sabato 28 giugno 2025

Il futuro è (era) in un volo d’ape

 

Quasi il 90% delle piante selvatiche da fiore ha bisogno di impollinatori, come api, vespe, farfalle, coccinelle, ragni, rettili, uccelli e anche mammiferi indispensabili per trasferire il polline da un fiore all'altro e completare la riproduzione. Queste piante sono fondamentali per il funzionamento degli ecosistemi e la conservazione delle specie e degli habitat e in generale della diversità biologica, che rappresenta la base della nostra esistenza e delle nostre economie. Anche nel processo di produzione alimentare oltre il 75% delle principali colture agrarie beneficia dell'impollinazione operata da decine di migliaia di specie animali (tra questi almeno 16 mila sono insetti) in termini di produzione, resa e qualità. Il volume di raccolti delle colture dipendenti dagli impollinatori è triplicato negli ultimi 50 anni e la produzione agricola mondiale direttamente associata all'impollinazione animale rappresenta un valore economico stimato tra i 235 e i 577 miliardi di dollari. Oggi però “I servizi ecosistemici di cui l’uomo e l’ambiente beneficiano ogni giorno grazie all’impollinazione sono a rischio poiché è in pericolo l’esistenza stessa degli impollinatori”. L'allarme non è certo nuovo, ma la situazione continua a peggiorare, come ha certificato negli scorsi mesi il WWF con la pubblicazione del dossier “Il futuro in un volo d’ape: perché salvare gli impollinatori significa salvare noi stessi”, realizzato nell’ambito della campagna Our FutureSecondo questo studio “Oltre il 40% degli impollinatori invertebrati rischia l’estinzione a livello globale, mentre in Europa, quasi la metà degli insetti impollinatori è in declino e un terzo è minacciato di estinzione”.

Il documento, che accende i riflettori su una crisi ambientale tanto silenziosa quanto drammatica, mette in evidenza come la sopravvivenza di api, farfalle, bombi e altri insetti impollinatori sia sempre più minacciata da una serie di fattori che spesso agiscono in sinergia tra loro. Tra i principali troviamo la distruzione, degradazione, perdita e frammentazione degli habitat, l'inquinamento da pesticidi prodotti da modelli agricoli insostenibili, i cambiamenti climatici e la diffusione di specie aliene invasive. Con la sopravvivenza degli impollinatori è però a rischio anche la nostra. Alcuni alimenti di largo consumo come ad esempio zucche e zucchine, mele, mandorle, pomodori, fragole e cacao dipendono in larga parte dall’impollinazione animale. Questo è quello che in gergo ambientale si definisce “servizio ecosistemico”, cioè un beneficio che la Natura ci dona gratuitamente. Come riporta il dossier del WWF, il valore economico dell’impollinazione è molto più elevato di quello derivante dai prodotti diretti. “Secondo uno studio pubblicato quest'anno su Environmental Health Perspectivesla drastica riduzione dell’impollinazione sta già contribuendo a circa 500.000 morti premature all’anno, a causa della diminuzione di frutta, verdura e frutta secca nella dieta. Uno squilibrio nella disponibilità di cibi sani, ricchi di vitamine e micronutrienti, come quelli garantiti dagli impollinatori, può aumentare l’incidenza di malattie croniche come diabete, tumori e patologie cardiovascolari”. 

Per il WWF “A fronte di un problema così grave, le risposte politiche si dimostrano ancora troppo deboli”. Nel 2018 l’Unione europea ha vietato l’uso all’aperto di tre neonicotinoidi – pesticidi noti per i loro effetti devastanti sulle api – ma resta consentito il loro utilizzo nelle serre e in molti Paesi, tra cui l’Italia, sono state concesse deroghe che ne permettono ancora l’impiego. Inoltre “Il recente ritiro da parte della Commissione UE del Regolamento sull’uso sostenibile dei pesticidi (SUR) ha rappresentato un passo indietro tanto nella protezione della biodiversità quanto, come conseguenza, nella tutela del nostro diritto alla salute”. Per Eva Alessi, responsabile sostenibilità del WWF Italia “È indispensabile un cambio di rotta decisivo che in primis deve essere definito dalle nostre istituzioni: vietare le sostanze chimiche più dannose, aumentare le superfici agricole dedicate alla conservazione della natura, sostenere l’agricoltura biologica e promuovere l’agroecologia”. L’approvazione della Nature Restoration Law da parte dell’Unione europea rappresenta un passo cruciale. Questa legge punta a ripristinare almeno il 20% delle aree terrestri e marine dell’UE entro il 2030, inclusi gli habitat agricoli essenziali per gli impollinatori.“In particolare l’articolo 10 del Regolamento impegna tutti gli Stati membri dell’Unione europea a mettere in atto azioni per fermare il declino degli insetti impollinatori (Apoidei, Sirfidi e Lepidotteri) e rende obbligatoria la realizzazione di un monitoraggio costante per verificare lo stato di conservazione delle diverse popolazioni di insetti”. Per il WWF, è fondamentale che questa norma non rimanga un intento perché “Senza interventi strutturali e vincolanti, il declino degli impollinatori continuerà a minacciare il nostro futuro alimentare e ambientale”. Per questo il WWF Italia, da oltre 40 anni impegnato nella tutela degli impollinatori, rilancia l’appello a istituzioni, imprese e cittadini: “è il momento di agire”. A dirlo sono anche gli esperti dell'ISPRA che ci hanno recentemente ricordato come “In Italia sin dal 2003 sono stati segnalati eventi significativi di moria delle api, concentrati soprattutto in primavera, durante le fioriture, a causa dei trattamenti massivi con pesticidi operati sui suoli agricoli. La popolazione delle colonie di api in Europa, come in altre regioni del mondo, è in drastica diminuzione. Secondo una rete di ricerca internazionale, coordinata dall'Istituto di apicoltura dell'Università di Berna, la morte in massa di api in Europa è un problema grave e in aumento di anno in anno”.

Gli esperti dell'Istituto hanno inoltre ipotizzato che la tendenza negativa, sebbene fluttuante, possa essere potenzialmente maggiore nel lungo termine visto che “I dati disponibili evidenziano infatti un aumento dal 5% - 10% al 25% - 40% nelle morti invernali delle api e crescenti morie durante il periodo primavera-estate”. Ma per Greenpeace fermare l'estinzione di questi preziosi insetti è ancora possibile anche con iniziative apparentemente piccole e locali, ma capaci di combattere il declino della biodiversità come ad esempio il progetto “Bosco della api”. Il primo Bosco delle Api è nato a Roma nel 2020, anno in cui la pandemia ha reso evidente la necessità di rendere le città più sostenibili e resilienti ai cambiamenti climatici. Tre anni dopo, con la collaborazione della cooperativa sociale Agropolis, il progetto è stato replicato anche a Cremona, nel cuore della Pianura Padana, una delle aree più inquinate d’Europa. Si tratta di vere e proprie food forest, un sistema agroforestale multifunzionale che simula, su piccola scala, un ecosistema boschivo su più strati. In questo ambiente, piante da frutto, erbe medicinali, bacche, ortaggi e fiori convivono sinergicamente con piante spontanee e animali, creando un habitat ricco di biodiversità. Ambienti che per Greenpeace non solo favoriscono la conservazione della natura e la salvaguardia degli impollinatori, "Ma forniscono anche spazi per la ricreazione, l'istruzione e la costruzione di comunità”.

Alessandro Graziadei

sabato 14 giugno 2025

La plastica è per sempre...

