La lotta al Covid-19 a livello globale non è sempre affrontata all’interno dello stato di diritto, per questo l’emergenza sanitaria potrebbe avere effetti sociali peggiori di quelli sanitari. La pandemia di Coronavirus, infatti, è già stata usata come pretesto da numerose nazioni dell’Asia (siano esse democrazie liberali o regimi dittatoriali) per limitare la libertà e molti diritti umani e civili dei propri cittadini. È questo l’allarme lanciato da Michelle Bachelet, ex presidente del Cile e Alto commissario Onu per i diritti umani (Ohchr) che ha recentemente invitato a prestare attenzione alla situazione di almeno 12 Paesi asiatici che in tempo di Covid-19 hanno represso il dibattito pubblico in nome della lotta alle fake news. A quanto pare in Bangladesh, Cambogia, Cina, India, Indonesia, Malaysia, Myanmar, Nepal, Filippine, Sri Lanka, Thailandia e Vietnam, “Sono stati segnalati numerosi arresti per aver espresso malcontento o semplicemente per aver diffuso presunte informazioni false attraverso la stampa e i social media”. Per l’Alto Commissario le norme emergenziali introdotte da questi governi “sollevano molti dubbi in tema di diritti umani” e “sono state sfruttate per minare il dibattito pubblico”, in particolare “la legittima critica della società civile” alle leadership al potere.
Data la natura eccezionale della crisi è chiaro che anche gli Stati hanno bisogno di poteri altrettanto eccezionali per rispondervi, ma danneggiare diritti come la libertà di espressione può causare danni incalcolabili. “I governi - ha spiegato la Bachelet - hanno il dovere e tutto l’interesse a controllare la diffusione di informazioni” in un contesto pandemico, che è per definizione “volatile e sensitivo”, ma quest’opera deve essere “proporzionata e deve proteggere comunque la libertà di espressione” e non essere utilizzata “come arma per mettere a tacere l’opposizione, controllare la popolazione o rimanere al potere”. Insomma anche in tempi di grande incertezza medici, giornalisti e attivisti pro diritti umani devono poter “esprimere opinioni su questioni di pubblico interesse e vitale importanza”, come le modalità di cura o le misure per fronteggiare la crisi socio-economica legata all’emergenza sanitaria. Per l’Alto Commissariato Onu il caso del Vietnam è emblematico. Qui nelle scorse settimane la polizia ha convocato oltre 600 persone per chiedere spiegazioni in merito a post pubblicati su Facebook inerenti il Covid-19. In molti casi le autorità hanno comminato sanzioni amministrative e ordinato la cancellazione dei post, in altri non sono mancate le condanne al carcere fino a nove mesi e pene pecuniarie superiori ai mille dollari.
Il Vietnam era già da tempo sotto la lente di osservazione degli esperti dello Ohchr, per i numerosi casi di restrizioni alla libertà di stampa e le sentenze di condanna verso persone ed associazioni che si battono per i diritti e la libera espressione. Secondo la ong spagnola Safeguard Defenders e un rapporto pubblicato in marzo dal titolo “Forzato in camera: Confessioni televisive in Vietnam”, il Governo vietnamita sta adottando da tempo anche alcune “tecniche cinesi”, soprattutto quando si tratta di trasmettere in televisione le confessioni forzate di attivisti per i diritti umani e altri prigionieri politici. I membri dell’organizzazione spagnola hanno individuato 21 persone che, a partire dal 2007, sono state costrette dalle autorità a confessare crimini in televisione. Di questi ultimi, 14 sono personalità impegnate nella difesa dei diritti umani: avvocati, giornalisti, cittadini che protestano contro la sottrazione di terre e la mancanza di diritti civili, ed è possibile che tecniche analoghe vengano utilizzate anche con la scusa del Covid-19 e la diffusioni di notizie false. L’allarme lanciato dalle Nazioni Unite sul rispetto dei diritti in Vietnam e arrivato quasi contemporaneamente all’assegnazione del Premio Voltaire 2020 della svizzera International Publisher Association, alla casa editrice vietnamita Liberal Publishing House (Lph). La Lph, fondata nel febbraio 2019 a Ho Chi Minh City, è il solo editore indipendente del Paese ed ha più volte sfidato la censura governativa, rendendo fruibili al grande pubblico molte opere di scrittori dissidenti locali. “Questa crisi - ha concluso la Bachelet - non deve essere usata come pretesto per reprimere il dissenso o il flusso di informazioni […] Questo dibattito è cruciale per le nazioni, affinché possano costruire un futuro migliore e solido archiviata la crisi”.
Intanto negli Emirati Arabi Uniti, alla periferia di Abu Dhabi, la scorsa settimana alcune decine di giovani migranti, in gran parte provenienti dal Sud Est Asiatico, hanno promosso una manifestazione di protesta per il mancato pagamento dei salari. Si tratta di un evento eccezionale, se non unico in una realtà come quella del Golfo, dove i lavoratori sono spesso sfruttati con il benestare internazionale. Una protesta frutto della pandemia che ha impresso un durissimo colpo all’economia globale, provocando la chiusura di attività, il blocco ai cantieri, la perdita del lavoro e il crollo nei salari, un fenomeno che in questa parte del pianeta ha conseguenze ancor più drammatiche perché colpisce con particolare forza i lavoratori arrivati dall’Asia. Questi ultimi non beneficiano dei sussidi per la disoccupazione e non riescono a inviare alle famiglie nei Paesi d’origine in Bangladesh, nelle Filippine, in Nepal e in Vietnam il denaro necessario per sopravvivere. Come se non bastasse con il blocco dei cantieri molti lavoratori asiatici sono da settimane confinati in cantieri e centri di accoglienza che sono diventati focolai di contagio da Coronavirus. “Sono due mesi - ha raccontato un migrante indiano in una delle rare occasioni di protesta, con il volto coperto - che il nostro datore di lavoro non ci paga. Pur ricevendo del cibo abbiamo molti problemi di salute […] ed è per questo che impediamo alle poche persone che ancora lo fanno, di andare al lavoro”.
Purtroppo non si tratta di casi isolati. Più volte abbiamo ricordato su Unimondo.org che i migranti costituiscono circa il 95% della forza lavoro in molte nazioni del Golfo, fra cui Emirati e Qatar, che da anni li sfruttano anche per la realizzazione degli stadi per i mondiali qatarioti del 2022. Non è un caso che questa crisi abba interessato molti "cantieri mondiali" ed in particolare il gigante dell’edilizia francese Altrad e la AMB-Hertel, una filiale locale negli Emirati della Altrad, la cui sede principale è a Montpellier. Secondo Le Monde, il mancato pagamento dei salari e il numero crescenti di contagi fra i lavoratori, in molti casi asintomatici, di questa azienda è una condizione “normale” che ha portato ad un aumento esponenziale dei licenziamenti. Per Andy Hall, militante pro diritti umani con base in Nepal, “come molte multinazionali che operano nel Golfo anche la Altrad approfitta dell’assenza totale dei sindacati nella regione, per fare un po’ quello che le pare”. In Francia “pratiche di questo tipo non sono affatto consentite. Ma nel Golfo, con lavoratori meno istruiti, e fra i più vulnerabili al mondo, tutto questo viene permesso”.
Alessandro Graziadei
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