito, milioni di persone non raggiungono livelli minimi di ferro, zinco, vitamina A e acidi grassi essenziali, con conseguenze dirette sulla crescita infantile, sullo sviluppo cognitivo e sulla produttività. All’opposto, nelle economie più ricche, la diffusione di diete ipercaloriche e povere di nutrienti sta alimentando un’epidemia silenziosa di obesità, diabete e malattie cardiovascolari”.

Ma il dettagliato lavoro della Eat–Lancet Commission sottolinea che l’attuale sistema alimentare è insostenibile non solo dal punto di vista sanitario, ma anche ambientale. “La produzione di cibo è, infatti, responsabile di circa un terzo delle emissioni globali di gas serra, contribuisce alla perdita di biodiversità e all’uso eccessivo di risorse naturali come acqua e suolo. In particolare, le produzioni animali occupano l’80% dei terreni agricoli, ma forniscono meno del 20% delle calorie globali”. Questo è un paradosso che pesa sull'ambiente visto che l'allevamento intensivo finisce per provocare ogni anno oltre 650mila morti per inquinamento atmosferico e generare un quarto delle emissioni di metano legate alle attività umane. A questi devastanti impatti ambientali si aggiunge quello della resistenza antimicrobica: “L’uso sistematico di antibiotici negli allevamenti industriali rende i microrganismi più resistenti e le infezioni che ne conseguono molto più difficili da curare, un problema responsabile di 1,4 milioni di decessi annui”. Infine secondo gli esperti e le esperte, anche l’inquinamento delle acque da fertilizzanti e pesticidi ha ormai superato i limiti di sicurezza in vaste aree del pianeta, mettendo a rischio la salute delle comunità agricole e urbane.

Alla luce di questi dati, secondo la Eat–Lancet Commission, oggi “Nessuna strategia climatica sarà efficace senza una trasformazione profonda dei sistemi alimentari, perché anche una completa transizione energetica non basterebbe a contenere il riscaldamento globale se non cambieranno produzione e consumo di alimenti”. Un consumo che per gli scienizati deve essere anche “giusto”, visto che i dati raccolti mostrano come “Il 30% più ricco della popolazione mondiale è responsabile di oltre il 70% dell’impatto ambientale legato al cibo, mentre le comunità più povere sono quelle che soffrono maggiormente malnutrizione e scarsità di accesso”. Anche per questo una “transizione alimentare” non può riguardare solo le scelte individuali, ma anche le politiche pubbliche: “Servono investimenti in educazione alimentare, incentivi alla produzione sostenibile, riforme fiscali eque e norme che riducano il potere di pochi grandi attori dell’industria agroalimentare”. Come ricorda Johan Rockström, co-presidente della Commissione e direttore del Potsdam Institute for Climate Impact Research: “La salute delle persone e quella del pianeta sono due dimensioni inseparabili. Il modo in cui produciamo e consumiamo cibo deciderà non solo quanto vivremo, ma in che tipo di Mondo vivranno le prossime generazioni”.

Anche per venire incontro a queste raccomandazioni l'European academies science advisory council, (Easac) ha da poco pubblicato un dettagliato rapporto completo sulle alternative alla carne. Redatto dopo numerose riunioni svoltesi in seno al Comitato per le bioscienze e la salute pubblica dell'Easac tra il 2022 e il 2025, il rapporto offre ai responsabili politici (attualmente in ritardo rispetto agli sviluppi scientifici e tecnologici), una tabella di marcia basata su dati scientifici per bilanciare gli impegni climatici, la salute pubblica e la resilienza del sistema alimentare.  Per Bert Rima, presidente del gruppo di lavoro composto da esperti nominati dalle accademie scientifiche europee “L'Unione europea deve agire ora se vuole rimanere all'avanguardia nella transizione proteica, garantire la sicurezza alimentare e raggiungere i suoi obiettivi in materia di clima e biodiversità. Dovrebbe creare politiche che sostengano l'innovazione nel campo delle alternative alla carne, garantendo al contempo la sicurezza alimentare e la protezione dei consumatori”. Insomma è auspicabile ed urgente che le future generazioni europee crescano con meno carne nei loro piatti, e questo sarà sia necessario che vantaggioso, visto che le diverse alternative alla carne hanno potenzialmente un impatto ambientale inferiore rispetto alla carne convenzionale e forniscono egualmente fonti proteiche efficienti. 

Certo alcuni prodotti vegetali trasformati possono contenere sale e grassi saturi in eccesso, per questo non solo la naturalezza, il gusto, e l'accessibilità economica sono importanti, ma serve investire in cultura alimentare e un'etichettatura chiara per conquistare la fiducia dei consumatori. Le popolazioni più giovani e urbane sono più aperte alle alternative, in particolare quelle attente al benessere degli animali e al cambiamento climatico. Ma per Hanna Tuomisto, professore di sistemi alimentari sostenibili e coautrice del rapporto “Abbiamo bisogno di piena trasparenza, non solo sugli ingredienti, ma anche sull'impatto ambientale e sulla lavorazione”. È inoltre essenziale fornire delle indicazioni chiare sull'integrazione delle alternative alla carne in diete equilibrate, combattendo così la disinformazione e creando un quadro positivo per l'innovazione, la ricerca e lo sviluppo. “L'Europa dispone degli strumenti e della capacità di innovazione necessari per assumere un ruolo di leadership a livello globale, ma non bastano le soluzioni tecnologiche. Il successo della transizione verso proteine sostenibili dipenderà dalla sua definizione sociale e politica. Senza un'azione coordinata, rischiamo di perdere sia i benefici ambientali che la fiducia del pubblico” ha concluso la Tuomisto.