 

Si legge l'etichetta e la si mette fiduciosi tra gli imballaggi leggeri, convinti che anche se consumiamo della plastica, questa verrà riciclata. Ma è davvero così? In realtà solo uno scarso 10% della plastica prodotta in tutto il mondo è realizzata con materiale riciclato, mentre la maggior parte è ancora prodotta da combustibili fossili, principalmente carbone e petrolio. Un impronta ecologica quella della plastica che è ancora oggi responsabile di circa il 4% delle emissioni globali di gas serra. A metterlo nero su bianco non sono i nemici dell'economia, dei dogmatici e ideologici ambientalisti dalla crociata facile, come vengono troppo spesso definiti gli attivisti green da politici interessati solo a proteggere le potenti e ricche lobby industriali e non certo il nostro Pianeta, ma lo studio Complexities of the global plastics supply chain revealed in a trade-linked material flow analysis” realizzato dall’Università Tsinghua di Pechino e pubblicato lo scorso aprile sulla rivista scientifica Communications Earth & Environment. Questi ricercatori hanno analizzato dei campioni dei 400 milioni di tonnellate di plastica prodotte nel solo 2022 e di queste, “solo 38 milioni di tonnellate, pari al 9,5%, sono state riconosciute come ottenute da materiali riciclati”. Nel dettaglio, il 36,2% dei rifiuti plastici è stato inviato direttamente in discarica mentre il 22,2% è stato incenerito. Solo il 27,9% dei rifiuti è stato avviato al riciclo, ma di questi, il solo 50% è stato effettivamente riciclato, il 41% incenerito e l’8,4% smaltito in discarica.

Per i ricercatori di Pechino “Il riciclaggio della plastica è spesso complicato dalla presenza di scarti alimentari o di etichette sugli imballaggi, o dalla diversità e complessità degli additivi utilizzati nei materiali”. Un altro ostacolo evidenziato è di tipo economico: “Spesso è più conveniente produrre plastica vergine che riciclarla. Ma non è la soluzione giusta dal punto di vista della tutela ambientale”. Questo interessante quanto allarmante studio mette in evidenza anche altri aspetti relativi all’utilizzo e al riciclo di questo materiale. Ad esempio certifica che mentre la Cina è il più grande produttore e consumatore di plastica, sono gli americani che consumano più plastica pro capite, l’equivalente di 216 kg a persona all'anno e sono anche il paese che ha registrato uno dei tassi di riciclaggio più bassi, pari ad appena il 5%.  Nel testo viene sottolineato, inoltre, che milioni di tonnellate finiscono ogni anno nell'ambiente o negli oceani, sotto forma di microplastiche che si infiltrano nei corpi idrici, negli alimenti e persino nel corpo umano. Nonostante il 40% dei rifiuti plastici globali sia finito in discarica nel 2022, per i ricercatori cinesi “Si registra un miglioramento rispetto al 79% stimato tra il 1950 e il 2015”. Tuttavia l’aumento crescente dell’incenerimento della plastica contemporaneo solleva non poche preoccupazioni anche per le emissioni dei gas serra. I dati indicano una transizione lenta verso un modello economico circolare, con notevoli opportunità di miglioramento nella gestione del ciclo di vita della plastica, ma per i ricercatori “Devono ancora migliorare le infrastrutture di riciclo, occorre ridurre l'uso di plastiche vergini e standardizzare le politiche globali per la gestione dei rifiuti”, tutte azioni urgenti ed essenziali per mitigare gli effetti ambientali della plastica.

Fino a quando questi passaggi non saranno fatti su scala globale il rischio è che il riciclo della plastica sia una truffa, una frode architettata da chi ha interessi a mantenere in piedi lo status quo fatto di inquinamento "per sempre". Era questa del resto la tesi ben documentata del Center for Climate Integrity (CCI), un'associazione statunitense che lo scorso anno aveva pubblicato il report “La frode del riciclo della plastica. Come Big Oil e l’industria della plastica hanno ingannato il pubblico per decenni e causato la crisi dei rifiuti di plastica”. La ricerca, che pur senza esplicitarlo sembra prendere in considerazione principalmente il mondo degli imballaggi, prendeva le mosse da un’ampia serie di documenti per sostenere che il riciclo della plastica, almeno negli USA, non è altro che uno specchietto per le allodole utile a garantire alle imprese dei fossili e della plastica la libertà necessaria a perpetuare i loro affari, in barba agli effetti per l’ambiente e per la vita sul pianeta. “Alla base della crisi dei rifiuti di plastica - affermava la CCI - c’è una campagna decennale di frodi e inganni sulla riciclabilità della plastica. Nonostante sappiano da tempo che il riciclo della plastica non è sempre né tecnicamente né economicamente sostenibile, le aziende petrolchimiche – da sole e attraverso le loro associazioni di categoria e gruppi di facciata – si sono impegnate in campagne di marketing e di educazione pubblica fraudolente, volte a ingannare il pubblico sulla fattibilità del riciclo della plastica come soluzione ai rifiuti plastici”. Queste campagne e le attività di lobbying avrebbero “di fatto protetto e ampliato i mercati della plastica, bloccando al contempo l’azione legislativa o normativa che avrebbe dovuto affrontare in modo significativo i rifiuti e l’inquinamento da plastica”.

Il lavoro del Center for Climate Integrity sostine quindi che “La maggior parte delle materie plastiche non può essere riciclata, non lo è mai stata e non lo sarà mai”, e questo per svariati motivi. Tra questi i più evidenti sono che “Alcuni tipi di plastica non hanno mercati finali e quindi sono impossibili da riciclare”. Già nel 1991 l’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (EPA) sosteneva che “sembra che attualmente solo due tipi di plastica possano essere considerati per la trasformazione in oggetti di alta qualità, il PET e l’HDPE”, in particolare quelli provenienti dalle bottiglie e “Questo rimane vero più di 30 anni dopo”, affermava il report. Esiste poi il problema della grande varietà di materiali raccolti sotto l'etichetta ombrello della plastica, una varietà che comporta serie difficoltà di selezione dalla raccolta differenziata, senza contare poi “Il costo più alto della materia prima seconda rispetto a quella vergine”, “La degradazione dei polimeri durante il riciclo della plastica e la presenza di additivi che ne limitano la riciclabilità”. In sintesi secondo la CCI per decenni le aziende petrolchimiche e l’industria della plastica sono state a conoscenza dei limiti tecnici ed economici che rendono la plastica non riciclabile e non sono riuscite a superarli, ma nonostante questa consapevolezza, “Hanno continuato ad aumentare la produzione, portando avanti una campagna ben coordinata per ingannare i consumatori, i politici e le autorità di regolamentazione sul riciclaggio della plastica”. Anche se in Italia il Consorzio Nazionaleper la Raccolta, il Riciclo e il Recupero degli Imballaggi in Plastica (COREPLA) vanta risultati decisamente migliori è solo consumando meno plastica e scegliendo prodotti il più possibile sfusi che possiamo dare un nostro immediato e tangibile contributo alla lotta contro l'inquinamento da plastica.

Alessandro Graziadei

sabato 7 giugno 2025

Il nostro stress idrologico

 

La maggior parte del Portogallo, della Spagna, della Francia occidentale e centrale ha vissuto un inverno piovoso e nevoso, mentre il nord Italia  ha avuto un inizio di primavera più umido e, in diverse regioni, le forti piogge di marzo e aprile hanno causato anche situazioni da allerta rossa e riportato la neve in quota. Ma non è stato così in tutta Europa e il quadro complessivo del Vecchio continente resta sotto il segno delle scarse precipitazioni. La mancanza di precipitazioni e temperature superiori alla media hanno fatto sì che l'Europa centrale, orientale e sud-orientale, così come la regione del Mediterraneo orientale, stiano vivendo un aumento dell’allarme siccità e condizioni simili stanno emergendo ultimamente anche nell'Europa nord-occidentale. Nel rapporto Drought in Europe – April 2025 pubblicato dal Joint research centre dell’Unione europea emerge che “Il clima è più caldo della media stagionale, con precipitazioni scarse in gran parte del continente dall’inizio dell’anno e una significativa diminuzione dei flussi fluviali”. Le previsioni del rapporto, che arrivano fino a fine giugno, mostrano condizioni più secche della media nell'Europa settentrionale e occidentale, e ci sono crescenti preoccupazioni per l’impatto che la situazione avrà quest'estate sugli ecosistemi. 

