Le autorità pakistane hanno arrestato con l’accusa di sedizione Manzoor Pashteen, il leader del movimento Pashtun Tahafuz Movement (Ptm) che difende i diritti dell’omonima minoranza etnica. Il Ptm rappresenta la minoranza tribale della regione un tempo nota come Federally Administered Tribal Areas (Fata), oggi annessa alla provincia di Khyber-Pakhtunkhwa, che negli ultimi anni ha vissuto un’intensa infiltrazione di militanti talebani dall’Afghanistan, gli attacchi dei droni statunitensi e la controffensiva militare del Governo. Una situazione ai limiti della guerra civile pagata a caro prezzo dalla popolazione locale che ha trovato in Pashteen un portavoce. Proprio per questo il leader Pashtun è stato fermato la sera del 27 gennaio a Peshawar, ufficialmente per via di un discorso “offensivo” verso lo Stato pronunciato il 18 gennaio. In realtà la società civile e alcune ong attive nella difesa dei diritti umani in Pakistan ritengono che l’arresto sia una vendetta dei militari per le critiche che l’attivista ha in più occasioni rivolto contro l’esercito, accusato di essere responsabile delle sparizioni forzate dei membri della minoranza etnica Pashtun. Il 25 gennaio scorso il governo federale aveva invitato Pashteen ad un incontro per “portare il movimento nel discorso pubblico nazionale, mentre il Paese attraversa un difficile periodo della propria storia”. Forse una scusa, visto che durante l’appuntamento del 27 gennaio è scattato l’arresto.
Secondo Brad Adam, direttore asiatico di Human Rights Watch (Hrw), “il governo del Pakistan deve trovare il modo di risolvere le discordie politiche con il dialogo, invece che attraverso l’intimidazione” perché “Il pacifico dissenso è l’essenza della democrazia e non deve essere trattato come sedizione”. Tuttavia ad oggi la legge pakistana sulla sedizione, che nella sezione 124 A del Codice penale “proibisce qualsiasi parola, verbale o scritta, segno o rappresentazione visibile che può causare odio o disprezzo, suscita o tenta di suscitare disaffezione verso il Governo”, permette ai militari ampi margini di manovra, rimanendo almeno formalmente nei limiti dei diritti civili. Ma le responsabilità di politici e militari sembrano andare ben oltre. Il Ptm da tempo denuncia le responsabilità del Governo negli omicidi extra giudiziali, nelle sparizioni forzate e per le vittime provocate dalle mine. Secondo l’organizzazione queste violenze nella regione hanno costretto almeno cinque milioni di persone ad abbandonare le proprie case e anche se non esistono numeri ufficiali, "il numero di civili, militanti e forze di sicurezza morti dal 2002 ad oggi supera i 50mila".
Nonostante gli attivisti lamentino il costante clima di intimidazione garantito dall’arresto sistematico di parenti e membri di rilievo della minoranza, non si sono fatti intimidire e in questi giorni manifestazioni per la liberazione di Manzoor Pashteen si sono tenute in oltre 20 città del Paese, tra le quali Islamabad, Karachi e Peshawar, oltre che in Afghanistan e in altre parti del mondo dove è presente la diaspora Pasthun (principalmente in Europa, Nord America e Australia). Mentre Pashteen è stato portato a Dera Ismail Khan, una remota località nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa e altri 23 manifestanti sono stati arrestati e portati ad Adiala Jail il carcere centrale di Rawalpindi, ieri le autorità pakistane hanno liberato Mohsin Dawar un avvocato del movimento arrestato durante una manifestazione a Islamabad mentre chiedeva la scarcerazione di Manzoor Pashteen. L’arresto del giovane leader del Ptm sembra aver smascherato l’arbitrarietà della repressione contro i Pasthum e ha dato nuova energia alle proteste della società civile e delle organizzazioni che condividono le richieste di maggiore democrazia e libertà di espressione in Pakistan.
Sul suo profilo Twitter, l’avvocato Dawar ha proprio evidenziato come nel raduno di Islamabad dove è stato arrestato “non c’è stato nemmeno un episodio di violenza” vista la natura “pacifica della manifestazione”. Tuttavia, ha spiegato “lo Stato ci ricorda ancora una volta che i nostri diritti non contano più di tanto, dal momento che non si sono nemmeno degnati di creare inconsistenti basi per i nostri arresti”. Per Dawar, visto che le libertà dei Pasthun si stanno restringendo, il silenzio non è più un’opzione: “La lotta per riconquistare il nostro diritto al dissenso è una causa comune che trascende le etnie e il credo” per questo invita a parlare e farsi valere: “la tua vita non significa nulla se non hai la libertà di non essere d’accordo”. Intanto, come spesso accade in ogni parte del mondo, il nazionalismo e l’enfasi sui “nemici interni” coprono i veri problemi della società pakistana, che in questo mese sta fronteggiando la così detta “crisi del pane”. Secondo i partiti d’opposizione il Governo nel 2018 e nel 2019 ha esportato più farina di quanto avrebbe dovuto. Almeno 600mila tonnellate di grano sono state vendute all’estero e altre 48mila tonnellate sono espatriate raggirando i divieti. Adesso manca la farina e le autorità di Islamabad hanno annunciato l’acquisto dall’estero di almeno 300mila tonnellate di grano.
Come era prevedibile la carenza di grano, ingrediente poco costoso alla base della dieta pakistana, ne ha fatto schizzare il prezzo e ha provocato le proteste dei fornai che hanno dato vita a scioperi in varie città della provincia di Khyber Pakhtunkhwa, con epicentro a Peshawar. I fornai sono stati costretti ad aumentare i prezzi dei prodotti lavorati e devono adesso far fronte al conseguente calo delle vendite. Il governo di Imran Khan non ha specificato da quale Paese comprerà il prezioso cereale, ma secondo il Ministero delle finanze, la prima nave merci carica di farina dovrebbe arrivare a metà febbraio. Intanto il ministro per la Sicurezza alimentare Khusro Bakhtiar rassicura: “Il governo ha 400mila tonnellate di grano nei magazzini”. Così mentre Governo e opposizione si accusano a vicenda e i consumatori continuano a soffrire per i costi troppo alti, prendersela con il pacifico dissenso dei Pasthum sembra un’ottima arma di distrazione di massa.
Alessandro Graziadei
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