Alessandro Graziadei

sabato 20 dicembre 2025

Dall’India all’Italia tira una brutta aria

 

L’inquinamento atmosferico si fa sempre più pericoloso, ma dall’India all’Italia le misure per evitarlo non sono sempre all’altezza della minaccia


Lo scorso 3 dicembre la Corte suprema di Delhi ha iniziato l’esame di una petizione popolare che chiede misure urgenti per ridurre l’inquinamento atmosferico, che da anni in India si fa sempre più diffuso e pericoloso. Tra il 2022 e il 2024, mentre tutti i cittadini di Delhi lottavano contro i crescenti livelli di inquinamento, in 6 ospedali cittadini sono stati registrati una media annua di 67.054 casi di pazienti con crisi respiratorie acute. Come hanno recentemente dimostrato diverse inchieste della BBC, a Delhi e nei suoi sobborghi l’aria tossica è un problema ricorrente, soprattutto durante l’inverno e soprattutto per bambini e bambine che finiscono inevitabilmente per pagarne il prezzo più alto. “In nessun luogo – ha denunciato una delle inchieste della BBC – l’inquinamento atmosferico è più evidente che nelle cliniche pediatriche o negli ambulatori medici” dove negli scorsi mesi “genitori ansiosi facevano la fila mentre i bambini starnutivano, tossivano o lamentavano difficoltà respiratorie”.


Per Shishir Bhatnagar, pediatra della clinica di Noida, intervistato dalla BBC, “Il particolato può influenzare l’immunità del bambino, soprattutto perché il suo sistema è ancora in via di sviluppo e le cellule imparano a rispondere al sistema immunitario nei primi anni di vita. Questi casi sono aumentati di dieci volte negli ultimi anni. Nella mia esperienza, se normalmente vedo in media il 20-30% dei pazienti con tali disturbi, questa percentuale sale al 50-70% durante la stagione invernale”.


La maggior parte dei minori come delle persone anziane o affette da patologie respiratorie ha iniziato ad accusare difficoltà già dallo scorso ottobre, quando la qualità dell’aria nella capitale indiana è scesa a livelli pericolosi a causa di un mix di fattori come le emissioni industriali, i gas di scarico dei veicoli, il calo delle temperature, la carenza di vento e la combustione stagionale delle stoppie dei raccolti. Come ogni anno il Governo indiano ha adottato alcune misure di emergenza per arginare lo smog bloccando i lavori edili e vietando la circolazione dei veicoli più inquinanti, ma nonostante questo da novembre l’indice di qualità dell’aria (AQI) di Delhi, che misura diversi tipi di inquinanti, compreso il livello di particolato fine PM2.5, si è attestato tra 300 e 400, un valore superiore di 20 volte al limite raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità.


Un problema che a 7.500 chilometri di distanza in linea d’aria trova un’eco anche qui in Italia dove secondo Legambiente “La scelta del Governo di ridurre drasticamente, già dal 2026 e per tutto il prossimo triennio, le risorse destinate al Fondo per il miglioramento della qualità dell’aria nel bacino padano, è una decisione grave e incomprensibile, soprattutto perché arriva nel momento in cui i territori più esposti all’inquinamento atmosferico stanno mostrando i primi segnali concreti di miglioramento grazie agli sforzi dei territori degli ultimi anni”.


La nuova Legge di Bilancio 2026, varata a fine ottobre e in attesa di essere definitivamente approvata entro fine mese, in relazione al taglio delle risorse previste per il “Fondo per il finanziamento di specifiche strategie di intervento volte al miglioramento della qualità dell’aria nell’area della Pianura Padana”, prevede una riduzione delle risorse del 75%. Per l’ong del Cigno Verde “Un taglio enorme, che compromette gravemente l’attuazione dei piani regionali della qualità dell’aria, mettendo a rischio il rispetto dei valori limite previsti dalle norme europee proprio quando – nonostante condizioni strutturalmente sfavorevoli, come la conformazione geografica chiusa e l’elevata densità antropica – le Regioni e le Città padane stavano dimostrando la volontà di un deciso cambio di passo per ridurre i livelli di inquinamento”. Il Veneto, ad esempio, sta registrando dati che potrebbero portare ad un 2025 senza superamenti oltre i 35 giorni del limite dei 50 μg/m³ di PM10 nella maggior parte delle centraline rivela smog, anche in Lombardia il trend delle PM10 è in lieve miglioramento, mentre in Piemonte e in Emilia-Romagna la qualità dell’aria ha iniziato lentamente a beneficiare di nuove misure antismog, frutto di politiche integrate su mobilità, agricoltura ed efficienza energetica.


Per  Legambiente quella del Governo, se confermata, sarebbe “Una scelta miope che espone l’Italia a nuove procedure d’infrazione europee, a ulteriori sanzioni onerose e riduzioni dei fondi strutturali europei e, soprattutto, a un pericoloso arretramento nella tutela della salute pubblica”. Del resto, secondo i più recenti dati dell’Agenzia europea per l’ambiente relativi al 2023, le vittime del Pm2,5, in Europa sono state circa 238.000 e tra queste quelle italiane sono state ben  43.000, collocate prevalentemente in Pianura Padana. Per questo tagliare le risorse necessarie, invece di consolidare i progressi ottenuti appare oggi un “furto di risorse” ai danni dei territori padani più colpiti dall’inquinamento atmosferico, territori che senza finanziamenti adeguati vedrebbero ridimensionate quando non addirittura cancellate le azioni antismog più virtuose previste per i prossimi anni, con conseguenze gravi sia per la salute delle persone sia per il percorso di allineamento dell’Italia agli standard europei.


Per Legambiente “Lasciare a terra la salute dei cittadini del bacino padano è un errore enorme e tagliare le risorse proprio ora, quando i primi risultati dimostrano che investire nella qualità dell’aria funziona e che servirebbe attivare misure ancora più incisive nei settori dei trasporti, dell’agricoltura e del riscaldamento domestico, è un atto irresponsabile che mette a rischio la salute di 25 milioni di cittadini del bacino padano. Il Paese ha bisogno di investimenti continui, certi e lungimiranti. Siamo pronti, insieme ai comitati regionali, a far sentire con forza la nostra voce”.


Una qualità dell’aria che non rispetta i limiti normativi è un problema sanitario ancora prima che ambientale e per questo nelle prossime settimane l’ong chiederà al Parlamento di ripristinare immediatamente i fondi previsti dal decreto direttoriale Mase del luglio 2024 e di non abbandonare uno dei fronti più cruciali per la salute e la competitività del Paese, invitando il Governo ad aprire un confronto serio con le Regioni e a considerare la qualità dell’aria come una priorità nazionale non rinviabile e non una voce di spesa da sacrificare.


