Già da alcuni anni sentiamo parlare del Fish Dependance Day, cioè di quella data che indica il giorno dell’anno nel quale la quantità nazionale di pesce consumato supera quella del pesce pescato e occorre “attingere” a quello importato. Un limite che ha a che fare non tanto con la quantità o le qualità dei nostri pescatori, ma con lo sfruttamento sconsiderato del mare che ha gradualmente e drasticamente ridotto la fauna marina e la sua capacità di rigenerarsi in moltissimi mari, compreso il Mediterraneo. Un allarme analogo e più generale lo possiamo ritrovare anche nell’Earth Overshoot Day giorno che il Global Footprint Network indica come la data in cui la domanda annuale di risorse dell’umanità supera ciò che la Terra può rigenerare nello stesso anno. Se nei primi anni ’70 l’Earth Overshoot Day cadeva alla fine di dicembre, l’anno scorso si è celebrato il 13 agosto e quest’anno la data che segna la fine del nostro budget annuale di risorse naturali sarà l’8 agosto.
Per questo centro studi internazionale che mette in rapporto l’impronta ecologica dell’uomo, cioè la sua abilità nel consumare, con la biocapacità della Terra, cioè le risorse naturali che il mondo ha da offrirci, le conseguenze del superamento di questo delicato equilibrio includono “il restringimento della biodiversità, l’erosione del suolo, il progressivo esaurirsi delle risorse animali e vegetali e soprattutto la produzione di più carbonio rispetto a quanto la natura è in grado di assorbire”. Una produzione di anidride carbonica emessa nell’atmosfera maggiore rispetto a quella che le foreste possono sequestrare e compensare per il Global Footprint Network ha chiaramente ricadute pesanti sul cambiamento climatico globale, problema che l’accordo sul clima di Parigi firmato da 195 nazioni comprese quelle dell’Unione Europea non sembra aver scongiurarto. A questa evidenza vale la pena di aggiungere che nel 2030 saremo quasi 9 miliardi e ci si attende lo sviluppo di una classe media mondiale di consumatori di beni e servizi formata da circa 5 miliardi di persone (oggi la classe media è attestata intorno ai 2 miliardi di individui). Se questa è un’ottima notizia per i mercati, non si può dire lo stesso per l’impatto su ambiente ed ecosistemi che rischiano di non riuscire più a fornire, in modo rinnovabile e a prezzi ragionevoli, le risorse naturali di cui abbiamo bisogno.
Di questo passo per il Global Footprint Network occorrerebbe moltiplicare le risorse, un miracolo per il momento riuscito, pare, ad una sola persona e con i soli pani e pesci. Se il riassorbimento delle emissioni di carbonio costituisce più della metà della nostra domanda alla natura e le emissioni proseguiranno anche nei prossimi anni al ritmo attuale, infatti, “nel 2030 per soddisfare il fabbisogno dell’umanità serviranno due Terre, mentre se le emissioni globali fossero ridotte del 30% avremmo bisogno [solo] di una Terra e mezza”. Alla luce di questa analisi i paradigmi che dovrebbero salvare la biocapacità della Terra e guidare la nostra economia sembrano più vicini a concetti come decrescita ed economia circolare che all’incremento del Prodotto Interno Lordo (PIL). Dalla “dittatura” del PIL, che è diventato una sorta di ossessione delle economie nazionali tanto da essere l’unico strumento di misurazione del benessere collettivo, è bene liberarsi quanto prima sperimentando forme di misurazione della qualità del vivere alternative a quelle degli indicatori tradizionali. Esempi ne esistono: dall’Indice di Sviluppo Umano dell’UNDP al Better Life Index di OCSE, fino all’Indice Quars che in piccolo prova da anni a misurare la qualità dello sviluppo nelle Regioni italiane fornendo un quadro che ridisegna il nostro paese a partire dalla qualità dell’ambiente, del lavoro, dei diritti, della salute, dell’istruzione, delle pari opportunità e della partecipazione, tutti indicatori che ci ricordano che quello che rende la vita veramente degna di essere vissuta non sempre è misurabile in termini economici.
Indicatori cari anche ai “nuovi” paradigmi dell’Economia Circolare, un nuovo modello di sviluppo che ha l’obiettivo di attivare circoli virtuosi e sinergici di riutilizzo delle risorse siano esse materie prime, energia, spazio, tempo, competenze e chi più ne ha più ne metta. In questo caso l’obiettivo è alimentare continuamente il ciclo di produzione e consumo, evitando quanto più possibile di ricorrere a risorse e materie prime vergini e generando evidenti impatti positivi dal punto di vista economico, ambientale e sociale. Ecco quindi che il modello dell’Economia Circolare diventa oggi un’opportunità capace di liberare risorse economiche calcolate in quasi 4.500 miliardi di dollari da qui al 2030 perché sembra in grado di attrarre un numero sempre più ampio di consumatori, attenti a quel “valore aggiunto” ambientale e sociale che orienta le loro scelte e che riconosce nella sostenibilità ambientale non solo un vincolo, ma un’opportunità di crescita. I risultati raggiunti dai pionieri dell’Economia Circolare e le stime dell’Unione Europea, dimostrano come non è impossibile pensare di spostare sempre più avanti l’Earth Overshoot Day. Si può fare, urlerebbe in Frankenstein Junior Gene Wilder, gli esempi non mancano soprattutto nel no profit.
Alessandro Graziadei
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