Tra gennaio e marzo 2025, la maggior parte del continente ha registrato condizioni più calde della media e all’inizio di aprile gli effetti della siccità sono diventati più evidenti nei fiumi europei. Vale la pena sottolineare, osservano i ricercatori del Jrc, “Come in poche settimane le condizioni lungo il fiume Reno siano cambiate in modo significativo, con i livelli dell'acqua in forte calo all'inizio di aprile, specialmente nel bacino superiore. Dopo un inverno secco e una primavera non sufficientemente piovosa, il flusso ridotto sta già influenzando la navigazione fluviale nel Medio Reno”. La Germania settentrionale, i paesi del Benelux, la Danimarca, la Scandinavia meridionale e gran parte del Regno Unito e dell'Irlanda hanno registrato condizioni molto secche a marzo. Modelli simili sono stati visti nell'Ucraina meridionale e nella Turchia centro-orientale. Inoltre, “Mentre la vegetazione nella maggior parte dell'Europa sembrava sana, alla fine di marzo [...] Lo sviluppo precoce delle piante potrebbe mascherare delle vulnerabilità che potrebbero emergere presto, se le condizioni di siccità dovessero persistere nella stagione di crescita”. Anche se c'è una certa incertezza nella previsione, avverte il Jrc, a causa della variabilità dei diversi sistemi di modellazione utilizzati, quel che è probabile, concludono i ricercatori del Centro europeo, “È che i fiumi rimangano insolitamente bassi in tutta l'Europa orientale e il livello dell'acqua potrebbe scendere ancora di più di quanto calcolato ad oggi”. E in molte aree il basso flusso fluviale sta già influenzando l'agricoltura, i trasporti e anche la produzione di energia.

In Italia in particolare lo scorso marzo, l’equivalente idrico nivale ha fatto registrare un clamoroso -57%. Poi è arrivato un aprile generoso di neve al nord, ma con deficit persistenti in molte parti d’Italia e ampie divergenze territoriali. L'ultimo bollettino della Fondazione Cima che ha monitorato il quadro nazionale per mesi, segnala un buon recupero parziale, considerato che oggi siamo “solo” a -27% rispetto alla media stagionale. Francesco Avanzi, ricercatore nell’Ambito idrologia e idraulica di Fondazione Cima fa notare che “Ad aprile sul Po ha davvero nevicato molto. In sole 48 ore si è accumulato quasi un miliardo di metri cubi d’acqua in forma di neve, circa il 20% del totale medio stagionale” ma solo dieci giorni prima, “Una sola ondata di calore aveva già fatto fondere una quantità di neve anche maggiore. È il segno di una montagna in equilibrio instabile”. Sul bacino del Po, questa situazione ha comportato fluttuazioni severe dell’equivalente idrico nivale, con implicazioni importanti per la gestione delle risorse idriche nel breve e medio termine. Anche sull’Adige si osserva un recupero dell’equivalente idrico nivale con un -20%, un valore che rientra nella variabilità tipica del periodo. Tuttavia, il manto nevoso al Nord-Est è già in fase avanzata di fusione, e si prevede che il contributo ai corsi d’acqua locali prosegua ancora per poco. Sul bacino del Tevere, invece, la stagione nivale 2024/25 può dirsi già conclusa e non si tratta solo di una questione temporale. A fare la differenza è anche la quota. I dati mostrano come le aree sotto i 2000 metri di altitudine siano le più penalizzate. Tanto sulle Alpi quanto sugli Appennini, è proprio a queste altitudini che si accumula meno neve e sono queste le zone più vulnerabili a un clima più caldo e instabile, con piccole variazioni termiche che possono tradursi in grandi perdite di risorsa.

Se la neve è ormai in fusione o del tutto assente, è l’acqua nei bacini e nei suoli a raccontare lo stato di stress idrologico attuale almeno in una parte dello Stivale. Se al Centro-Nord il lago di Garda ha raggiunto livelli prossimi al massimo storico del periodo 1950–2015 a Sud, invece, la situazione è ben diversa. Dopo un anno segnato dalla siccità e un inverno povero di precipitazioni, gli invasi mostrano ancora livelli bassi. Anche le analisi dell’umidità del suolo nei primi 30 cm confermano il quadro: "Il Centro-Nord presenta livelli in media o superiori, mentre il Sud resta in difficoltà". Con l'estate alle porte non è una buona notizia perché se al Nord le condizioni sembrano allineate con le medie del periodo al Centro-Sud, invece, si confermano le criticità, accentuate da una stagione invernale che non ha fornito sufficiente apporto né nivale, né piovoso. Un quadro coerente con le valutazioni dello stato di severità idrica su scala nazionale elaborate da Ispra di concerto con le Autorità di bacino distrettuali secondo le quali sarà proprio il Sud l’area da monitorare con maggiore attenzione nei prossimi mesi, sia in termini di disponibilità idrica, sia per la possibile evoluzione verso condizioni di stress prolungato.

Alessandro Graziadei

sabato 31 maggio 2025

Fa troppo caldo, dalle Alpi all'Antartide!

 

Qualche anno fa i ricercatori di MeteoSvizzeraZAMG e Meteo-France, in una ricerca congiunta, hanno calcolato l’evoluzione del clima nelle Alpi fino al 2100, analizzando la variazione delle temperature, le precipitazioni e la copertura nevosa in base a tre scenari: una decisa protezione del clima secondo l’obiettivo di Parigi, un moderato contenimento o la prosecuzione dell’uso di energie fossili senza limitazioni. Indipendentemente dallo scenario, inverni con meno neve, estati calde e secche e precipitazioni più intense come accade in questi ultimi anni saranno fenomeni inevitabili e faranno si che le temperature nelle Alpi aumentino. Al di sopra dei 1000 metri però il riscaldamento è già più accentuato rispetto alle quote inferiori, soprattutto d’estate. Gli inverni stanno diventando più caldi e piovosi, la neve si scioglie più velocemente, soprattutto sotto i 1500 metri e si delinea una tendenza generale verso precipitazioni più intense, con un aumento dell’intensità tra il 5 e il 20% in base allo scenario. Come se non bastasse la copertura vegetale nelle Alpi al di sopra del limite degli alberi è aumentata del 77% rispetto al 1984. Le piante crescono generalmente più fitte e più alte e conquistano nuovi spazi alpini per via del prolungamento del periodo vegetativo, e quindi di crescita, dovuto alle temperature più calde e alla variazione delle precipitazioni. Ma non è una bella notizia perché la straordinaria ricchezza della flora alpina è in pericolo: le piante alpine, altamente specializzate, si sono adattate alle condizioni estreme delle montagne, ma non sono molto competitive e con l’innalzamento delle temperature, perdono i loro vantaggi e vengono soppiantate da altre piante sacrificando una significativa quota di biodivesrità alpina!.