Alessandro Graziadei

sabato 6 dicembre 2025

Più alberi, più vita!

Secondo un recente studio scientifico pubblicato a fine agosto sulla rivista Nature Climate Change dai ricercatori della britannica Università di Leedsnel periodo 2001-2020 nei tropici è andata perduta una superficie forestale complessiva di 1,6 milioni di km². “La perdita più consistente - hanno spiegato - si è verificata nell'America centrale e meridionale tropicale (circa760.000 km²), nel Sud-est asiatico (circa 490.000 km²) e nell'Africa tropicale (circa 340.000 km²)”. Nel contempo “Le temperature superficiali nelle zone tropicali sono generalmente aumentate in questo periodo a causa di una combinazione di cambiamenti climatici globali e deforestazione, con un riscaldamento medio annuo regionale di +0,34°C nell'America centrale e meridionale tropicale, +0,10 °C nell'Africa tropicale e +0,72 °C nel Sud-est asiatico”. I ricercatori hanno condotto le loro analisi basandosi su dati satellitari della Nasa, che misurano l’andamento delle temperature, e quelli di Global Forest Change sulla deforestazione, mettendoli poi in relazione con altri dati sulla demografia e la mortalità nelle aree interessate dall’abbattimento di foreste per far spazio all’espansione agricola, all'allevamento e al mercato del legname e di altre materie prime. Di fatto in poco meno di 20'anni la deforestazione nelle aree tropicali ha esposto 345 milioni di persone a un aumento medio della temperatura dell’aria di 0,27 °C. Per circa il 10% di queste persone (parliamo di 33 milioni), l’aumento di calore è stato superiore a 1°C, e ha addirittura toccato +3°C per 2,6 milioni di persone. Oltre ai disagi e all’impossibilità di lavorare nelle ore più calde, quest’innalzamento delle temperature ha provocato seri danni alla salute delle popolazioni dell’area. Danni, in alcuni casi, mortali: oltre 28.000 morti all’anno in questo ventennio preso in esame sarebbero attribuibili all’eccesso di calore, pari al 39% del totale delle vittime del caldo nelle regioni interessate dalle operazioni di deforestazione.

Se studi precedenti hanno in più occasioni dimostrato una forte associazione tra la perdita delle foreste tropicali e l'aumento della temperatura superficiale della Terra, finora nessuna analisi aveva indicato nel dettaglio le morti associate al fenomeno della deforestazione. Se infatti è risaputo che gli effetti della perdita delle foreste tropicali sono profondi e influenzano la biodiversità, il clima globale e il ciclo idrologico contribuendo a mitigare le temperature producendo ombra con le chiome e umidità con l'evapotraspirazione, questo focus dettagliato sulla stretta relazione tra alberi e salute umana non dovrebbe più lasciarci indifferenti davanti a questo radicale “cambio di stagione” di natura antropica. “La deforestazione tropicale induce il riscaldamento locale e rappresenta un potenziale rischio per la salute umana, essendo stata collegata a un elevato stress termico e a una riduzione delle ore di lavoro all'aperto in condizioni di sicurezzaQui mostriamo che il riscaldamento locale indotto dalla deforestazione è associato a 28.000 decessi all'anno correlati al calore” hanno spiegato gli scienziati. L'analisi dei dati satellitari mostra che la deforestazione tropicale nel periodo 2001-2020 ha esposto quasi 350 milioni di persone al riscaldamento locale, con un riscaldamento della superficie terrestre durante il giorno ponderato in base alla popolazione pari a 0,27 °C. I tassi di mortalità stimati a livello mondiale e legati direttamente all'aumento delle temperature sono risultati più elevati nel Sud-Est asiatico (8-11 decessi ogni 100.000 persone che vivono in aree deforestate), seguito dalle regioni tropicali dell'Africa e delle Americhe. 

In sintesi “Nelle regioni colpite dalla perdita di foreste, il riscaldamento locale causato dalla deforestazione potrebbe rappresentare oltre un terzo della mortalità totale correlata al calore climatico, evidenziando l'importante contributo della deforestazione tropicale al riscaldamento in corso e ai rischi per la salute correlati al calore nel contesto dei cambiamenti climatici”. Una conclusione confermata anche da uno studio pubblicato in giugno sulla rivista scientifica The Lancet Planetary Health, e realizzato nell’ambito del progetto europeo Life “Airfresh in relazione al verde urbano del Vecchio continente. Secondo questo studio gli alberi sono fondamentali soprattutto nell'assorbimento del caldo urbano, diminuendo così il rischio di ondate di calore dannose per i cittadini. Ma non solo. Significano anche meno inquinamento e di conseguenza, minori rischi per la salute. Questo studio che indica nello specifico quante morti premature possono essere evitate in base a quanti alberi in più vengono piantati è il frutto di un’indagine internazionale alla quale ha partecipato tra gli altri, per l’Italia l’Enea. Lo studio, effettuato effettuato in 744 città di 36 Paesi europei sostiene che “L’aumento del 5% della superficie alberata in città comporterebbe una riduzione degli inquinanti atmosferici tale da evitare circa 5mila morti premature all’anno. Inoltre, la ricerca ha evidenziato che si potrebbero “Evitare fino a 12mila morti l’anno se ogni centro cittadino avesse una copertura arborea di almeno il 30% in più”. Per la coordinatrice del progetto per Enea Alessandra De Marco, “In ambito urbano polveri sottili, biossido di azoto e ozono sono tra gli inquinanti più pericolosi per la nostra salute e per quella degli ecosistemi. Entro il 2050, si stima che circa l’80% della popolazione europea risiederà in contesti urbani, accentuando la rilevanza di queste problematiche”. Quindi “Aumentare la quantità di alberi in città permetterebbe di ottenere benefici simultanei come il miglioramento della qualità dell’aria, la mitigazione dell’effetto isola di calore estiva, la conservazione della biodiversità e, soprattutto, il benessere e la salute dei cittadini”.

La Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite (Unece) raccomanda l’adozione della strategia che consiste nel raggiungimento di tre obiettivi specifici: 3 alberi visibili da ogni casa, scuola o luogo di lavoro, 30% di copertura arborea in ogni quartiere e 300 metri di distanza massima della propria abitazione da un parco o da spazio verde pubblico. “Una copertura arborea urbana al 30%, come quella raggiunta da alcune città europee, potrebbe ridurre le morti premature del 9,4% da PM2,5, del 7,2% da biossido di azoto e del 12,1% da ozono. Al contrario, abbattere la superficie alberata fino ad azzerarla comporterebbe un aumento della mortalità: +19,5% da PM2,5 (circa 19 mila morti premature in più ogni anno), +15% da biossido di azoto (oltre 5.200 in più) e +22,7% da ozono (circa 700 in più)”, ha spiegato la De Marco. E come abbiamo visto su scala mondiale i benefici del verde urbano non si fermano alla qualità dell’aria perché gli alberi possono infatti ridurre la temperatura percepita, mitigando l’impatto delle ondate di calore come quella dell’estate 2022 che ha causato circa 62 mila morti solo in Europa. La Strategia Ue sulla biodiversità al 2030 prevede l’impegno dei Paesi aderenti a piantare almeno 3 miliardi di alberi entro la fine del decennio per portare a un aumento significativo della copertura arborea media nelle città. Ora servirebbero politici, urbanisti e amministratori locali interessati non solo a costruire nuovi “Boschi verticali”, ma ad integrare sull'esistente nuove infrastrutture verdi in tutte le città europee.

Alessandro Graziadei

 

sabato 29 novembre 2025

Abitare il conflitto

Operazione Colomba nasce nel 1992 dal desiderio di alcuni volontari e obiettori di coscienza della Comunità Papa Giovanni XXIII, di vivere concretamente la nonviolenza in zone di guerra. Oggi li abbiamo intervistati

Ci raccontate quando, come e perché nasce Operazione Colomba?

Siamo nei primi anni ‘90, un periodo di grandi cambiamenti: il mondo, con la fine dei due blocchi, stava cambiando e di conseguenza cambiava anche il modello di difesa che l’Europa aveva adottato fino ad allora, modulato sulla “guerra fredda”, dove la logica era quella di rispondere ad una possibile invasione dell’Unione Sovietica. Con la caduta del muro di Berlino l’esercito iniziava ad uscire dai confini dell’Italia; assistiamo alle prime missioni in giro per il mondo: Libano, Somalia…  

In parallelo occorreva ripensare anche al modello di difesa non armato e nonviolento: che ruolo possono avere i civili nelle guerre, solo quello di vittime? Cosa si può fare?  Con lo scoppio della guerra in ex Jugoslavia nel ’92, “alle porte di casa nostra”, tantissime Associazioni attuarono azioni di solidarietà di ogni tipo, umana e assistenziale.  Alcuni volontari, volontarie e Obiettori di Coscienza della Comunità Papa Giovanni XXIII scelsero di andare verso il fronte per capire cosa fare. Non c’era un obiettivo da raggiungere o un piano da seguire, ma un’unica convinzione: la necessità di elaborare una risposta concreta a partire dal legare la vita con le persone che subivano il conflitto.  Non c’era, e non c’è ancora oggi, una risposta standard che va bene per tutti i conflitti, ogni zona di guerra può chiedere una modalità diversa. Si vive insieme, spesso nei campi profughi, e la quotidianità offre tante intuizioni, presenta direzioni da seguire. 

Operazione Colomba nasce dunque dalla condivisione con le vittime, tenendo sempre stretto il contatto con chi vive situazioni di violenza e porta avanti azioni di pressione istituzionale e denuncia delle violazioni dei Diritti Umani. L’obiettivo è elaborare una risposta nonviolenta che, proprio perché nasce dalla vita con le vittime, deve essere estremamente concreta. In una frase, “abitare il conflitto”. E questo si può fare solo vivendo con le persone, dando valore ai legami che si creano. Entrare in un conflitto vuol dire anche togliere un po’ del dolore che le persone stanno portando. 

Vivere con le persone crea comunità, crea relazioni e spazi più sicuri. Se un’alternativa alla guerra non parte dalla vita insieme a chi ne paga le conseguenze, a chi subisce la violenza in prima persona, difficilmente si potranno fermare i conflitti.  Perché la fine della guerra non arriverà da sola, ma solo se uniamo gli sforzi. 

Di cosa vi occupate nello specifico, sia all'estero che in Italia?

Le attività che portiamo avanti nelle zone di conflitto dove siamo presenti sono l’accompagnamento e la protezione dei civili più esposti alla violenza della guerra, attraverso la presenza internazionale e con azioni nonviolente concrete quali, ad esempio, l'interposizione e le scorte non armate.  Nella vita quotidiana, poi, emergono i bisogni più immediati delle persone, ai quali cerchiamo di dare risposte concrete direttamente o facendo da tramite presso altre ONG, istituzioni e realtà locali. Sul campo è molto importante il lavoro di documentazione, denuncia e advocacy, anche finalizzati alla promozione di soluzioni alternative per la risoluzione del conflitto a livello politico e istituzionale.

In Italia Operazione Colomba è impegnata soprattutto nel supporto e nel coordinamento delle presenze all’estero e in tutto ciò che ne consegue: formazione dei volontari, raccolta fondi, partecipazione ad incontri pubblici di presentazione e promozione delle attività.

C’è poi l’organizzazione di iniziative direttamente rivolte al territorio: interventi nelle scuole e nelle Università, azioni politiche (come quella per l'istituzione di un Corpo Civile di Pace o la partecipazione alla campagna nazionale per l’istituzione di un Ministero della Pace), la partecipazione e promozione di convegni, seminari, campagne pubbliche di approfondimento e sensibilizzazione sui temi della pace e della nonviolenza.

