domenica 7 giugno 2020

Vaia: uno sguardo lungo oltre l’emergenza

La percezione dell’estrema vulnerabilità (e dei mezzi limitati per fronteggiare la potenza della natura) è probabilmente il più forte e duraturo lascito che Vaia ci ha messo sulle spalle. Una lezione, almeno per chi intende imparare”. Il libro di Diego Cason e Michele Nardelli “Il monito della ninfea” parte dalla tempesta che ha sconvolto le Dolomiti nel 2018 per parlarci della “cultura del limite” e lo fa con uno sguardo lungo che va ben oltre l’emergenza. 

Nella sera e nella notte di lunedì 29 ottobre, in molti luoghi delle Dolomiti, a distruggere tutto è stata una tempesta che porta il nome di una signora tedesca: Vaia Jakobs. È lei che ha ricevuto la possibilità di dare il proprio nome alla bassa pressione che ha attraversato l’Europa nel 2018 e che l’Istituto Meteo dell’Università di Berlino vende dal 1950 per finanziarsi. Nonostante l’allerta meteo, pochi potevano immaginare che la signora Vaia Jakobs sarebbe stata ricordata per i venti tra i 120 e i 190 km/h e i rovesci da 700 millimetri di pioggia in 72 ore, che hanno investito 494 comuni, lasciando in eredità 8 morti (2 in Trentino) e più di 42.500 ettari di bosco schiantato (circa 8,6 milioni di metri cubi di legname). Al netto di altri disastri, visto che Vaia è stato un evento che ha inaugurato la “possibilità continua” di fenomeni tipici delle ree tropicali anche nelle Dolomiti, per rimettere tutto a posto forse non basteranno cent’anni. Solo in Trentino i danni causati da Vaia ad edifici privati e alle infrastrutture pubbliche sono stati quantificati in 360 milioni di euro, mentre altri 12 milioni e mezzo serviranno per ripristinare la viabilità forestale. Ma ad essere “divelta e schiantata” quella notte non è stata solo la vita e l’economia delle comunità montane, ma anche quella cieca fede nello “sviluppo scorsoio” che oggi rappresenta il paradigma imperante della società globale. Purtroppo, però, nonostante la lezione di Vaia e quella ancora più recente impartita dalla pandemia da Covid-19, la nostra percezione sociale del rischio è spesso sottostimata rispetto al pericolo reale. 

Non è un caso. “Gli uomini hanno lo sguardo miope e la memoria corta” scrivono Diego Cason e Michele Nardelli ne “Il monito della ninfea”, un bel libro pubblicato a fine gennaio 2020 da Bertelli editore, che ci può aiutare a capire, con uno sguardo lungo che va ben oltre l’emergenza, come dopo Vaia dovremmo cominciare ad interrogarci sulla nostra sostenibilità a partire dalla “cultura del limite. Del resto si domandano gli autori “Che cosa deve accadere affinché ci si interroghi su un modello di sviluppo che nei primi sette mesi del 2019 ci ha portati a consumare tutto quello che gli ecosistemi terrestri producono in un anno? […] “Che cosa deve ancora accadere per comprendere la nostra insostenibilità?”. Come ha ben scritto Gianfranco Bettin nella prefazione al libro “L’enfasi prevalente dopo la catastrofe [similmente a quanto sta accadendo in questi mesi con la pandemia di Covid-19] è stata posta sulla riparazione dei danni, sul risarcimento, sulla ricostruzione ma in una logica fin troppo simile a quella che localmente ha prodotto il dissesto precedente”. La montagna in questo senso è una “pietra d’inciampo” capace di evidenziare la posizione subordinata dell’uomo nella natura e di invitarci a non continuare a rincorrere emergenze. Per Cason e Nardelli “Non basterà piantare un miliardo di alberi se nel frattempo non la piantiamo di produrre CO2 in eccesso”. Vaia, infatti, non è stata un’emergenza isolata, è stata “L’esito di qualcosa di più grande ancora, il surriscaldamento della terra e dei mari. Esito, a sua volta, delle emissioni eccessive nell’atmosfera di anidride carbonica e della deforestazione globale. Esito finale di modelli di sviluppo, di comportamenti collettivi e individuali insostenibili. In breve siamo arrivati a noi e alle nostre scelte”.

Noi appunto. Come ha recentemente ricordato lo scrittore americano Jonathan Safran Foer, parlando di cambiamenti climatici “Nessuno se non noi distruggerà la Terra e nessuno se non noi la salverà. Noi siamo il Diluvio e noi siamo l’Arca” e anche se definire strategie d’uscita non è l’oggetto di questo libro, per gli autori Vaia alcuni suggerimenti li ha dati. Dobbiamo essere capaci di ripensate i nostri stili di vita, il rapporto tra città e montagna, magari ridando valore alle comunità montane e al loro autogoverno, contrastandone lo spopolamento, difendendone la cultura e cercando di coniugare tradizione e modernità in modo sostenibile, per consegnare alle generazioni future non solo un “divertimentificio”, ma un luogo abitabile e se possibile migliore di come lo abbiamo trovato. In questo senso per Cason e Nardelli non mancano i segnali positivi: “La devastazione delle Dolomiti ha messo in moto nelle comunità montane energie e forme di coesione che ci parlano di un tessuto sociale ancora in grado di reagire alle avversità” ed “È a questo agire comunitario che deve andare la nostra attenzione, il nostro plauso e la nostra solidarietà”. Forse è arrivato veramente il momento di ripensare agli errori di politiche nazionali, regionali e locali per decidere “Se le Dolomiti siano un patrimonio dell’umanità solo quando se ne vuol godere, oppure se lo siano anche quando si tratta di proteggerle e favorirne la manutenzione e di decidere se gli abitanti di questi luoghi magnifici e pericolosi siano decisivi per mantenerli e curarli, o se vanno lasciati estinguere perché ci piace pensare che le Dolomiti siano il frutto della sola evoluzione naturale”. Per fare questo salto culturale occorre aprirsi ad una visione che provi a risintonizzare gli esseri umani con la natura: “Sono almeno duecento anni che pensiamo e agiamo nel mito prometeico delle magnifiche sorti progressive. L’esito lo abbiamo visto sotto i nostri occhi. Un cambio di paradigma, che faccia propria la cultura del limite, è ancora rinviabile?” 

La risposta è no e ce lo ricorda anche l’enigmatico titolo di questo libro, felicemente estratto da uno degli ultimi saggi del filosofo Remo Bodei: Resta pur sempre valido il monito espresso dall’immagine della ninfea che raddoppia quotidianamente le sue dimensioni, di modo che, il giorno che precede la copertura dell’intera superficie dello stagno la metà ne resta ancora scoperta, per cui quasi nessuno, alla vista di tanto spazio libero, è portato intimamente a credere all’imminenza della catastrofe”. Chiunque potrà leggere in questo monito analogie che vanno ben oltre la salute delle nostre Dolomiti e capire che non andrà tutto bene se non sapremo governare il limite mettendo in discussione in modo radicale lo stile di vita che fino ad oggi la nostra dismisura non ha mai saputo e voluto negoziare.

Alessandro Graziadei

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