La protezione del clima globale è e sarà sempre più determinante per l’entità del riscaldamento climatico nelle Alpi e per la possibilità di stabilizzarlo o meno, ha concluso lo studio, che sembra aver anticipato l'evoluzione anche di un'altra regione fredda in pericolo: quella antartica. La Penisola Antartica, infatti, come molte altre regioni polari, si sta riscaldando più velocemente della media globale, con eventi di caldo estremo che in stanno diventando sempre più comuni. A dirlo è lo studio “Sustained greening of the Antarctic Peninsula observed from satellites”, pubblicato a fine 2024 su Nature Geoscience da un team di ricercatori delle università di Exeter, dell’Hertfordshire e del British Antarctic Survey (BAS), che ha dimostrato come negli ultimi 40 anni la copertura vegetale della Penisola Antartica è più che decuplicata. Per misurare l'entità e la velocità di questo fenomeno in atto nella Penisola Antartica in risposta al cambiamento climatico, i ricercatori britannici hanno utilizzato dati satellitari, scoprendo che “La copertura vegetale nella Penisola è aumentata da meno di un chilometro quadrato nel 1986 a quasi 12 chilometri quadrati entro il 2021” e “Un'accelerazione di questa tendenza al rinverdimento di oltre il 30% negli ultimi anni (2016-2021) rispetto al periodo di studio complessivo (1986-2021), con un incremento annuo di oltre 400.000 metri quadrati durante questo arco di tempo”. Già nel 2017 lo studio “Widespread biological response to rapid warming on the Antarctic Peninsula”, pubblicato nel 2017 su Current Biology aveva esaminato campioni prelevati da ecosistemi dominati dal muschio nella Penisola Antartica, trovando prove del fatto che i tassi di crescita delle piante erano aumentati drasticamente negli ultimi decenni.  

Ora questo nuovo studio si avvale di immagini satellitari, le più adatte per confermare che è in atto un'accelerazione una tendenza al rinverdimento diffuso in tutta la Penisola Antartica. Per Thomas Roland, dell'università di Exeter e autore di entrambi gli studi, “Le piante che troviamo nella Penisola Antartica, per lo più muschi, crescono forse nelle condizioni più difficili della Terra. Il territorio è ancora quasi interamente dominato da neve, ghiaccio e roccia, con solo una piccola frazione colonizzata dalla vita vegetale. Ma quella piccola frazione è cresciuta in modo esponenziale, dimostrando che anche questa vasta e isolata area selvaggia è influenzata dal cambiamento climatico antropogenico”. Un altro degli autori del nuovo studio, Olly Bartlett, dell'università dell'Hertfordshire, fa notare che “Man mano che questi ecosistemi si consolidano, e il clima continua a riscaldarsi, è probabile che l'entità dell'inverdimento aumenterà. Il suolo in Antartide è per lo più povero o inesistente, ma questo aumento della vita vegetale aggiungerà materia organica e faciliterà la formazione del suolo, aprendo potenzialmente la strada alla crescita di altre piante. Questo aumenta il rischio che arrivino specie non autoctone e invasive, probabilmente trasportate da ecoturisti, scienziati o altri visitatori del continente”.

Questi studi sottolineano l’urgente necessità di ulteriori ricerche per stabilire i meccanismi climatici e ambientali specifici che stanno guidando la tendenza al “greening”. Per il gruppo di ricercatori “La sensibilità della vegetazione della Penisola Antartica ai cambiamenti climatici è ormai chiara, e in caso di futuro riscaldamento antropogenico, potremmo assistere a cambiamenti fondamentali nella biologia e nel territorio di questa regione iconica e vulnerabile. Le nostre scoperte sollevano serie preoccupazioni sul futuro ambientale della Penisola Antartica e del continente nel suo complesso”. Quindi per proteggere l'Antartide e altre regioni a rischio come le Terre Alte alpine, dobbiamo comprendere questi cambiamenti, identificare con precisione le cause e soprattutto le possibilità residuali di mitigazioine di questi fenomeni che nonostante i futuri impegni per il clima (qualora ce ne siano di significativi...) sono destinati per inerzia a non fermarsi molto facilmente. Anche per questo il team di esperti e ricercatori che ha elaborato i dati satellitari sull'Antartide sta ora studiando in che modo i territori recentemente deglaciati vengono colonizzati dalle piante e come questo processo potrebbe evolversi in futuro, perché prevenire è sempre meglio che curare!

Alessandro Graziadei

sabato 24 maggio 2025

I clima-demotivati


Secondo un sondaggio realizzato da YouTrend il 7 maggio, in occasione dell’edizione 2025 di Echi, evento dedicato alla comunicazione ambientale, è emerso che il 42% del campione di italiani intervistati da questo content hub digitale ritiene che le persone intorno a loro siano meno motivate ad agire contro il cambiamento climatico rispetto a qualche anno fa. La percezione negativa, di un problema riconosciuto come drammaticamente reale, si estende anche ad altri attori sociali: il 43% indica un calo di impegno da parte delle aziende, il 49% giudica meno incisivo l’impegno delle istituzioni, ma il dato più allarmante è quello che riguarda la sfera personale perché all'interno del campione uno su quattro, il 25%, dichiara di sentirsi meno motivato in prima persona a contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico rispetto al passato. Come mai? A determinare questo clima di disillusione concorrono diversi fattori tra i quali principalmente le ragioni economiche: il 30% dei demotivati teme effetti negativi sull’occupazione, mentre il 24% percepisce un rischio di svantaggio competitivo per l’Europa rispetto alla Cina. Un ulteriore elemento critico è il senso di impotenza: il 31% degli intervistati individua tra le cause della propria demotivazione la dimensione troppo vasta del problema, che sembra sfuggire al controllo del singolo. A questo si aggiunge una comunicazione percepita come eccessivamente allarmista, indicata dal 23% come fattore che contribuisce al calo di motivazione visto che il 77% degli intervistati afferma che si sentirebbe più motivato se il messaggio si concentrasse più sulle possibili soluzioni piuttosto che sui problemi.

Una narrazione costruttiva e orientata al cambiamento positivo sembra quindi fondamentale per riaccendere l’impegno almeno di quel il63% di intervistati che vorrebbe una comunicazione più focalizzata sui benefici economici della transizionee quel 61% che apprezzerebbe di più un approccio meno basato sulla paura. Una paura che tuttavia è ormai latente quando si parla di clima visto le drammatiche conseguenze portate in dote in Italia dagli eventi climatici estremi. L'Italia è in buona compagnia, purtroppo, visto che nel luglio del 2024 tutta l’Europa sudorientale ha registrato la più lunga ondata di caldo mai registrata, durata 13 giorni consecutivi. Sono indicazioni estrapolate dall’ultimo report (relativo al 2024) dello “Stato europeo del clima” il rapporto congiunto del Servizio per il cambiamento climatico di Copernicus e dell’Organizzazione meteorologica mondialedal quale emerge in modo chiaro che Dagli anni ‘80, l’Europa si è riscaldata a una velocità doppia rispetto alla media globale, diventando il continente che si riscalda più rapidamente sulla Terra. Ciò è dovuto a diversi fattori, tra cui la percentuale di territorio europeo nell’Artico, che è la regione che si riscalda più rapidamente sul pianeta, i cambiamenti nella circolazione atmosferica che favoriscono ondate di calore estive più frequenti e la riduzione delle emissioni di aerosol”.