Una particolare attenzione, sia in Italia che all’estero, viene data all’informazione e alla comunicazione. Oltre al sito web, in cui sono raccolti i diari dei volontari dalle presenze, abbiamo canali social Facebook e Instagram, sia in italiano che in inglese. C’è poi l’attività di archivio fotografico e di produzione audiovisiva (anche con dei podcast). Diversi sono i contatti con giornalisti e a volte usciamo con comunicati dall’ufficio stampa della Comunità Papa Giovanni XXIII. 

Crediamo che l’informazione dal basso, attraverso la testimonianza diretta di chi quotidianamente vive nella guerra, sia uno strumento fondamentale di costruzione della Pace. La segreteria centrale di Operazione Colomba è a Rimini.

Normalmente dai fronti di guerra si scappa, voi da civili avete deciso di provare a viverci in modo nonviolento e non armato. Quali sono i fronti dove avete operato e quelli dove siete ancora presenti?

L'obiettivo principale di Operazione Colomba è quello di rimanere insieme alle vittime, di stare al loro fianco ed abitare i conflitti. Abbiamo iniziato nel ‘92 con la guerra nei Balcani, quindi la presenza in Bosnia e Serbia, poi la Croazia, l'Albania in vari momenti, in vari conflitti, ed il Kosovo. Abbiamo fatto esperienze medio/brevi, come a Timor Est, in Congo, in Cecenia, in Darfur, ed invece altri progetti hanno avuto più ampio respiro, come in Uganda, in Giorgia, in Palestina dove siamo presenti da più di vent'anni, e in Colombia. Più di recente abbiamo seguito tutto il tema della rotta balcanica con la presenza in Grecia e Libano-Siria ma anche in Cile al fianco del popolo Mapuche. Europa, Medio Oriente ed America Latina, attualmente siamo presenti in questi territori.

La vostra prima esperienza è legata alla storia dell'ex Yugoslavia con operazioni in Croazia, Bosnia Herzegovina e Yugoslavia tra il 1992 e il 1997, dove siete stati a fianco delle diverse popolazioni coinvolte nel conflitto. Cosa vi ha insegnato quella prima esperienza e come è cambiato il vostro modo di operare negli anni? 

L’esperienza ci ha insegnato molto, i primi viaggi sono stati una scoperta continua di cose che forse nemmeno immaginavamo possibili, anche perché partivamo spinti dal desiderio di poter fare qualcosa di importante, ma stavamo aprendo delle strade nuove e dunque c'erano anche tanti punti interrogativi. Sicuramente la prima scoperta è stata che nelle guerre si può entrare. Fino ad allora eravamo abituati a vederle da lontano o in televisione o sui giornali. Invece, checkpoint dopo checkpoint, potevamo entrare anche come civili e arrivare fino al cuore della guerra, sul fronte, dove bombardano.

La seconda scoperta poi, arrivati lì, è stata sicuramente quella di vedere che le vittime sono i civili, e tendenzialmente le persone che non possono scappare, quindi anziani, donne, bambini, persone con disabilità.  E questa seconda scoperta, soprattutto nella guerra nei Balcani, si è affiancata ad una terza scoperta cioè quella di vedere che le vittime erano su più fronti. In questo la guerra nei Balcani è stata molto chiara. In quei primi viaggi le persone che incontravamo ci raccontavano dei legami che c'erano, a volte anche famiglie che erano state costrette a separarsi a causa della guerra. Questa è stata dunque la terza scoperta: bisognava stare sui più fronti, accanto alle vittime civili, ma su più fronti. In alcuni casi facevamo proprio da punto di contatto e ponte di dialogo.

Il nostro modo di operare è iniziato con dei campi, delle presenze sporadiche che successivamente sono diventate presenze stabili.  Perché questo? Perché abbiamo visto che la presenza di civili internazionali a fianco delle vittime ha un senso profondo per l’umanità dell’azione (la condivisione della vita in mezzo alla guerra e la solidarietà concreta), ma anche un potenziale enorme per la trasformazione nonviolenta del conflitto.

Vivere con queste persone e prendere consapevolezza del ruolo che poteva avere una presenza internazionale, non armata e nonviolenta al loro fianco, ci ha portato a trasformare i campi in presenze stabili, a diventare quello che oggi possiamo definire un Corpo Nonviolento di Pace. Poi ogni conflitto ha le sue specificità e per questo motivo si interviene, da un punto di vista pratico, anche con azioni (che negli anni si sono affinate) di tipo diverso.Ma è evidente che, e questa è stata forse l’ennesima scoperta, ad un certo punto abbiamo capito il ruolo che una presenza come la nostra può avere in zone di conflitto.

I civili sono ancora e sempre i principali obiettivi militari?

Purtroppo i civili sono ancora e sempre i principali obiettivi militari. In diversi contesti, se non quasi tutti quelli di guerra che conosciamo, i civili vengono utilizzati, potremmo dire strumentalizzati, come prezzo politico del conflitto stesso. Abbiamo vari esempi in vari luoghi: a partire dal reclutamento forzato fino all'utilizzo della popolazione civile a favore o contro alcuni gruppi. A seconda di che tipo di conflitto stiamo parlando, se coinvolge più o meno attori armati legali o illegali, i civili vengono usati o uccisi come prezzo politico.

Nonostante questo, nonostante le gravi violazioni del diritto umanitario internazionale, nonostante i gravi crimini di guerra commessi contro la popolazione civile, si vive sempre più una certa indifferenza, si arriva ad una sorta di abitudine: che all'interno di un conflitto siano sempre i civili a costituire il maggior numero di vittime. Come se questa fosse la normalità, come se in questo orrendo circolo vizioso della guerra decisa dai potenti il prezzo sia proprio quello di strumentalizzare la popolazione civile e di usarla in mille forme, come ricatto politico, come posta politica, senza che ci sia nessun tipo di intervento degli organi competenti a difesa del diritto della popolazione civile.

Ho avuto occasione di sentire alcune testimonianze di vostri attivisti impegnati in Cisgiordania, uno di loro era lì in quel tragico 7 ottobre 2023. In cosa consiste e quanto è complesso il vostro intervento in quell'area e cosa è cambiato dopo il 7 ottobre?

