Nonostante i contagi per Covid-19 “di ritorno” importati dall’estero (che dal 25 febbraio hanno iniziato a superare quelli all’interno del Paese) e qualche prevedibile ricaduta nell'Hubei, in Cina questa pandemia polmonare ha raggiunto il suo picco all’inizio di marzo. Il 10 marzo, il giorno dopo l’unica visita del presidente Xi Jinping a Wuhan, le statistiche ufficiali cinesi indicavano che nella città epicentro dell’epidemia erano apparsi solo 8 nuovi casi, 15 in tutta la Cina. Una situazione che ha convinto le autorità a rimettere gradualmente in moto l’economia, restituendo a Xi autorità e prestigio. Pechino in questo momento ha decisamente bisogno della fiducia straniera per scrollarsi di dosso il delicato ruolo di culla di questo Coronavirus e per rilanciare le esportazioni e gli investimenti, essenziali per la crescita cinese. Lo sta facendo anche offrendo il proprio aiuto ai paesi alle prese con la pandemia di Covid-19, in primis l’Italia, che ha ricevuto un importante supporto grazie alla forniture di materiale sanitario (a cominciare dalle introvabili mascherine) e personale medico. Anche se l’Italia è l’unico paese del G7 ad aver aderito al progetto geopolitico cinese della “via della seta”, e a qualcuno questo supporto è sembrato molto strategico, il ringraziamento alla Cina è doveroso, come è doveroso pensare che non può lasciarci indifferenti l’origine della pandemia. Per questo, passata la fase dell’emergenza mondiale, sarà forse opportuno dare credito alla campagna di 5 giorni e 200.000 firme, che ha convinto l’Onu a chiedere la messa al bando de i wet market (non solo cinesi) dove gli animali vengono venduti vivi e macellati sul posto.
Non sappiamo se questa riflessione abbia già preso piede nei pochi e controllati spazi di dibattito della società civile cinese, certo è che anche nel corso della crisi epidemica, centinaia di critici e attivisti hanno subito un trattamento repressivo brutale da parte dell’apparato di sicurezza del regime. Oltre ad imporre misure di quarantena draconiana, le autorità hanno arrestato centinaia di giornalisti indipendenti e “giornalisti-cittadini” per aver insistito nel web sul fatto che se Xi fosse stato più sincero sin dalle fasi iniziali dell’epidemia, e se le strutture e le attrezzature mediche adeguate fossero state trasportate nell’Hubei in tempi più rapidi, il numero dei contagi e dei decessi in Cina sarebbe stato inferiore. Certo è che l’insolitamente alto numero di persone che sono state messe a tacere, il loro sacrificio e il loro coraggio attestano il continuo e crescente sviluppo della società civile cinese, che prova a difendere i simboli di questa battaglia democratica a cominciare da Li Wenliang, l’oculista 34enne che per primo aveva lanciato l’allarme sulla comparsa nel Paese di una pericolosa serie di casi di polmonite. Le autorità locali, invece di verificare quell’allarme, accusarono il medico di diffondere notizie false che turbavano l’ordine pubblico e ci vollero alcune settimane perché il regime riconoscesse l’esistenza dell’epidemia, scagionando Li dalle accuse solo poco prima della sua morte avvenuta il 7 febbraio per Covid-19. La tragica fine del dottor Li, anziché spingere la leadership cinese verso una maggiore apertura, è stata strumentalizzata per fini politici evidenziando la colpevolezza dell’amministrazione provinciale, come conferma l’apertura di un’indagine sul decesso presieduta dalla potentissima Commissione nazionale di supervisione e la richiesta di una immediata riabilitazione politica del dottore da parte della Corte suprema del popolo, il massimo organo giudiziario cinese controllato dal partito.