Una situazione che ha generato conseguenze immediatamente tangibili: le tempeste lo scorso anno sono state spesso molto severe e le inondazioni diffuse su vaste aree, causando almeno 335 vittime e colpendo circa 413.000 persone. Secondo Friederike Otto, senior lecturer del Centre for Environmental Policy e direttrice del World weather attribution, “Questo rapporto mette a nudo le sofferenze che la popolazione europea sta già subendo a causa di fenomeni meteorologici estremi. Ma siamo sulla buona strada per raggiungere i 3°C entro il 2100. Basta pensare alle inondazioni in Spagna, agli incendi in Portogallo o alle ondate di calore estive dello scorso anno per capire quanto sarebbe devastante questo livello di riscaldamento. In un'economia globale volatile, è francamente folle continuare a fare affidamento sui combustibili fossili importati - la principale causa del cambiamento climatico - quando le energie rinnovabili offrono un’alternativa più economica e pulita. L’Ue non può più permettersi di mettere in secondo piano i propri impegni in materia di clima”. Non meno allarmanti sono le considerazioni espresse da Antonello Pasini, fisico del clima, Istituto sull’Inquinamento Atmosferico del Cnr: “Gli ultimi due anni sono stati particolarmente critici e ciò può essere dovuto anche al combinarsi di una variabilità naturale del clima con le forzanti antropiche. Tuttavia queste ultime, in particolare le combustioni fossili con emissioni di gas a effetto serra, la deforestazione e in parte un'agricoltura non sostenibile, continuano ad aumentare a livello globale, con una impronta umana sul riscaldamento che non accenna a diminuire. In questa situazione, occorre sicuramente adattarsi agli eventi estremi che, data l'inerzia del clima, ci ritroveremo anche nei prossimi decenni, ma dobbiamo anche agire rapidamente per la mitigazione e la riduzione drastica delle emissioni, altrimenti potremmo giungere a scenari in cui sarebbe difficilissimo difendersi con l'adattamento”.

Dall’indagine emerge anche che non siamo di fronte a un fenomeno che possa considerarsi isolato, bensì a un trend ben preciso dovuto al riscaldamento globale. Ma mentre l'Europa dovrebbe preoccuparsi, ma non sempre (almeno nel caso italiano) è motivata, i cinesi hanno annunciato che grazie alle nuove installazioni di rinnovabili la loro capacità di energia eolica e solare ha superato per la prima volta quella dell'energia termica, alimentata soprattutto dal carbone. Nel primo trimestre 2025, infatti, “La capacità di generare energia eolica e fotovoltaica ha toccato i 74,33 milioni di kilowatt, portando la capacità installata cumulativa a 1,482 miliardi di kilowatt”, ha riferito nei giorni scorsi l'Organismo nazionale per l'energia cinese. La Cina è tutt'ora il primo emettitore mondiale di gas serra causa del cambiamento climatico, ma si è impegnata a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060 e non ci resta che sperare che almeno loro siano seriamente motivati a farlo!

Alessandro Graziadei


sabato 17 maggio 2025

Sostenibilità vs produttività?

 

C'è un'idea diffusa in molti partiti e ambienti politici, non solo italiani, ed è quella che la sostenibilità ambientale sia un ostacolo alla produttività, una sorta di “decrescita infelice” che potrebbe minare la competitività di molti settori industriali e purtroppo tra il PIL e l'ambiente molta mala politica ha ben chiaro quali siano gli interessi (elettorali) da difendere. In realtà non è così! Migliorare la sostenibilità ambientale della propria attività conviene alle aziende italiane e non solo per una questione di sicurezza o di risparmi sul fronte delle calamità naturali. Solo considerando il “rischio ambientale” se si dovesse essere costretti a fare una scelta tra sostenibilità e produttività non ci dovrebbero essere dubbi visto a quanto ammontano a livello mondiale e italiano i danni economici provocati dagli eventi meteo estremi, resi ancora più frequenti e devastanti dalla crisi climatica, e quanto tali costi siano diventati drammatici in termini di perdita di vite umane. Ma anche escludendo una scelta motivata dai soli rischi ambientali, a certificare che occuparsi dei livelli di inquinamento e di emissioni, di gestione efficiente di energia e di trasporti sostenibili convenga anche dal punto di vista dei guadagni aziendali, è stata la “Statistica Focus” di Istat denominata “Sostenibilità ambientale e performance economica delle imprese manifatturiere” relativa al 2022. Per questa indagine pubblicata il 5 maggio scorso e legata al solo comparto della manifattura “Sono 39mila le aziende con almeno 10 addetti che dichiarano di avere realizzato nel 2021-2022 almeno un’azione volta a migliorare la sostenibilità ambientale della propria attività, pari al 59% del totale”. Si tratta di aziende che impegnano circa 2 milioni di addetti (75,4%) e producono 217 miliardi di valore aggiunto (81,6%) pari al 70,9% del totale della manifattura. 

Utilizzando le informazioni derivanti dal Censimento permanente delle imprese tra il 2018 e il 2022, unitamente ai dati economici forniti dal Registro statistico delle imprese attive, l’Istat in questa “Statistica Focus” sul manifatturiero offre un quadro dettagliato di quel che stanno facendo le aziende italiane in termini di sostenibilità e chiarisce dati alla mano che occuparsi dell’impatto ambientale conviene alle aziende. Si scopre così che in Italia il monitoraggio dell’inquinamento ambientale è l’azione più diffusache la quota di imprese che utilizzano materiali riciclati è un 20,7% delle imprese con almeno 10 addetti e che sono 27mila le imprese con almeno 10 addetti che hanno sostenuto investimenti per una gestione più efficiente e sostenibile dell’energia e dei trasporti (42,0% del totale). Tra queste l’installazione di macchinari, di impianti o di apparecchi ad alta efficienza energetica (61,9%) e per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili (42,0%) sono le azioni più diffuse, soprattutto tra le grandi imprese con 250 addetti e oltre. Sono invece i settori della farmaceutica, della chimica e degli articoli in gomma e plastica che registrano l’incidenza più alta di imprese (oltre il 72%) che hanno realizzato almeno un’azione volta a migliorare l’impatto ambientale, e sono più di un 52% quelle che hanno fatto almeno un investimento per la gestione efficiente e sostenibile dell’energia e dei trasporti.  

Ma le strategie di sostenibilità messe in campo si concentrano anche su altri aspetti come il monitorare i consumi idrici nel 29,9% dei casi e nel 20,9% nel valutare l’impatto ambientale dei propri fornitori, sia nazionali che internazionali. Meno diffuse, ma comunque rilevanti, sono le pratiche di riutilizzo e riciclo delle acque di scarico con un 15,5% e la predisposizione del Documento per la rendicontazione non finanziaria, adottato o in fase di adozione dal 5,9% delle imprese. Mentre le imprese del Nord-Ovest, Nord-Est e Mezzogiorno registrano in media tre azioni virtuose ciascuna, nel Centro si scende a due, e le aziende che riescono a mettere in atto più di cinque interventi "green" rappresentano il 15,9% nel Nord-Ovest, il 14,4% nel Mezzogiorno, il 13,7% nel Centro e il 13,2% nel Nord-Est. Indipendentemente dalla collocazione geografica, le grandi imprese si distinguono quasi sempre per un impegno più ampio sul fronte della sostenibilità ambientale, con una media di cinque azioni per azienda, contro le due o tre registrate dalle medie e piccole imprese. Inoltre, oltre la metà delle grandi imprese, il 52,1%, ha realizzato più di cinque interventi, una percentuale che scende al 25% tra le medie e al 10,4% tra le piccole.

