Ne avevamo parlato a gennaio. Tutto era nato da una ricerca intitolata “Una dura storia di cuoio” realizzata in Italia nel 2015 dal Centro Nuovo Modello Di Sviluppo (CNMS) e dalla Campagna Abiti Puliti analizzando la situazione lavorativa nell’industria della concia italiana, tra le fabbriche del distretto di Santa Croce sull’Arno in provincia di Pisa. L’Italia non dispone di grandi allevamenti di bestiame, ma ha una lunga tradizione conciaria e molti stabilimenti di lavorazione, per cui riesce a generare il 17% del valore della produzione totale mondiale di pelli finite (con un indotto di 5,25 miliardi di euro circa). Si tratta soprattutto di pelle ottenuta a partire da semilavorati importati dall’estero e che il distretto toscano trasforma in cuoio lavorato utilizzato per il 70% delle suole delle scarpe prodotte in Europa e per il 98% di quelle prodotte in Italia. Era stata una ricerca utile per ricordarci che spesso ci troviamo a denunciare condizioni di lavoro inumane in paesi lontani e in via di sviluppo dimenticandoci che fenomeni come il precariato, il lavoro nero, la manodopera straniera sfruttata e l’inquinamento emergono anche in Italia.
Oggi è bene ripartire anche da qui per parlare della Cina, il leader mondiale nel settore delle calzature che solo nel 2014 ha realizzato oltre 15,7 miliardi di paia di scarpe, molte delle quali destinate all’Unione Europea, il più grande mercato di sbocco dei prodotti in cuoio e calzaturieri cinesi. Così, visto che chiunque in Europa voglia sapere chi e come realizza le proprie scarpe (in pelle e non) deve guardare alla Cina, lo ha fatto per noi la Campagna Change your shots (un network di 15 organizzazioni europee tra le quali anche Abiti Puliti e 3 asiatiche) che il 18 maggio hanno lanciato il nuovo report Tricky Footwork, scritto dall'organizzazione austriaca Südwind, sulle condizioni di lavoro nel settore delle calzature cinesi. L'inchiesta realizzata a fine 2015 nella provincia di Guangdong rivela una situazione piuttosto prevedibile, ma non per questo meno allarmante, con lavoratori sfruttati e diffuse violazioni dei diritti umani. “I lavoratori delle fabbriche che producono per i grandi marchi europei come Adidas, Clarks e Ecco ci hanno raccontato, tra le altre violazioni, di salari ben al disotto del livello dignitoso, straordinari non volontari, protezione insufficiente dai rischi per la sicurezza e la salute, violenza per reprimere gli scioperi, contributi assicurativi non versati e indennità di fine rapporto irrisorie”, ha detto Anton Pieper di Südwind, tra i curatori del report.
“Il settore delle calzature è molto dinamico e la Cina gioca un ruolo fondamentale all’interno della rete di fornitura globale che assegna a diversi Paesi funzioni produttive diverse - ha aggiunto Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti - Purtroppo questo porta ad una competizione senza regole che sacrifica i diritti dei lavoratori e ostacola processi di emancipazione nelle fabbriche”. In realtà nonostante le violazioni siano un fenomeno molto diffuso nel settore calzaturiero cinese, la Cina vanta, da almeno un decennio, una legislazione in materia di lavoro molto progressista, soprattutto se comparata a quella di altri paesi produttori. I lavoratori godono di importanti tutele, almeno sulla carta: donne e uomini sono pagati generalmente allo stesso modo, il lavoro minorile non è più un fenomeno diffuso, la maggior parte dei lavoratori è stata assunta con contratti legalmente validi e molte grandi aziende del settore si sono da tempo dotate di codici di condotta per prevenire eventuali violazioni da parte dei loro fornitori. “Ma ciò non è ancora sufficiente, manca il coinvolgimento diretto dei lavoratori in un settore che ha conosciuto una crescita record, ma lo ha fatto ignorando standard internazionali come le norme fondamentali sul lavoro dell’International Labour Organisation (ILO)” ha concluso la Lucchetti.
Questa situazione ha portato negli anni ad un aumento non solo delle tragedie sul lavoro, ma anche delle proteste dei lavoratori con esiti spesso molto violenti e ha convinto la Campagna Change your shoes di come sia “assolutamente necessario attuare dei cambiamenti nelle condizioni di lavoro in tutte le fabbriche prese in considerazione, e nell’industria delle calzature nel suo insieme. Raccomandiamo pertanto che la Cina ratifichi e dia attuazione con urgenza alle convenzioni dell’ILO n. 87 sulla libertà di associazione e n. 98 sul diritto alla contrattazione collettiva. Tutti i lavoratori devono avere il diritto, legalmente riconosciuto, di fondare e dirigere organizzazioni sindacali indipendenti. Raccomandiamo, inoltre, che il governo regionale del Guangdong garantisca maggiori protezioni ai lavoratori più giovani, per esempio vietando il lavoro straordinario, come già è stato fatto in altre province”.
Noi intanto cosa possiamo fare? Pensare sempre che un prezzo troppo basso per un prodotto non sempre è solo “conveniente”, ma spesso nasconde i diritti negati ai lavoratori e talvolta non garantisce neanche la nostra salute. E i casi, anche nel campo delle calzature cinesi, non mancano, come quando in gennaio l’European Rapid Alert System for non-food consumer products (detto Rapex, un sistema europeo di allerta rapida per i prodotti di consumo identificati come pericolosi capace di bloccarli in tempo reale in tutta l’Unione) ha bloccato delle scarpe made in China che sono risultate positive al Dimetilfumarato, in percentuali ben al disopra dei limiti di legge. Il dimetilfumarato o DMF è una sostanza utilizzata in ambito industriale, come essiccante e antimuffa per i prodotti in pelle, ed attualmente è stato fortemente limitato nell’Unione perché considerato tossico e responsabile di irritazione della pelle e dermatiti da contatto. Attualmente un prodotto pericoloso su due di quelli individuati dal Rapex è made in China. Pensiamoci, senza generalizzare o demonizzare, ma magari cercando marchi con un’etica aziendale chiara e pubblica anche quando producono in Cina! Io ne conosco uno, ma non è certo l’unico!
Alessandro Graziadei
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