Eppure, in questo delicato regolamento dei conti tra centro e periferia, l’improvvisa morte di Li Wenliang ha fatto capire a molti in Cina che questo regime teme le persone che dicono la verità. Sul Twitter cinese, Weibo, la notizia del decesso (inizialmente censurata) ha totalizzato milioni di visualizzazioni: l’hashtag “È morto il dottor Li Wenliang” ne ha avute 670 milioni e “Li Wenliang è morto” altre 230 milioni. In tutto 900 milioni di visualizzazioni con migliaia di post che commentavano la vicenda sotto un hashtag che (più o meno) significa “Vogliamo libertà di parola” e che ha ispirato inusuali inni alla libertà di espressione. Anche per questo, come ha sottolineato su East Asia Forum Joyce Y M Nip, docente di comunicazione presso l’Università di Sydney, “la figura di Li è stata rapidamente cooptata dalla propaganda centrale in una campagna volta a esaltare gli sforzi dei medici in prima linea, raffigurati dai media statali come veri e propri martiri della patria, con il volto segnato dalle mascherine e stremati dal troppo lavoro, in alcuni casi fino a perdere la vita”, una retorica alla quale dovremmo stare molto attenti anche qui, dove i medici morti sono più di un centinaio e molti potevano essere salvati semplicemente con un adeguato equipaggiamento. Intanto alcuni accademici cinesi, in una lettera aperta che circola sul web da qualche settimana, hanno lanciato l’appello “Non lasciamo che Li Wen Liang sia morto invano” chiedendo “le scuse del Governo", "il rispetto della Costituzione", che almeno formalmente garantisce la libertà di parola, e di istituire nella data della morte di Li la “Giornata della libertà di parola”. Per gli accademici, tra i quali figurano intellettuali come il famoso professore di legge Xu Zhangrun, dell’università Qinghua, e l'avvocato per i diritti umani Xu Zhiyong fondatore del New Citizen Movement, la morte di Li Wenliang “non deve spaventarci, ma incoraggiarci a parlare chiaro”. La risposta di Pechino è stato l'arresto di entrambi gli Xu.
Anche per Wang Yu, nota attivista per i diritti umani, “le autorità sono colpevoli di aver nascosto la pandemia, e anche la morte del dottor Li ha aspetti poco chiari”. Ma l’attacco più deciso al regime è venuto dalla penna di Ren Zhiqiang, il noto miliardario membro del Partito, in un articolo del 23 febbraio, senza mai citare Xi, definisce un alto funzionario del Pcc “un pagliaccio che continua a credersi imperatore nonostante il fatto che sia rimasto senza vestiti”. Di Ren non si hanno più notizie dal 12 marzo. La stessa sorte è toccata alla dottoressa di Wuhan Ai Fen, che ha lanciato pubblicamente l’allarme sul coronavirus dopo aver parlato per la prima volta della nuova infezione il 30 dicembre in una chat privata con i colleghi del suo ospedale, tra i quali anche Li Wenliang. Anche uno studente universitario dello Shandong, Zhang Wenbin, è scomparso il 30 marzo dopo aver postato un video in cui chiede a Xi di dimettersi. Se è vero che l'elenco degli scomparsi potrebbe essere molto più lungo, è evidente che quando il regime cinese commette un errore eclatante, offre alla società civile l’opportunità di emanciparsi un po'. Ricordate il terremoto del 2008 a Wenchuan nel Sichuan? Le statistiche ufficiali parlavano di 69.227 morti e 17.923 scomparsi, quelle non ufficiali di 300.000 vittime sepolte sotto centinaia di strutture malandate chiamate dai critici che si sono esposti in quell’occasione “edifici di tofu”. Per questo il 2008 è considerato “l’anno inaugurale della società civile cinese”, cominciato proprio quando intellettuali come Ai Weiwei e Tan Zuoren hanno fatto indagini sulle strutture pericolanti nel Sichuan e numerosi giornalisti hanno perso lavoro e libertà cercando di compilare un elenco completo dei morti nella tragedia. Oggi la pandemia ha dato nuovamente alla società civile cinese la rara opportunità di farsi vedere e non solo indossando mascherine protettive con la scritta “libertà di espressione”.
Alessandro Graziadei
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