Non ha proprietà miracolose o taumaturgiche (anche se chi la pratica va vaneggiando più di miracoli che di infortuni), ma la corsa, al pari di altri sport, capita talvolta risvegli dal torpore le coscienze. Accadde con Jesse Owens, il campione afro-americano che nel 1936 tolse il sorriso a Hitler dominando le Olimpiadi di Berlino. Accadde il 16 ottobre 1968 ai giochi di Città del Messico quando Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo nella finale maschile dei 200 metri, sollevarono il pugno guantato di nero denunciando una discriminazione che l’America dimenticava solo davanti ai successi sportivi. Accadde l’anno prima quando una studentessa americana Katherine Switzer vestita con larghi pantaloni e un pesante maglione, prese parte e finì la Boston Marathon nonostante i 42 km fossero ancora vietati alle donne, aprendo la strada anche ad altre e più importanti rivendicazioni di genere. L’elenco potrebbe essere molto più lungo, ma sicuramente “la corsa” di queste simboliche rivolte sportive arriva fino al 21 agosto 2016 a Rio quando il maratoneta etiope Feyisa Lilesa è arrivato al traguardo portando le braccia sopra la testa, incrociate ai polsi e con i pugni chiusi, un gesto di protesta nei confronti del governo etiope, colpevole di perseguitare la popolazione Oromo.
Il significato del gesto di Lilesa lo si è capito solo dopo, durante la conferenza stampa del campione etiope che ha vinto l’argento olimpico: “Ci ammazzano, ci mettono in prigione. Le persone spariscono: molti membri della mia famiglia non ci sono più, compreso mio padre” ha dichiarato l’atleta. Feyisa Lilesa è di etnia Oromo. Da quando fu rovesciato nei primi anni novanta il dittatore in esilio in Zimbabwe Hailè Mariàm Menghistu (condannato a morte per i crimini perpetrati durante il suo regime) alla guida dell’Etiopia ci sono i Tigrini, minoranza etnica molto potente che è ormai radicata in tutte le pieghe del potere e per non perderlo in questi anni non ha rinunciato a mettere in atto una durissima repressione. Di fatto, dal novembre 2015, il governo ha ucciso circa 400 persone e ne ha imprigionate molte di più in seguito alle proteste degli Oromo, il più grande gruppo etnico del Paese. A innescare le proteste dello scorso anno era stata la decisione del governo di implementare l’Integrated Development Master Plan, piano che prevedeva l’espansione urbana della capitale con la creazione di una zona industriale nella regione di Oromia e l’esproprio dei terreni agricoli dell’area interessata, con il conseguente spostamento forzato di molti Oromo. Benché il piano sia stato successivamente ridimensionate, le proteste sono continuate per chiedere riforme politiche, la liberazione dei detenuti politici e il ripristino di uno stato di diritto, visto che per le comunità indigene il passaggio sotto la giurisdizione del governo federale comporterebbe anche l’adozione dell’amarico come lingua ufficiale e l’abbandono della lingua oromo.
Human Rights Watch, citando un rapporto dello scorso giugno che includeva le interviste a 125 testimoni, ha raccontato di come in passato “Le forze di sicurezza hanno sparato indiscriminatamente sulla folla, hanno ucciso persone durante retate di massa e hanno torturato i manifestanti detenuti. Dato che gli studenti delle scuole primarie e secondarie in Oromia sono stati tra i primi a manifestare contro il Governo, molti degli arrestati o uccisi erano bambini e ragazzi di età inferiore ai 18 anni”. Secondo Amnesty International, che già dal 2014 denuncia la violazione dei diritti umani nei confronti di molti esponenti Oromo, il 6 e il 7 agosto scorsi ad Olimpiade appena avviata almeno cento persone sono state uccise dalla polizia etiope durante delle proteste nelle regioni di Oromiya e Amhara e in particolare ad Bahir Dar il capoluogo regionale dell’Amhara, dove in diverse migliaia avevano preso parte ad una manifestazione antigovernativa. “Le forze di sicurezza etiopi hanno sistematicamente fatto ricorso a un uso eccessivo della forza nei loro errati tentativi di mettere a tacere le voci di dissenso”, ha dichiarato Michelle Kagari, vice direttore regionale di Amnesty per l’Africa Orientale, il Corno d’Africa e la regione dei Grandi Laghi. Centinaia di persone sono così finite nei centri di detenzione non ufficiali, tra cui le basi di addestramento dell’esercito e della polizia. “Siamo estremamente preoccupati che l’uso di strutture di detenzione non ufficiali possa esporre le vittime a ulteriori violazioni dei diritti umani, tra cui la tortura e altre forme di maltrattamento”, ha concluso Kagari.
Nei video di questi scontri con la polizia che circolano su internet è possibile vedere i manifestanti che fanno lo stesso gesto che ha fatto Lilesa alla fine della sua maratona olimpiaca, un gesto che poi Lilesa ha ripetuto anche sul podio durante la premiazione. Nessuno in patria, però, vedrà le immagini del maratoneta etiope e nessuno potrà sentire le sue parole perché quello spezzone di audiovideo è stato censurato dal regime etiope che ha fatto dei suoi corridori un vanto nazionalistico. “Il Governo etiope ha scacciato migliaia di persone dalla loro terra, le ha imprigionate o le ha uccise per le loro legittime proteste. Parlare di questo è molto pericoloso, quindi cosa potevo fare come atleta? ha spiegato ai cronisti Lilesa. “Ora se torno in Etiopia forse mi uccideranno. Se non verrò ucciso forse mi metteranno in prigione, se non mi metteranno in prigione mi bloccheranno all’aeroporto. Forse sarò costretto a trasferirmi in un altro paese”. Così nel giorno della medaglia che vale gli sforzi individuali di una vita, Lilesa ha voluto arrivare al traguardo ricordando al mondo che la sua gente viene assassinata e incarcerata mentre lotta per difendere la sua terra e i suoi diritti. Questo atleta di 26 anni partito per Rio da Etiope e diventato in questi giorni un rifugiato, ha vinto "solo" l'argento, ma come cantava Francesco De Gregori “non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia” (la stessa che non può vantare il nuotatore americano Ryan Lochte). Non sarebbe brutto vedere molte nazioni fare la fila per accogliere la sua domanda di asilo politico, possibilmente indipendentemente dai pensieri interessati delle rispettive federazioni di atletica, e magari spendere una parola pubblica ed ufficiale per il suo popolo.
Alessandro Graziadei
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