Alla luce di tutti questi dati l'Istat "Conferma la presenza di una relazione positiva tra sostenibilità e produttività [...] soprattutto in connessione all’utilizzo di fonti rinnovabili ed all’efficientamento energetico”. L’Istat ci ricorda anche che questa scelta non dovrebbe essere un'opzione, ma una “strada obbligata” visto che che la transizione energetica, la riduzione delle emissioni inquinanti e l’utilizzo di tecnologie pulite rientrano a pieno titolo tra gli obiettivi strategici delle politiche economiche e industriali definite a livello nazionale ed europeo. In particolare, la possibilità di conciliare l’adozione di misure di sostenibilità ambientale con adeguati livelli di performance economica delle imprese rappresenta uno degli elementi centrali dell’attuale dibattito in corso, anche secondo l'Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile – AsviS e il suo Rapporto di Primavera 2025presentato lo scorso 7 maggio a Milano all’evento inaugurale del Festival dello Sviluppo Sostenibile 2025 

Con il titolo “Scenari per l’Italia al 2035 e al 2050. Il falso dilemma tra competitività e sostenibilità”, realizzato in collaborazione con Oxford Economics e contenente, per la prima volta anche i dati per i diversi comparti economici, il rapporto di AsviS dimostra che una riconversione “green” del sistema produttivo nazionale potrebbe registrare benefici già al 2035, con il Pil che potrebbe essere superiore dell’1,1% rispetto a quello dello scenario di base e il tasso di disoccupazione potrebbe diventare inferiore di 0,7 punti percentuali. Il trend positivo continuerebbe successivamente e nel 2050 il Pil sarebbe superiore dell’8,4% a quello tendenziale, grazie al rallentamento del riscaldamento globale, all’innovazione e all’aumento dell’efficienza energetica, che contribuirebbero anche a ridurre la spesa per i danni ambientali e ad aumentare le entrate fiscali. In questo modo, nonostante l’aumento degli investimenti pubblici, si registrerebbe anche un miglioramento del rapporto debito pubblico/Pil. Anche per AsviS emerge quindi un dato molto chiaro: "La sostenibilità conviene, anche sul piano economico". La scelta per la decarbonizzazione e per l’economia circolare offre al nostro Paese un novero di opportunità, che ci dimostrano la “falsa contrapposizione tra sostenibilità e competitività”, frutto più di narrazioni corporative e poco lungimiranti, che dell’effettivo stato delle cose.

Alessandro Graziadei

sabato 10 maggio 2025

“La questione morale del nostro tempo”

Come ormai sappiamo l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità. Sottoscritta il 25 settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite, e approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU, l’Agenda è costituita da 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile. Tra questi l'Obiettivo 16 cerca di “Promuovere società pacifiche e più inclusive; offrire l’accesso alla giustizia per tutti e creare organismi efficienti, responsabili e inclusivi a tutti i livelli”, un target ambizioso e complesso che Pace per Gerusalemme. Il Trentino per la Palestina dal 2001 ha preso molto sul serio impegnandosi per affermare le ragioni della pace, del dialogo e della convivenza in quel luogo reale e simbolico che è la terra di Palestina-Israele. Ne abbiamo parlato con Pier Francesco Pandolfi presidente di questa realtà nonviolenta trentina!

Grazie mille del vostro tempo e della vostra disponibilità. Ci raccontato quando, come e perché nasce Pace per Gerusalemme?

Pace per Gerusalemme si è costituita nel 2001, in piena seconda Intifada, su impulso di un gruppo molto variegato e composito che comprendeva singole attiviste ed attivisti, sindacati, amministrazioni comunali. In quel momento emergeva già chiaramente che gli accordi di Oslo del 1993 erano stati una trappola per il popolo palestinese: la campagna di pulizia etnica in Cisgiordania procedeva a passo spedito, Arafat era sotto sequestro -e lo sarebbe stato fino alla morte nel 2004- in una Ramallah occupata militarmente da Israele, di lì a poco sarebbe iniziata la costruzione del muro dell’apartheid. La reazione popolare palestinese, sia nonviolenta che armata, fu una scossa e una chiamata all’azione per le coscienze solidali in tutto il mondo, Trentino compreso.

Sul vostro sito si legge che “Quello che accade in Palestina è, come ebbe a dire Nelson Mandela, - la questione morale del nostro tempo –”. Quali sono le aree geografiche dove operate e perché la storia e l’attualità di questa terra è importante anche per noi trentini?

La nostra associazione ha come focus principale la Palestina storica, ma allarga il suo sguardo a tutto il Vicino Oriente e al Mediterraneo. Crediamo che l’origine del sionismo, l’instabilità della regione, il fenomeno migratorio attuale siano tutte e questioni postcocoloniali interconnesse tra loro, e per questo ci riguardino fortemente come europei e come nazione che si affaccia sul Mediterraneo. Il Trentino ha una storia di solidarietà nei confronti dei popoli martoriati da conflitti, forse grazie alle memorie di guerra e di emigrazione che segnano la storia della provincia, ma anche per via di una felice politica di cooperazione decentrata che è stata, fino a qualche anno fa, un orgoglio trentino.

Teatro, film, arte e cultura, ma anche salute mentale, educazione… Sono questi solo alcuni degli ambiti che caratterizzano i vostri interventi. Ci raccontate di cosa vi occupate, quali sono i vostri interlocutori locali e quel è l’approccio e il filo conduttore dei vostri interventi?

Gli eventi culturali e di sensibilizzazione, sia nelle scuole che rivolte ad un pubblico più ampio, sono state in effetti le nostre attività principali negli ultimi anni. Crediamo che sia importante, in un’era di flussi di informazione distorti e parziali, poter riflettere su questioni morali, politiche e sociali attraverso i linguaggi artistici, che ci permettono di entrare in empatia con l’altro in modo più profondo e consapevole. Conoscere la cultura e la storia del popolo palestinese ci permette di meglio comprendere le sue attuali sofferenze. Cionondimeno, nonostante il già citato taglio ai fondi per la cooperazione, Pace per Gerusalemme ha continuato a curare rapporti diretti con la comunità palestinese e con i dissidenti israeliani, organizzando raccolte fondi e sostenendo direttamente progetti sul campo.

Conoscere l’altro, la sua memoria e la sua storia, il riconoscimento della Shoah al pari della Nakba sono tutte esperienze di riconciliazione e fraternità che anche grazie al vostro lavoro palestinesi e israeliani mettono in atto ogni giorno, spesso pagandone il prezzo di persona. Quanto è importante valorizzare tali esperienze, che sono perlopiù sconosciute, quando non apertamente contrastate?

La memoria e il mutuo riconoscimento sono passaggi fondamentali per una visione di lungo periodo per la giustizia riparativa e la pace. Le esperienze di attivismo per i diritti umani e le voci che si levano dalla società israeliana contro i massacri e le politiche di apartheid sono fondamentali e vanno amplificate, così come le storie di resistenza quotidiana che tutti i palestinesi, dal primo all’ultimo, possono raccontare riguardo alla ricerca dell’autodeterminazione.

La neo-storiografia israeliana al pari di quella palestinese contemplano questo tipo di approccio?

Va detto che la neostoriografia israeliana è una corrente culturale assolutamente minoritaria, che gode del riconoscimento di una frazione infinitesimale della società israeliana ed è osteggiata e criminalizzata dalla restante. Fortunatamente ci sono delle riflessioni, proposte e conclusioni comuni, come l’ipotesi dello stato  unico binazionale, tra alcuni ricercatori dissidenti israeliani e alcuni brillanti intellettuali e attivisti palestinesi. Va inoltre riconosciuto che, stante il plateale fallimento della soluzione a due stati e degli accordi di Oslo, si registra in Europa e in Italia un crescente interesse per queste proposte, con la pubblicazione di saggi, interviste, eccetera.

L’attualità dei dibattiti politici, pubblici e dei media italiani ci mostra che purtroppo si deve fare ancora molta strada per modificare l’atteggiamento mentale con cui noi italiani guardiamo a quella terra contesa. Sarà mai possibile superare un approccio alla questione israelo-palestinese fatto da opposte tifoserie?

