Lo scorso 8 agosto una di “loro” ha rotto le catene del rimorchiatore Alp Marine ed è finita sulle scogliere scozzesi, con 300.000 litri di gasolio nei serbatoi, mentre stava per essere trasferita in Mediterraneo. Altro indizio. Alcune di “loro” sono lì da decenni, a poche miglia dalle coste del Belpaese, anche se hanno ormai terminato la loro attività produttiva. Cosa sono? Indovinato? Sono le piattaforme petrolifere, alcune delle quali sono state salvate in Italia dal mancato quorum del referendum del 17 aprile, che ha ignorato le indicazioni uscite della COP 21 di Parigi che invitavano ad avviare subito una transizione verso le energie rinnovabili. Molte di queste piattaforme hanno ormai terminato la loro attività produttiva o erogano ormai talmente poco da far suppore che le compagnie stiano ritardando ad arte la loro chiusura formale per non accollarsi l’obbligo e gli oneri di smantellamento e il ripristino iniziale dei luoghi di estrazione, come previsto dalla normativa. Un’attività che creerebbe sicuramente più posti di lavoro di quanti ne richieda l’ordinaria attività estrattiva.
Legambiente ha censito, tra le 69 concessioni per l’estrazione di gas e petrolio in Italia, ben 135 piattaforme a mare e 729 pozzi sparsi principalmente in Adriatico, ma presenti anche nel mar Ionio e nel canale di Sicilia. Di queste 38 piattaforme e 121 pozzi hanno ormai terminato la loro attività produttiva ed è per questo che l’ong ha lanciato lo scorso 8 agosto a Marina di Ravenna, in occasione della tappa della Goletta Verde, la campagna #Dismettiamole, “affinché si affermi un nuovo modello energetico pulito, rinnovabile e democratico, che faccia gli interessi dei cittadini italiani e non delle compagnie petrolifere”. Per esempio al largo della sola Emilia-Romagna ci sono 22 concessioni attive e produttive, ma ne esistono 3 di non produttive, una delle quali la piattaforma Morena 1 di fronte Cervia e Cesenatico da anni pronta (invano) per essere dismessa.
Dimissioni che per Legambiente andrebbero valutate anche per le piattaforme in funzione visto che sempre in Emilia stanno causando la perdita di volume del sedimento nel sottosuolo generando un abbassamento della superficie topografica. I dati dei monitoraggi Arpa evidenziano come la fascia costiera emiliana negli ultimi 55 anni si sia abbassata di 70 cm a Rimini e di oltre un metro da Cesenatico al delta del Po. “La subsidenza rischia inoltre di aumentare l’impatto delle mareggiate e delle piene fluviali, favorendo l’erosione costiera, con perdita di spiaggia ed effetto negativo sulle attività turistiche rivierasche" ha sottolineato Lorenzo Frattini, presidente di Legambiente Emilia-Romagna. Per questo il tema dello smantellamento delle piattaforme è stato anche oggetto di una lettera di diffida di Legambiente, Greenpeace e WWF, inviata ancora nel maggio 2016 al Ministero dello Sviluppo Economico, sottolineando come, allo stato attuale dei fatti, diversi titoli abilitativi, per lo più localizzati entro la fascia delle 12 miglia, “siano da rivedere e da controllare accuratamente per determinarne l'eventuale non compatibilità con le normative di settore, con conseguente revoca del titolo e obbligo di ripristino e bonifica delle aree da parte delle società titolari".
In molte parti altre parti del mondo, infatti, questo processo di dismissione è già cominciato, basti pensare alle vicine Francia e Croazia che stanno portando avanti una moratoria generale. L’Italia invece rimane l’unica ad avere un così alto numero di attività vicine alla propria costa a vantaggio esclusivo delle compagnie petrolifere con impianti che per Legambiente ormai non sono strategici “né dal punto di vista energetico, né economico, mentre continuano a tutti gli effetti a mettere a rischio l’ecosistema marino e le altre attività legate al mare”. Per Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente, “Più volte hanno provato a rassicurarci ma, come volevasi dimostrare, nuovi pozzi, dentro e fuori le aree vincolate, e nuove attività di ricerca, estrazione e prospezione continuano a mettere a rischio il mar Adriatico, lo Ionio, il Canale di Sicilia e il mar di Sardegna Occorre evitare che nuovi tratti di mare siano coinvolti dall’impatto di queste attività, ma riteniamo sia giunto anche il momento di mettere in campo una strategia che si ponga l’obiettivo di dismettere le piattaforme presenti nel mar Mediterraneo e in quello italiano in particolare”.
Per Legambiente “In totale, nei mari italiani, ci sono ancora ben 7.254,5 chilometri quadrati destinati alle attività di ricerca, e 15.362,6 kmq interessati da nuove richieste”. Rientrano infine tra le future possibili minacce per i mari italiani anche le otto istanze di permesso di prospezione, delle indagini geofisiche altamente impattanti in quanto eseguite mediante la tecnica dell’airgun in quasi 95mila chilometri quadrati di mare. Proprio per fermare l’utilizzo della tecnica dell’airgun Goletta Verde ha rilanciato da nelle scorse settimane una petizione per vietare l’utilizzo di questa tecnica di ricerca degli idrocarburi in mare con il rapido rilascio di aria compressa che, producendo una bolla che si propaga nell’acqua, genera onde a bassa frequenza. Il rumore prodotto da un airgun è pari a 100.000 volte quello di un motore di un jet.
“Ci auguriamo - ha dichiarato la presidente di Legambiente Rossella Muroni - che venga intrapreso al più presto un serio percorso di confronto tra tutti i soggetti competenti per ragionare in maniera lungimirante su quale debba essere il futuro ambientale, energetico ed occupazionale del nostro Paese nei prossimi decenni. Al contrario del settore petrolifero, che rischia il fallimento a causa del calo dei consumi e del crollo del prezzo del petrolio, i settori delle rinnovabili e dell’efficienza sono in forte crescita e con norme e politiche adeguate potrebbero generare almeno 600mila posti di lavoro, circa 10 volte di più di quanto riesce a fare il settore petrolifero oggi”. Il progressivo smantellamento delle piattaforme potrebbe rappresentare l'inizio di una nuova era.
Alessandro Graziadei
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