Siamo in Cisgiordania da settembre 2004, quindi ormai siamo arrivati a 21 anni di presenza nell’area di Masafer Yatta – Colline a sud di Hebron, un’area rurale della Cisgiordania meridionale.

Ciò che abbiamo sempre fatto è accompagnare in modo nonviolento le persone palestinesi nelle loro attività quotidiane: andare a scuola, portare al pascolo le greggi di ovini, coltivare le proprie terre e raccogliere le olive. Con le nostre fotocamere e videocamere documentiamo tutto ciò che succede ogni giorno alle comunità palestinesi della zona e forniamo quei materiali foto e video a ONG, istituzioni internazionali, avvocati per i Diritti Umani, per testimoniare le violazioni contro i palestinesi della Masafer Yatta.

La situazione ha iniziato a peggiorare già dai tempi del COVID19, per una inevitabile assenza di internazionali, e anche di attivisti israeliani, insomma di qualcuno che filmasse e documentasse, e che rendesse note le politiche di espansione coloniale e di occupazione israeliana in Cisgiordania, in particolare nella zona dove siamo noi. Quindi negli ultimi anni in tutta l’area c’è stata un'espansione territoriale esponenziale delle colonie e degli avamposti israeliani.

Dall’insediamento dell'ultimo governo Netanyahu, con la componente di destra estrema, il potere politico e l'influenza dei coloni estremisti ha ancora più forza, ancora più rilevanza.

Dal 7 ottobre le cose sono precipitate. Quel giorno stesso i nostri tre volontari che erano presenti nell’area hanno assistito ad una reazione immediata dei coloni, che sono usciti armati “a caccia” di palestinesi e di internazionali, minacciando e addirittura sparando colpi diretti alle persone.

Da quel giorno l’espansione coloniale sta procedendo a ritmo ancora più sostenuto e violento, con aggressioni, omicidi, invasioni di villaggi e occupazione di terre.

Il Governo israeliano ha rifornito i coloni di ulteriori armi e di legittimazione ad usarle senza alcuna ripercussione, fino ad istituire delle vere e proprie milizie paramilitari, poi integrate nell’esercito. Questo ha garantito loro anche mezzi economici e materiali, col fine ultimo di aumentare l’espansione coloniale e l’annessione di sempre maggiori porzioni di terra palestinese.

Ormai quasi tutto il territorio delle colline a sud di Hebron è punteggiato di ulteriori avamposti coloniali illegali. Ci sono aggressioni ogni giorno solo nell'area dove siamo noi, e le stesse aggressioni oltre che più frequenti sono sempre più violente, tanto che interi villaggi sono stati sfollati e evacuati forzatamente.

I palestinesi non si spostano più dai loro villaggi, non portano più le greggi al pascolo, non coltivano i terreni, i bambini dei villaggi più isolati non vengono più scortati dall’esercito per raggiungere la scuola. Le richieste che ci vengono rivolte dalla popolazione sono quindi molto cambiate: non più accompagnare le persone nelle loro attività quotidiane, ma proteggerle con la nostra presenza (presidiare alcune zone più a rischio giorno e notte, accorrere durante le continue emergenze) e documentare tutto quello che accade.

Negli ultimi anni c'è stata anche una fortissima targetizzazione degli internazionali, attivisti e difensori dei Diritti Umani, con molti arresti ed espulsioni. D’altro canto fortunatamente Operazione Colomba non è sola; con noi ci sono anche gli attivisti di Mediterranea Saving Humans, ISM e altri gruppi internazionali e israeliani, come Ta’ayush, tutti impegnati nell’accendere una luce sulle violazioni dei Diritti Umani che subiscono i palestinesi.

Pace, interventi civili di pace, riconciliazione, perdono, riumanizzazione del nemico, interposizione nonviolenta e non armata... Oltre agli insegnamenti di don Oreste Benzi e ad un lessico comune, esiste un vostro specifico approccio teorico all'intervento umanitario nonviolento nei contesti bellici e quali sono le difficoltà e le principali criticità che incontrate nel tradurlo in azioni concrete?

Quando si parla di nonviolenza facciamo riferimento a quelle che sono state le figure fondamentali, i maestri, a iniziare da Gandhi e Martin Luther King, persone che hanno sempre proposto come azione diretta in qualunque tipo di conflitto quella della nonviolenza, della riconciliazione, del dialogo. Anche Operazione Colomba pone le basi su queste teorie di vita, di vita vera, della vita vissuta da questi personaggi e da tantissimi altri movimenti che hanno fatto la storia e dalle quali Operazione Colomba ha tratto i suoi principi chiave da seguire nell’attività di accompagnamento internazionale in area di conflitto.

In primo luogo vi è la condivisione diretta con le vittime, cercando in molti casi anche di aiutare in maniera concreta di fronte alle urgenze che si possono verificare. La protezione dei civili è il nostro obiettivo e per farlo abbiamo bisogno di essere presenti e nello stesso tempo neutrali, di poter monitorare come osservatori internazionali, ma soprattutto di fungere noi stessi da attori in quel contesto. Con la nostra presenza possiamo esigere una diminuzione della violenza e fungere da deterrente rispetto ai soprusi che in genere le popolazioni oppresse subiscono. Questo si può fare in diversi modi: attraverso l'advocacy, attraverso la denuncia (in maniera privata o pubblica), ma anche proprio tramite la presenza di interposizione fisica, attraverso l'accompagnamento. A seconda di che tipo di conflitto si tratta, se si è all’interno di campi profughi, se vi sono persone minacciate, si possono fare azioni di solidarietà, azioni di mediazione fra le parti, di dialogo, favorendo la costruzione di ponti fra quelli che magari un tempo erano nemici, fra minoranze che si ritrovano chiuse, isolate e stigmatizzate rispetto al contesto di conflitto che stanno vivendo.