Attualmente ci troviamo nel mezzo di una escalation senza precedenti delle politiche espansioniste e di pulizia etnica israeliane, che hanno portato organizzazioni internazionali come Amnesty International, Human Rights Watch e alcuni organismi ONU a formulare accuse di genocidio, che sono al vaglio della Corte Penale Internazionale. Qualsiasi posizione che non parta dalla richiesta di ristabilire il diritto internazionale, di porre fine all’assedio di Gaza, che non riconosca la negazione di cibo, acqua, medicinali e aiuti umanitari come crimini di guerra e contro l’umanità non è semplicemente una tifoseria: è passibile di complicità con un genocidio.

Vi siete occupati e vi occupate con particolare attenzione delle nuove generazioni. Che sensibilità esiste oggi nei giovani palestinesi e israeliani rispetto a questa volontà di conoscere l’altro, e secondo voi è ancora possibile “educare alla pace” dopo il 7 ottobre 2023?

Come detto poc’anzi, le priorità assolute in questo momento non possono che essere un cessate il fuoco permanente realmente rispettato da Israele, la cessazione dell’assedio, dell’uso della fame come arma e di tutte le punizioni collettive, la fine dell’invasione della Cisgiordania e delle politiche di apartheid. In breve, il ripristino del diritto internazionale. Solo da lì si potrà ricominciare a pensare al futuro e non solo alla sopravvivenza dei palestinesi. Speriamo di poter riuscire a vedere e a supportare questa nuova fase, dove il diritto ad una pace giusta e all’autodeterminazione possano finalmente esplicarsi. Certamente l’educazione alla pace e gli strumenti di giustizia riparativa saranno fondamentali per le future generazioni di palestinesi e israeliani.

Parlando di giovani, non solo di palestinesi e israeliani vi siete occupati. Numerosi incontri scolastici vi vedono occupati sul territorio ogni anno…

Assolutamente. Anche grazie al tramite del Forum trentino per la pace e i diritti umani, del quale facciamo parte da sempre, riceviamo costantemente inviti di studenti e professori delle scuole superiori, che ci richiedono approfondimenti e laboratori. Fortunatamente c’è un grande interesse e volontà di approfondimento sul tema Israele-Palestina, che però è anche lo specchio di una scarsissima presenza nei programmi scolastici della storia contemporanea. Ai ragazzi mancano gli strumenti per leggere i temi di attualità, connessi con gli equilibri e gli scenari politici del dopoguerra. Cerchiamo di colmare queste lacune sia con la didattica frontale sia attraverso l’utilizzo di mezzi audiovisivi, cortometraggi, docufilm, attività laboratoriali.

Tra le iniziative di sostegno diretto a progetti in Palestina, nel 2022 avete promosso una raccolta fondi per l’inaugurazione di un centro civico giovanile a Beit Ummar, nella Cisgiordania occupata, tra Betlemme e Hebron. Avete ricevuto fondi pubblici? Che prospettive vedete per questo tipo di progetti?

Da ormai una decina di anni le attività di Pace per Gerusalemme sono autofinanziate o attingono a piccoli bandi locali, che finanziano perlopiù attività svolte sul territorio trentino e con ricadute solo locali. Nel caso del centro culturale giovanile gestito dal Center for Freedom and Justice di Beit Ummar abbiamo optato per una campagna di crowdfunding. Questo tipo di microiniziative non ha un impatto paragonabile a quelli dei più strutturati progetti di cooperazione decentrata promossi dalla PAT. Promuovono oltretutto una intollerabile competizione tra piccole associazioni, sempre più escluse da finanziamenti pubblici e quindi costrette a rivolgersi in massa ad altri canali, come le fondazioni o i portali di crowdfunding, con risultati non sempre totalmente soddisfacenti. Sarebbe auspicabile che la PAT tornasse ad impegnarsi sul tema della cooperazione facendo proprio l’obiettivo dello 0,70% del reddito interno lordo per la solidarietà internazionale, quota in linea con gli obiettivi internazionalmente concordati dall’Itali.

Alessandro Graziadei

Articolo uscito anche su Abitarelaterra.org


 

sabato 26 aprile 2025

I grandi carnivori e il senso della misura

 

Il lupo, protetto sia dalla Convenzione di Berna che dalla Direttiva Habitat dell’Unione europea, sappiamo sarà in futuro meno protetto. È stata questa la conseguenza arrivata dal cambio di status della specie da "strettamente protetta" a "protetta" decisa in sede europea lo scorso dicembre. La decisione degli Stati membri dell'Unione presa alla riunione del Coreper con il via libera al declassamento dello status di protezione del lupo, approvata la scorsa settimana anche dagli Ambasciatori degli stati dell'Unione, potrebbe già da quest'anno mettere a rischio decenni di sforzi di conservazione ed è una significativa battuta d’arresto per quello che è stato uno dei più importanti successi europei in materia di conservazione della fauna selvatica: ossia il ritorno del lupo dopo un periodo in cui la specie ha rischiato l’estinzione. Su questo contestato abbassamento di status di protezione del lupo si deve però ancora pronunciare la Corte di giustizia dell’Unione, in seguito al ricorso presentato da cinque associazioni animaliste europee, alle quali altre 17 associazioni si sono unite con un atto di intervento. Ad inizio aprile, inoltre, un’analisi indipendente ha esaminato il rapporto scientifico utilizzato dalla Commissione europea come base per giustificare il declassamento del lupo europeo evidenziando come la decisione presa in sede europea “Non sia supportata da alcuna base scientifica per giustificare l’indebolimento della protezione del lupo, rendendo così la proposta della Commissione infondata e in contrasto con la scienza”. 

A seguito di questa scoperta, un gruppo di 34 Ong europee ha inviato una lettera alla Presidenza polacca dell’Unione evidenziando questa evidente mancanza di fondamenti scientifici e chiedendo di posticipare il voto del Parlamento europeo sulla questione fino alla risoluzione del ricorso presentato alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in merito al declassamento del lupo. Le associazioni hanno inoltre trasmesso alla Presidenza polacca una lettera indirizzata alla Commissione europea, in cui chiedono di essere coinvolte nel processo di consultazione sulla modifica della Direttiva Habitat dell’Unione. L'analisi condotta dal Dr. Mark Fisher, ricercatore, Università di Leeds nel Regno Unito e dal Dr. Ettore Randi, professore Aggiunto, Dipartimento di Bioscienze, Università di Aalborg, in Danimarca conclude che “Dati incerti e obsoleti non dovrebbero essere utilizzati per promuovere il declassamento della protezione della popolazione di lupi europei […] in nessun punto del rapporto Blanco viene raccomandata una revisione dello status di protezione del lupo”. Come ricorda LNDC Animal Protection, dall’annuncio dell’intenzione della Commissione di ridurre la protezione del lupo, in paesi come Italia e Spagna si è registrata un’impennata di episodi di uccisioni illegali. “La mancanza di chiarezza - sostengono gli attivisti - ha portato molte persone a credere che l’Unione stesse autorizzando l’abbattimento libero dei lupi. Questi episodi stanno ora ponendo seri rischi per la sicurezza delle persone, oltre a causare la morte ingiustificata di lupi, che si aggiungono alle migliaia già uccisi illegalmente ogni anno con armi da fuoco, veleno o vittime di incidenti stradali, per i quali non è stata ancora adottata alcuna soluzione”. 

