Come possiamo prepararci al meglio alla prossima crisi? Che si tratti di un’altra pandemia di salute globale, dell’emergenza dettata dai cambiamenti climatici o di una crisi economica, è indispensabile partire da un’analisi basata su dati utili ad identificare i rischi, le vulnerabilità e le capacità di risposta dei singoli paesi. Di questo, anche quest’anno, si è occupato il Fragile States Index (FSI) che ha messo in fila le fragilità di 178 Stati stilando una classifica mondiale che ci fa capire a che latitudine le emergenze, come il Covid-19, possono maggiormente destabilizzarci. Presentato lo scorso mese da Fund for Peace e The New Humanitarian quest’analisi è in effetti un invito all’ottimismo, almeno guardando a come è cambiato il Mondo dalla prima edizione del FSI nel 2005. Ma l’effetto Covid? Per Messner de Latour, direttore esecutivo di Fund for Peace, “Non vi è dubbio che il FSI del 2021 sarà dominato dalle ricadute sociali, economiche e politiche del Covid-19, ed è molto probabile che alcuni dei Paesi maggiormente colpiti finora, come Cina, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Spagna e Italia, registreranno una pressione significativamente maggiore”. Secondo Latour “Vi sono ancora fragilità e vulnerabilità diffuse, molta povertà e disuguaglianza, conflitti e poca libertà. Ma nel lungo termine, il mondo sta diventando costantemente meno fragile. Spesso ci vogliono dati precisi come quelli prodotti dal FSI, per dimostrare che stiamo facendo progressi significativi”.
Sempre secondo de Latour l’analisi annuale elaborata da Fund for Peace non è però solo una classifica, ma serve a comprendere le più profonde debolezze della società che la crisi ha scoperto e i dati saranno fondamentali per poter raccontare questa storia in modo oggettivo: “Solo attraverso una valutazione sobria e critica delle vulnerabilità di base che il Covid-19 sta mettendo a nudo a livello globale, infatti, saremo in grado di superare il giustificabile panico che accompagna la pandemia per capire come ci riprenderemo e, forse ancora più importante, pianificare e preparare l’inevitabile prossima crisi”, ha spiegato il direttore esecutivo di Fund for Peace. Ad oggi, però, secondo i 12 indicatori quantitativi e qualitativi utilizzati dal FSI per valutare la fragilità attraverso una metodologia triangolata che integra milioni di documenti estratti da oltre 10.000 fonti in tutto il mondo, il paese che è peggiorato di più è il Cile, “che finora aveva mostrato progressi costanti ed era tra i 30 Paesi più stabili del FSI, ma il cui modello ha mostrato tutte le crepe di fronte alle proteste contro le politiche neoliberiste e la disuguaglianza economica e sociale, contrastate con brutalità dal governo di destra. Una deriva economica e sociale che ha minato i recenti miglioramenti del Cile post-dittatura fascista di Pinochet”. Ma il Pese più fragile del mondo si conferma per il secondo anno di fila lo Yemen diviso da una guerra che ha causato una delle più grandi catastrofi umanitaria mondiali. Secondo Fund for Peace “Si dovrebbe prestare maggiore attenzione al rapido peggioramento della situazione nello Yemen negli ultimi 10 anni e all’instabilità per causa delle quali la sua popolazione soffre indicibilmente”. Al secondo posto troviamo la Somalia, l’ex colonia italiana che per molti anni ha occupato il primo posto in questa classifica.
Se altri tre Paesi che escono da guerre e sanguinosi conflitti interni, cioè Sudan, Iraq e Kenya, sono stati in grado di migliorarsi, quello che ha registrato i maggiori progressi sono le Maldive, che, tornate alla democrazia dopo il golpe della destra islamista, “ha continuato una tendenza a lungo termine di miglioramento pressoché costante che ha visto il Paese passare dal 66esimo posto nel 2007 al 99esimo nel 2020”. Tra i paesi che hanno registrato un trend positivo troviamo anche molte “repubbliche” ex sovietiche che con Bielorussia, Georgia, Kirghizistan, Moldova, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan sono ormai stabilmente nella top 20, insieme alla Colombia e allo Sri Lanka. Riprendersi da un conflitto o semplicemente non essere in guerra è per molti di questi paesi un miglioramento molto significativo, nonostante alcuni continuino ad essere dittature o regimi autocratici dove le libertà civili vengono sistematicamente sospese. Per i redattori del rapporto occorre notare come esista un’importante distinzione nella capacità di ridurre la fragilità nel tempo: “quando i Paesi iniziano da un punto di partenza mediocre, i progressi significativi sono molto più facili da rilevare e misurare e persino riforme relativamente semplici possono ridurre notevolmente la fragilità di un Paese”.
Accanto poi a diversi altri “risultati tranquilli”, tra cui Cuba e la Costa d’Avorio “degni di credito per le riforme positive che alimentano lo sviluppo misurabile complessivo” per The New Humanitarian una delle storie più positive uscita dall'indagine di quest'anno è Haiti, “Costantemente migliorata nelle sue classifiche dopo il devastante terremoto del 2010, quest’anno ha compiuto ulteriori progressi, sebbene sia ancora tra i peggiori 15”. Una situazione quasi opposta a quella del Mozambico che è al 27esimo posto nella lista FSI, “ma negli ultimi 10 anni è al sesto peggioramento più grave, dietro le emergenze umanitarie più evidenti di luoghi come la Libia, la Siria, il Mali, lo Yemen e il Venezuela”. E l’Italia? Si piazza quest’anno al 143esimo posto, con un punteggio di 42,4 su un massimo di 120. Onorevolmente distante dai peggiori, ma non ancora vicina agli Stati migliori. Sicuramente l’emergenza Covid 19 ha evidenziato debolezza strutturali che si faranno sentire nella classifica FSI del 2021, ma ha anche dato alcuni parametri precisi per ripartire: per esempio dalla sanità, ricordandoci di chi per anni ha tagliato, privatizzato e monetizzato la sanità pubblica o ha investito cifre esorbitanti in inutili spese militari (come i caccia F 35 d’attacco solo uno dei quali basterebbe per finanziare 1.300 posti letto in terapia intensiva…) e iniziando a riprogettare da adesso strategie economiche più sensate e sostenibili, che mitighino le minacce del cambiamento climatico, della deforestazione, della perdita di biodiversità e quindi a livello globale anche della diffusione di pandemie da zoomosi, gettando le basi per un’economia verde e circolare, orientata veramente verso quei beni comuni sempre evocati, ma raramente tutelati dalla politica.
Alessandro Graziadei
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