In ogni caso si cerca di promuovere il dialogo, la riconciliazione, e questo è un lavoro che dipende dal luogo, dalla storia, dalla tipologia del conflitto. Il conflitto non è un vestito uguale per tutti, ma si modifica e si cambia, si adatta a delle situazioni politiche ed economiche che lo hanno generato. Le esigenze possono essere diverse e quindi anche le possibilità di interloquire fra le parti che non necessariamente sono solo due, ma a volte molteplici. Vi è un lavoro di sensibilizzazione, di portare la voce di chi a livello politico e a livello istituzionale non ce l’ha; il nostro agire non è solo attraverso la nonviolenza, che è la scelta principale, ma anche con l'attenzione all’equivicinanza fra le parti, ovvero l’opposto di un’equidistanza dall'ingiustizia. Valorizzando la partecipazione popolare siamo convinti che proprio la nonviolenza sia la forza decisiva, la forza creativa che permette l'accompagnamento, che permette di denunciare, che permette di essere presenti, di dare la possibilità di riconciliazione, di sanare le persone ferite, di ricostruire ponti. È vero che è necessaria l'equivicinanza, indipendentemente dalla religione, dalla cultura, della potenza politica, ma come Operazione Colomba scegliamo di vivere dalla parte che vive maggiormente l'ingiustizia, dalla parte che vive situazioni più gravi di scomodità, dalla parte delle vittime dirette di conflitti che possono avere diversa radice, diversa natura, anche se sappiamo che generalmente le ragioni sono sempre vincolate a motivi economici o politici di controllo territoriale. In questo modo non è mai stato difficile incontrare la gente, non è mai stato difficile trovare delle realtà che si erano già messe in marcia, come nel caso della Palestina o della Colombia, in un cammino non violento di riconciliazione. Spesso siamo al fianco di comunità, di persone che hanno già scelto una via pacifica, una via nonviolenta, che avevano già scelto di essere diversi rispetto ai loro oppressori. In particolare in questi casi non si trovano criticità nel voler vivere con loro o nel creare situazioni di accompagnamento e di vicinanza che abbiano questi principi di nonviolenza, di equivicinanza, di solidarietà, di partecipazione popolare etc. Più complicato risulta invece il riuscire ad essere ascoltati da quelle istituzioni, da quegli enti che dovrebbero essere deputati a difendere il diritto internazionale, a difendere la vita, a difendere la libertà di ciascun essere vivente.

Questo è il grande ostacolo. Abbiamo avuto esempi bellissimi nel corso della nostra storia, come le comunità siriane dei campi profughi in Libano, o la comunità di pace di San José de Apartadó in Colombia, con la loro proposta nonviolenta di resistenza e resilienza rispetto al conflitto armato. Ma anche tante altre realtà che accompagniamo dove non manca la creatività alla gente, non manca la voglia di risolvere in forma diversa i conflitti e di vivere in maniera diversa la vita in modo pacifico. Il problema più grande rimane quella di riuscire ad essere ascoltati, non trovare la coerenza e quel coraggio politico, quell'onestà di tante istituzioni, di tanti enti deputati alla protezione dei diritti, che spesso riempiono le pagine di report, di belle parole, ma che poi, come tristemente vediamo anche in questo ultimo anno, non riescono ad attuare reali azioni di pace, di riconciliazione, in difesa della popolazione civile innocente.

Perché, utilizzando le parole della storica Anna Bravo, il “sangue risparmiato” e molte esperienze di pace e riconciliazione non trovano oggi spazio nei media?

Probabilmente ci sono più motivazioni, una concausa di elementi che partono in primo luogo da un'economia di guerra che sostiene i conflitti e che ha bisogno di occupare spazi anche nel mondo della comunicazione per essere legittimata e alimentare i conflitti stessi... perché c'è chi ci guadagna e dunque c'è un rapporto tra la comunicazione, che diventa manipolazione, propaganda, e gli interessi che ci sono nelle guerre.

Poi forse la comunicazione di oggi, i social e l'informazione online, si basa anche sulla necessità di accalappiarsi un click, di inseguire un’informazione sensazionalistica, che va più alla pancia che al cuore.

E in tal senso una storia di riconciliazione, ad esempio, più lenta, più silenziosa, meno roboante, può probabilmente risultare meno interessante, meno attraente da un punto di vista della “vendita del prodotto comunicativo”.

È fondamentale però dire anche ci sono spazi e persone che fanno la differenza, uomini e donne che ci mettono la vita: penso a giornalisti che raccontano anche storie di “sangue risparmiato”, di pace, di incontro… ed è molto importante parlare di loro, perché sono persone che a volte rischiano anche la vita per dare voce alla speranza.

Non solo di guerre e conflitti vi state occupando, ma anche di “Emergenza confini” …

L’interesse per le questioni migratorie e di confine nasce molto tempo fa. Spesso capitava che i nostri volontari/e rientrati in Italia, volendo comunque rimanere in un ambito in qualche modo ricollegabile all’esperienza vissuta nei progetti all'estero, si occupassero di persone in movimento, che erano arrivate tramite la rotta balcanica o via mare, attraverso il Mediterraneo. Inoltre, molte delle persone che arrivano in Italia attraverso queste stesse rotte sono vittime dei conflitti, scappano da luoghi di guerra dove, in alcuni casi, Operazione Colomba ha una presenza, anche per questo ci siamo sentiti chiamati.

A inizio 2020, prima del Covid, ci si è interessati alla rotta balcanica e contemporaneamente abbiamo ricevuto diverse sollecitazioni dall'isola di Lesbo, che era allo stremo dopo l'incendio del campo di Moria; quindi si sono fatti diversi viaggi esplorativi, sia in Grecia che sulla rotta balcanica, fino a Trieste. Abbiamo deciso quindi di aprire una presenza sull’Isola di Lesbo, che si è protratta per un anno e mezzo. Successivamente, da circa 3 anni, la presenza si è spostata nella città di Atene.

Il progetto ad Atene monitora gli arrivi sulla terraferma rispetto alle isole, e prevede qualche viaggio periodico sull'isola di Lesbo nonché qualche viaggio esplorativo. Questo perché riteniamo fondamentale capire ciò che accade, perché la Grecia, purtroppo, è una specie di laboratorio delle politiche migratorie dell'Unione Europea. È ampiamente circondata in tutto il suo territorio marittimo da missioni di Frontex, l'agenzia europea che dovrebbe, in teoria, proteggere i confini dell'Unione Europea e in realtà ha trasformato l'Europa nella cosiddetta Fortress Europe.

