Mi ha fatto impressione leggere l’invito che il Governo della Serbia ha voluto fare ai propri atleti impegnati fino a qualche giorno fa nelle Olimpiadi di Rio nel caso si fossero trovati a condividere il podio olimpico con atleti provenienti dal Kosovo: “abbandonate le cerimonie di premiazione. Non possiamo ascoltare l’inno del Kosovo e guardare la loro bandiera”, aveva ammonito il ministro dello sport Vanja Udovicic, chiarendo però che la decisione finale spettava ai singoli atleti e che quella del Governo era una mera “raccomandazione”. Non c’è stata l’occasione per la Serbia di vedere da vicino né gli atleti, né le bandiere del Kossovo, ma questa semplice nota ci ricorda come le guerre che hanno disgregato la ex Jugoslavia negli anni ’90 dello scorso secolo abbiano lasciato ferite ancora non rimarginate. Una di queste ferite è stata per 22 anni la “Vijesnica” la storica Biblioteca Nazionale ed Universitaria di Sarajevo, distrutta nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 dall’artiglieria serba e diventata una dei simboli di quella guerra tra serbi, croati e bosniaci che tra il 1992 e il 1995 ha insanguinato i Balcani e stretto nel più lungo assedio militare della storia moderna la capitale della futura Repubblica di Bosnia Erzegovina.
Se nel lungo secondo dopoguerra avessimo pensato che la distruzione del libro fosse una scena che non avremmo più rivisto ci sbagliavamo. La guerra al libro, simbolo dal grande significato collettivo, è ripresa e i libri sono tornati a bruciare a Sarajevo nel 1992 e non solo lì. In tutta la Bosnia biblioteche, archivi, musei e altre istituzioni culturali e religiose pubbliche e private furono distrutte nell’intento di cancellare quelle prove materiali capaci di ricordare alle generazioni future che vi fu un tempo in cui persone di diverse tradizioni etniche e religiose condividevano in Bosnia la vita. Nei mesi di guerra, a Sarajevo, durante quello che è stato definito un “urbanicidio”, a poche decine di metri dalla Vijesnica, finirono sotto il tiro degli assedianti anche tutti i luoghi di culto: i minareti delle moschee, il campanile della chiesa dei Francescani, la sinagoga Ashkenazita e persino la Cattedrale Ortodossa e la Chiesa vecchia, le chiese di quell’ortodossia a cui si rifacevano i nazionalisti serbi che volevano cancellare dalla storia quella città multiculturale. E così nei 44 mesi di assedio di questa città, dove da millenni convivevano mussulmani, cattolici ed ebrei e dove morirono 12 mila persone e furono oltre 50 mila i feriti, il rogo della Biblioteca di Sarajevo è diventato una delle tappe obbligate per cancellare per sempre un pezzo di questa storia condivisa.
La biblioteca costruita nel 1894 dagli austriaci la notte del 25 agosto 1992 fu colpita da bombe al fosforo capaci di generare fiamme persistenti, tanto che l’edificio continuò ad ardere per diversi giorni. “S’alzano i roghi al cielo, s’alzano i roghi in cupe vampe” cantavano i CSI nel 1996 ripercorrendo con una canzone la storia di quella guerra e di quella sera, quando due milioni di volumi (155mila rari o preziosi, 478 manoscritti unici) sparirono per sempre nonostante l’impegno di bibliotecari, vigili del fuoco e semplici cittadini bosniaci, serbi e croati che cercarono di mettere in salvo i libri dalle fiamme sotto i colpi dei cecchini. In questo disperato tentativo Aida Buturović, una giovane bibliotecaria, perse la vita dopo essere stata colpita da una scheggia di granata. Quando è stato chiesto a Kenan Slinic, comandante dei vigili del fuoco, perché mai rischiasse la vita, ha risposto: “Perché sono nato qui e loro stanno bruciando una parte di me”. “Certe cose si danno per scontate - ha raccontato una testimone - Ti accorgi di quanto ami la tua città quando la vedi in pericolo. Forse Vijesnica non è un edificio bello, con la sua buffa architettura moresca, ma rappresenta i ricordi di generazioni di studenti che qui hanno iniziato a scoprire il mondo. È più che bello: è intimamente nostro”.
Anche per questo la biblioteca di Sarajevo è rimasta durante la guerra il luogo scelto dai suoi abitanti per mantenere viva la loro storia con letture di poesia, rappresentazioni teatrali e anche con la musica. La foto del violoncellista di Sarajevo Vedran Smailović che suona nella Biblioteca parzialmente distrutta ha fatto il giro del mondo e ha ricordato ai bosniaci che non tutto era andato perduto. Alcuni preziosi libri conservati nelle cantine da privati cittadini vennero riconsegnati alla fine della guerra e riapparve anche un’antica copia di un’Haggadah ebraica nascosta prima del bombardamento. Il libro era stato già salvato dai roghi nazisti nel 1941. Allora lo salvò il capo bibliotecario Dervis Korkut, un funzionario d’origine albanese e dal nome musulmano che nascose l’Haggadah grazie da un imam di un villaggio della Bosnia rurale, che la conservò nella modesta biblioteca della sua piccola moschea. Oggi forse non è insignificante ricordare che quelle persone erano di religione musulmana, come non è insignificante ricordare che il 9 maggio del 2014, dopo 22 anni la Biblioteca Nazionale ed Univeristaria di Sarajevo è stata riaperta al pubblico grazie a progetti di solidarietà e raccolte fondi lanciate da decine di associazioni e istituzioni in tutto il mondo.
Alle volte i libri salvano e permettono un nuovo inizio, non solo per il sapere che tramandano, ma per ciò che rappresentano in una comunità. Sarajevo e la sua Vijesnica, nonostante l’indifferenza europea durante l’assedio, sono così diventate il paradigma positivo di un diritto di cittadinanza che oggi dovrebbe essere un principio cardine di un’Europa che in realtà sembra concedere nuovamente sempre più spazio al nazionalismo, alla chiusura identitaria e al tentativo di demonizzare ciò che altro da sé.
Alessandro Graziadei
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