I popoli indigeni sperimentano sulla loro pelle ogni giorno il razzismo a causa della loro origine etnica in USA, Canada, Australia e in molti altri paesi. Per questo l’Associazione per i Popoli Minacciati (Apm) ha chiesto di intensificare le iniziative istituzionali utili nella lotta al razzismo e per la tutela dei diritti dei popoli indigeni. Per l’associazione che dal 2008 dà voce ai popoli indigeni e alle minoranze etniche, linguistiche e religiose minacciate e perseguitate, “Le aggressioni arbitrarie della polizia sono particolarmente impressionanti, ma questa è solo la punta dell'iceberg. Ovunque, questo razzismo è anche un problema per la società nel suo complesso e non deve essere ridotto solo alla violenza inappropriata da parte della polizia”. Per l’associazione è sempre più urgente “Sviluppare nuovi programmi per combattere i pregiudizi e il razzismo contro le popolazioni indigene”, intanto “Non si deve più accettare che le popolazioni indigene siano sempre più frequentemente arrestate e diventino vittime del razzismo a causa della loro origine etnica”.
L’allarme, al pari delle proteste nate attorno al movimento #BlackLivesMatter non si limitano agli USA. In Canada, per esempio, da diverse settimane si sta discutendo sul razzismo sistematico della polizia contro gli indiani, dopo che è stato reso pubblico il video dell'arresto violento di un leader indigeno nella provincia dell’Alberta. Allan Adam dell’Athabasca Chipewyan First Nation è stato arrestato il 10 marzo 2020 scorso dalla polizia dopo essere stato ripetutamente colpito alla testa da due poliziotti (subendo gravi lesioni facciali) e aver rischiato la vita con una manovra di soffocamento. Come nell’occasione dell’uccisone di George Floyd e di Rayshard Brooks un video mostra chiaramente come Adam si fosse pacificamente lamentato dei frequenti controlli della polizia e avesse esortato gli agenti a non molestare e arrestare arbitrariamente la moglie. Dopo le proteste pubbliche, le indagini interne della polizia canadese sono state avviate sulla base del video, ma Adam è ancora sotto inchiesta per aver opposto resistenza alle autorità, nonostante il suo avvocato abbia chiesto l’immediata chiusura del procedimento a suo carico.
Anche in Australia in questi giorni si sono riaccese le critiche verso i comportamenti della polizia nei confronti degli aborigeni. Nelle scorse settimane a Sydney centinaia di persone hanno protestato contro questo razzismo di Stato: “È inaccettabile che gli indigeni in Australia abbiano un rischio di finire in prigione venti volte superiore a quello dei membri della società maggioritaria - ha detto un dimostrante la cui testimonianza è stata raccolta dall’Apm -. Sebbene gli aborigeni rappresentino solo il 3 per cento della popolazione, essi costituiscono il 30 per cento dei detenuti nelle carceri australiane”. Per l’Apm è stato “Incoraggiante vedere migliaia di persone in Canada e in Australia che pur non appartenendo a delle minoranze hanno denunciato e ripudiato il razzismo contro gli indiani nel loro Paese durante le proteste in piazza”, ma non sempre la violenza è documentata nei video, e talvolta è “istituzionale”. Come mai per esempio le popolazioni indigene degli Stati Uniti sono state colpite in modo sproporzionato dalla pandemia di Covid 19? Secondo l’Apm “La reazione ritardata e caotica del governo federale americano alla diffusione della malattia ha colpito ancora più duramente gruppi di popolazione già vulnerabili”.
Di norma nelle riserve gli stipendi sono tra i più modesti del paese (al pari delle abitazioni) per questo l’iniziale esclusione dagli aiuti finanziari di stato ha costretto molti indiani a cercare piccoli lavoretti con spostamenti che hanno favorito il contagio. “Solo in seguito sono stati approvati aiuti finanziari, sebbene insufficienti, ma anche questo denaro non è ancora arrivato ovunque: lo sforzo burocratico per le amministrazioni tribali è enorme” ha spiegato l’Apm. Nel caos a stelle e strisce, quindi, quando i pacchetti di aiuti sono stati finalmente messi insieme a Washington, gli indigeni sono stati semplicemente dimenticati e così alcune popolazioni native hanno iniziato a proteggere se stessi e le loro riserve in modo autonomo. Purtroppo in molti casi era troppo tardi. I fattori di rischio sono molto comuni tra i nativi americani e per l’Apm “Molti indiani soffrono di tubercolosi, diabete e malattie cardiovascolari. E questo spiega in parte i numeri alti dei decessi. Altri fattori però si aggiungono: spesso manca l’acqua nelle riserve, il che rende più difficili le misure igieniche. Alcune famiglie abitano isolate e possono essere raggiunte solo con molta difficoltà. La rete stradale è limitata e le strutture mediche sono rare”. Come se non bastasse le informazioni per tutelarsi dal contagio da Covid-19 sono state rese disponibili quasi sempre solo in inglese, che non è sempre parlato da tutti i membri delle famiglie indiane.
Anche per questo nel solo stato del New Mexico, secondo i dati ufficiali, la metà dei decessi da Covid-19 sono indigeni. Tutto questo ha portato alcune comunità a regolamentare l’accesso alle loro riserve come stanno facendo i Lakota del Sud Dakota che stanno cercando di tenere il virus lontano da Pine Ridge e dal fiume Cheyenne. La governatrice dello stato, Kristi Noem, vorrebbe impedire questa sorta di autogestione della pandemia con un’ordinanza del tribunale. “Nella pandemia, i nativi americani sono stati prima dimenticati dal governo e poi trattati con eccessiva negligenza. Ora viene anche attivamente impedito loro di adottare misure di protezione. I governi tribali conoscono meglio le persone e i propri territori e sanno cosa bisogna fare: in questo le autorità statali e i politici dovrebbero sostenerli” ha concluso l’Apm. Intanto in Europa la violenza della polizia capita vada oltre il razzismo e mentre un video mostra dei poliziotti francesi in assetto antisommossa che tengono un’infermiera bloccata a terra e poi la trascinano con violenza per i capelli arrestandola (fonti della polizia dichiarano perché precedentemente impegnata in una sassaiola), qui in Italia tornano alla mente i casi di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi e di Giuseppe Uva e con questi l’urgente necessità di ripensare alla preparazione delle forze dell’ordine che portano la responsabilità enorme dell’utilizzo legittimo della forza da parte dello Stato. Forse si potrebbe cominciare almeno dall'obbligo di usare codici identificativi visibili per tutti gli agenti?
Alessandro Graziadei
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