E con Operazione Colomba, in questo, abbiamo fatto una scelta particolare, perché abbiamo deciso di non chiedere il riconoscimento per l'ingresso nei campi profughi governativi greci, per diverse ragioni. Innanzitutto per una presa di posizione politica per cui scegliamo di non avallare la politica del confinamento dentro i campi; in secondo luogo perché per una registrazione o un riconoscimento presso il Governo greco per entrare nei campi, è necessario fornire tutti i dati di volontari e volontarie e delle persone che incontriamo, anche dati che, secondo la nostra sensibilità, dovrebbero restare coperti dalla tutela della privacy.

In Grecia, volontari e volontarie di Operazione Colomba si occupano di primo supporto psicologico attraverso il quale accolgono i bisogni delle persone in movimento che incontrano. Sono inoltre impegnati in accompagnamenti sanitari, perché spesso un razzismo sistemico impedisce alle persone di essere curate degnamente come meritano e come è loro Diritto, e in accompagnamenti legali; in breve mettono in relazione i bisogni di queste persone con una rete di realtà che possano dare una risposta e garantire una tutela legale pro bono, per esempio, o un'operazione in ospedale, o un supporto psicologico.

Contemporaneamente continua la sua opera di denuncia delle violazioni dei Diritti Umani delle persone in movimentopresso diverse istituzioni greche e internazionali, e attraverso Report a carattere nazionale e internazionale.

Se fosse possibile racchiuderli in una descrizione, chi sono oggi i volontari nonviolenti di Operazione Colomba, che percorso seguono prima di “andare sul campo” e quanti sono stati in questi 33 anni?

Dal 1992 più di 3000 volontari/e hanno “abitato” più di 20 conflitti in Europa, Africa, Asia, America Latina. Oggi abbiamo sono 6 presenze attive: Palestina, Libano e Siria, Colombia, con le persone in movimento in Grecia, in Cile tra i Mapuche e in Ucraina.

Operazione Colomba è una proposta popolare, un progetto aperto a tutte e tutti (credenti e non) e non sono richiesti particolari requisiti curricolari. È invece imprescindibile la scelta per la nonviolenza, l’adesione piena alle attività proposte in zone di conflitto e l’attitudine a partecipare alla vita di gruppo. Ovviamente bisogna essere maggiorenni. È possibile partecipare alle presenze all'estero come volontari/e per brevi o lunghi periodi. I volontari e volontarie di “breve periodo” danno disponibilità a trascorrere da 1 a 3 mesi all'estero e a coinvolgersi in attività di sensibilizzazione, promozione e raccolta fondi in Italia, prima e dopo la partenza.
Prima di partire partecipano alla formazione di breve periodo, ne vengono organizzate 4 l’anno.
I volontari e le volontarie di “lungo periodo” danno una disponibilità a tempo pieno per diversi anni, con periodi all'estero e in Italia. È prevista una formazione più lunga rispetto a quella di breve, in cui vengono proposti anche momenti di condivisione e di vita di gruppo.
Alla formazione lunga si accede esclusivamente dopo aver fatto la formazione breve ed aver partecipato ad almeno un progetto all'estero.

La formazione ha una prima parte residenziale in presenza a Rimini e una seconda online.

La prima parte è fondamentale per conoscersi e capire se la proposta di Operazione Colomba può essere adatta alla persona. È molto concreta, attraverso simulazioni, studi caso, attività sulla gestione delle emozioni e prevede un coinvolgimento totale poiché durante i giorni in presenza si vive insieme, in una situazione logistica un po’ scomoda, in modo da sperimentare il più possibile la vita di gruppo e la condivisione diretta.

Oltre alla conoscenza della proposta di Operazione Colomba, la formazione, dà elementi di analisi nonviolenta dei conflitti e di teoria e spiritualità della nonviolenza. Vengono anche proposti training sull'intervento in zona di conflitto.

Nell’ultimo anno sono partiti una settantina di volontari e volontarie. Il 90% circa vengono da regioni del nord Italia. Poco più della metà ha meno di 30 anni, con una leggera prevalenza del genere femminile.

I tagli al mondo della solidarietà internazionale sono la cifra politica di questi ultimi anni. Assicurare la realizzazione dell’obiettivo dello 0,70% del reddito interno lordo per la solidarietà internazionale, quota in linea con gli obiettivi internazionalmente concordati dall’Italia, pensate possa diventare in futuro una realtà?

Quando sentiamo parlare di percentuali di PIL in questo momento, la prima cosa che ci viene in mente è la richiesta di innalzamento al 5% del PIL per la spesa militare entro il 2035.

Si partiva dal 2%, e dunque già un numero molto maggiore rispetto allo 0,70% per la solidarietà internazionale. Adesso la volontà di arrivare al 5% fa capire bene qual è l'idea che abbiamo di futuro, di come ci posizioniamo nel mondo, la visione del mondo e dei rapporti internazionali.

Per portare le spese militari al 5% del PIL, è evidente che sarà necessario tagliare da qualche parte… è triste ma anche facile presupporre che la voce “solidarietà internazionale”, che già prima era rilegata ad un ruolo “marginale” di questo quadro generale (nemmeno la cornice, forse il gancetto), sarà vittima di questi tagli.

Questo lo vediamo tutti i giorni, ad esempio, quando ci troviamo a cercare dei finanziamenti per le attività che svolgiamo.

Inoltre bisogna anche stabilire bene cosa intendiamo per “solidarietà internazionale”, perché siamo nell’epoca del washing anche dei termini (esp. missioni di pace...), dove si cambia spesso il senso alle parole: fra un po' all'interno della definizione “solidarietà internazionale”, potrebbero essere inserite attività che non hanno niente a che fare con quello che intendiamo noi!

(P.S. Tornando alla metafora del quadro: il gancetto è piccolo, sta dietro e non lo vede nessuno, ma occhio che se tolgono anche quello poi non sta più in piedi tutto il quadro!)

Grazie mille del vostro lavoro e della vostra disponibilità!

Alessandro Graziadei