In Italia esiste una regolamentazione in merito realizzata sulla base del censimento Ispra effettuato nel 2021, che ha stimato in circa 3.300 i lupi del Belpaese. Quest’anno le Regioni e le Province potranno chiedere l’abbattimento di non più di 160 lupi nel caso di esemplari “confidenti”, pericolosi o dannosi per le aziende zootecniche. Si tratterebbe di una quota definita dall'Ispra “estremamente prudenziale” e che prevede che il Trentino nel 2025 potrà abbattere al massimo 3-5 esemplari, l’Alto Adige 1-2, il Piemonte 10-17, l’Emilia Romagna 9-15, la Toscana 13-22. Questa decisione presa ad inizio 2025 rappresenta la prima vera pianificazione di un numero di abbattimenti ritenuti “sostenibili”, proprio per cercare di contenere, oltre al bracconaggio, anche l'ipotesi di una serie di abbattimenti fuori controllo che potrebbero essere disposti dalle varie amministrazioni locali messe sotto pressione dalle proteste di cittadini, agricoltori, allevatori e dalle lobby dei cacciatori. Un'ipotesi non così irrealistica, visto che lo scorso marzo un emendamento della Lega al “ddl montagna”, in virtù del declassamento europeo del lupo da “strettamente protetta” a “protetta”, ha messo nero su bianco la discrezionalità nazionale nella gestione delle popolazioni locali di lupi. Non è di fatto una apertura della caccia indiscriminata e non è ancora l’abbandono di una politica rigorosa di tutela della specie, visto che le indicazioni europee prevedono l’obbligo per gli Stati di “mantenere uno stato favorevole di conservazione della specie", ma è per molte associazioni ambientaliste “un pericoloso inizio della fine”. La fine di un trend positivo per i grandi carnivori in Europa che negli ultimi sei anni ha portato la maggior parte delle popolazioni di lupi, orsi, linci, sciacalli e ghiottoni ad essere stabile o in aumento come ha certificato un report realizzato per l’Unione Europea dal Large Carnivore Initiative for Europe (LCIE), gruppo specialistico dell'Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) che si occupa della conservazione e gestione dei grandi carnivori in Europa. Un dato positivo e non preoccupante assicurano gli scienziati per i quali “Studiare gli andamenti numerici e distributivi di una popolazione animale è fondamentale per capire l'evoluzione e lo stato di salute di una popolazione e di conseguenza per indirizzare le scelte gestionali e di conservazione. Lo è per qualsiasi specie, e nel caso dei grandi predatori è cruciale per ricondurre il discorso, che è spesso fortemente polarizzato e basato su dati poco oggettivi”.

Tutto risolto quindi? Non proprio. Le paure e i problemi che il lupo, l'orso e gli altri grandi carnivori suscitano (razionali o irrazionali che siano), sono fenomeni sociali che non possono essere trascurati e come tali vanno ascoltati, accolti e possibilmente ricondotti a piani di realtà grazie a chi, come le associazioni dei report sopra citati, hanno competenze maggiori rispetto a tutti quelli che sul comportamento dei selvatici si sono limitati alla lettura o all’ascolto solo della celebre favola Cappuccetto Rosso dei fratelli Grimm. Forse la convivenza con il selvatico è oggi più un problema culturale che reale, visto che non siamo nel contesto culturale del Canada dove in molte aree antropizzate si convive con lupi, grizzly e puma e nelle fiabe ascoltate da bambini, a cominciare proprio da Cappuccetto Rosso, è la paura il senso ultimo della funzione narrativa del lupo nella nostra cultura. Ed è forse questa l'unico “senso” che viene richiamato quando si parla di grandi carnivori, quando il lupo, l'orso o il selvatico di turno diventa reale, quando le nostre “paure culturali” si trasformano in avvistamenti e fatti di cronaca, dando vita a reazioni allarmistiche e a mobilitazioni, per quanto simboliche, come i referendum consultivi senza alcuna valenza legale, organizzati in molte valli del Trentino. Dopo la val di Sole, la val di Non e l'altopiano della Paganella, infatti, anche la valle dei Laghi si è espressa in marzo con una consultazione popolare sulla presenza di orsi e lupi, ma anche in questa occasione l'affluenza è stata molto bassa. Probabilmente una convivenza gestibile è possibile a cominciare da una più adeguata informazione (in Trentino per esempio gli uffici della Provincia organizza da alcuni anni in collaborazione con i Comuni, incontri sul territorio impegnando il Servizio Foreste e Servizio Faunistico) e una migliore prevenzione visto che, sembra incredibile, ma molti dei territori montani e premontani, almeno in Trentino, non dispongono neanche di elementari bidoni delle immondizie anti-orsi. 

Che fare? Dei punti di vista, almeno riguardo agli orsi in Trentino, ha provato a darli il bel documentario “Pericolosamente vicini” che nel 2024 ha raccolto le voci di chi orsi si occupa per lavoro e di chi con l'orso deve farci i conti, perché l'animale è spesso molto interessato al suo di lavoro: allevatori e apicoltori su tutti. Se un'unica soluzione forse non c'è, io ne ho trovata una personale, mi rendo conto sia più filosofica che pratica. Premetto che chi scrive conoscere il problema. Corro in montagna proprio come faceva un incolpevole Andrea Papi nel 2023, quando venne ucciso dall'orsa JJ4 e questo dramma, come per fortuna molti altri con me, non ci ha lasciati indifferenti. Fuori dalla porta di casa mia, in un bosco a 600 metri di altitudine sulle pendici del Monte Bondone in provincia di Trento, almeno per diversi mesi all'anno, orsi e lupi sono ormai una presenza quasi quotidiana. Lo capisco dal puntuale lavoro di segnalazione della forestale, dalle fototrappole, dalle tracce, dai resti freschi delle fatte, dall'irrequietezza del mio cane in certe mattine che ci portano fuori casa troppo presto. Eppure gli avvistamenti personali sono stati pochissimi. Seguendo i consigli degli esperti, tenendo le immondizie mai a portata di fiuto, evitando barbecure, facendo rumore durante le mie corse e i miei spostamenti, anche con un cane colpevolmente non sempre al guinzaglio (ma quasi sempre a vista) negli ultimi tre anni per due volte ho intravisto un lupo, che in entrambe le occasioni è immediatamente scappato. Per fortuna non ho mai incontrato l'orso. Forse faccio troppo baccano, forse sono stato fortunato, in ogni caso ho ormai accettato l'idea che non posso più condividere il territorio con i grandi carnivori facendo finta che non ci siano e ho imparato a darmi di limiti, ad avere il senso della misura mettendo in discussione in modo radicale lo stile di vita che fino ad oggi la nostra cultura del dominio e della dismisura non mi ha mai insegnato a negoziare. 

Come ha ricordato il giornalista appassionato di montagna Serafino Ripamonti in un articolo di qualche anno fa: “Accettare queste presenze vuole dire proprio accettare l’esistenza di significativi ed immediati rischi per l’incolumità pubblica, significa perdere in sicurezza e rinunciare al controllo. Vuol dire anche complicare ancora di più la vita, certo già non facile, di contadini e allevatori. In cambio di cosa? Credo della consapevolezza, anzi dell’esperienza vivente, di non essere in sostanza padroni e dominatori di un bel nulla e forse di un diverso rapporto con il mondo e con le altre incarnazioni della vita che ci accompagnano nel nostro viaggio su questo pianeta. È una piccola cosa evanescente, ma forse può essere un’opportunità: il granello di sabbia gettato nella Macchina, che grippa l’inesorabile ingranaggio del nostro autodistruttivo delirio di onnipotenza”. Una sana cultura del limite insomma, che in nome della biodiversità potrebbe incominciare ad accompagnare anche le paure evocate da Cappuccetto Rosso.

Alessandro Graziadei