Mentre alla COP26 di Glasgow si discute di clima e buoni propositi, noi proviamo a parlare di clima e responsabilità. Dalla rivoluzione industriale l’umanità ha emesso circa 2500 miliardi di tonnellate di CO2. Sulla base degli attuali tassi di crescita, il restante budget di carbonio per limitare il riscaldamento globale a 2° C rispetto ai livelli preindustriali, ovvero 900 miliardi di tonnellate di CO2, sarà completamente esaurito in solo 18 anni. Per limitare il riscaldamento globale a 1,5° C, invece, il budget rimanente di 300 miliardi di tonnellate di CO2 si esaurirà in 6 anni. Ma portiamo tutti lo stesso “peso” e la stessa responsabilità nella produzione globale di CO2? La disuguaglianza climatica nelle emissioni pro capite di CO2 esiste, ed è un solco profondo tracciato tra chi i cambiamenti climatici li produce e chi li subisce, con disuguaglianze nelle emissioni medie tra i Paesi e anche tra cittadini dello stesso paese. Attualmente le emissioni medie in Europa sono vicine a 10 tonnellate di CO2 per persona e per anno. In Nord America, l’individuo medio emette circa 20 tonnellate di CO2. Questo valore è di 8 tonnellate in Cina, 2,6 tonnellate nel sud e sud-est asiatico e 1,6 tonnellate nell’Africa sub-sahariana. Di fatto il Nord America e l’Europa sono responsabili di circa la metà di tutte le emissioni dalla rivoluzione industriale. Tenendo conto, poi, delle emissioni incorporate nelle importazioni e nelle esportazioni, i livelli di emissioni europee aumentano di circa il 25% e si riducono le emissioni in Cina e nell’Africa subsahariana rispettivamente di circa il 10% e il 20%.
Nello studio uscito a fine ottobre dal titolo “Climate change & the global inequality of carbon emissions, 1990-2020”, Lucas Chancel, del Laboratoire sur les Inégalités Mondiales dell’École d’économie de Paris, basandosi su una raccolta di dati sulla disuguaglianza di reddito e ricchezza appena assemblato dal World Inequality Database, ha stimato la disuguaglianza globale delle emissioni di gas serra tra il 1990 e il 2019, sostenendo che “Il 10% più ricco della popolazione mondiale ha emesso quasi il 48% delle emissioni globali nel 2019, l’1% più ricco il 17% del totale, mentre la metà più povera della popolazione mondiale solo il 12%”. A livello globale, quindi, 771 milioni di individui, emettono in media 31 tonnellate di CO2 per persona all’anno mentre altri 3,8 miliardi di individui emettono in media 1,6 tonnellate a persona, il restante 1% più ricco al mondo ne emette in media 110 tonnellate in un anno. Se la disuguaglianza storica delle emissioni tra i Paesi arricchiti e quelli impoveriti è da decenni molto ampia, per Chancel dal 1990 le emissioni dell’1% più ricco sono aumentate più velocemente di qualsiasi altro gruppo a causa dell’aumento delle disuguaglianze economiche all’interno dei Paesi e a causa del contenuto di carbonio dei loro investimenti. Negli ultimi 30 anni, intanto, i livelli di emissioni pro capite della metà più povera della popolazione mondiale sono aumentati solo moderatamente, passando da 1,2 tonnellate a 1,6 tonnellate nel periodo, tanto che le emissioni medie del 50% più povero del mondo rimangono oggi circa 4 volte al di sotto della media globale e il miliardo di individui più poveri della terra emette meno di una tonnellata di CO2 pro capite all’anno.
Anche all'interno di molti Paesi arricchiti le emissioni pro capite della metà più povera della popolazione sono diminuite dal 1990, contrariamente a quelle dei gruppi più ricchi. Per questo gli sforzi della politica internazionale in questa COP26 dovrebbero essere in gran parte concentrati sulla riduzione dei livelli di emissioni della metà a più alto reddito della popolazione e in particolare del 10% più alto e le autorità pubbliche dovrebbero effettuare una valutazione sistematica dei beneficiari e dei perdenti nelle politiche climatiche. Purtroppo però i Paesi non dispongono oggi di informazioni di base aggiornate per tenere traccia delle disuguaglianze nelle emissioni di carbonio. Che fare? Per Chancel è urgente “sviluppare sistemi di monitoraggio pubblici per misurare le emissioni di carbonio degli individui, con particolare attenzione alle emissioni di carbonio incorporate nei consumi e nei portafogli di investimento. Sulla base di dati migliorati sulla disuguaglianza del carbonio, la politica pubblica potrebbe fissare target chiari in termini di riduzione delle emissioni pro capite (non solo in termini di totali nazionali) e sviluppare sistemi informativi che consentano alle persone di controllare la distanza tra i propri livelli di emissioni e gli obiettivi nazionali pro capite”. Il tema chiave per vincere la battaglia contro il cambiamento climatico è il ricorso all’equa tassazione. “Negli ultimi decenni le politiche climatiche sono state sostenute in modo sproporzionato dai consumatori a basso reddito, in particolare attraverso le tasse sul carbonio e sull’energia. Dovrebbe, invece, essere posta maggiore enfasi sugli inquinatori ricchi. Questo può essere fatto attraverso strumenti politici mirati agli investimenti in attività inquinanti e fossili”. Tasse patrimoniali progressive sulla proprietà di attività inquinanti potrebbero accelerare i disinvestimenti, ridurre i livelli di inquinamento e generare le risorse tanto necessarie per aumentare gli investimenti nelle infrastrutture a low-carbon. Infine, dovrebbe essere vietata la proprietà e la vendita di assests associati a nuovi progetti fossili.
Una tassazione globale progressiva sugli inquinatori, come quella presentata e proposta in questo studio, potrebbe generare l’1,7% del reddito globale. Una parte significativa di queste entrate potrebbe essere destinata alla transizione verde per finanziare investimenti climatici senza costi finanziari aggiuntivi per i gruppi a basso e medio reddito. Gruppi che nei paesi impoveriti diventano spesso le vittime incolpevoli del fenomeno dei migranti ambientali. Per Legambiente e il suo dossier 2021 I migranti ambientali. L’altra faccia della crisi climatica “Ecco la relazione biunivoca, il nodo indissolubile tra l’ingiustizia ambientale e climatica e l’ingiustizia sociale, la chiave con cui sempre più spesso anche il fenomeno migratorio deve essere letto, che è quasi sempre l’unica politica di adattamento ai cambiamenti climatici effettivamente messa in campo e diventa l’unica alternativa possibile alle povertà sociali, economiche, ambientali e alle sopraffazioni. Migrare troppo spesso diventa l’unica risposta a queste complessità che gli uomini e le donne mettono in atto per potersi assicurare un futuro migliore”. Secondo il report Global Trends dell’UNHCR, nel 2020, 82,4 milioni di persone (di cui il 42% sono minori ) sono state costrette a migrare, un numero quasi raddoppiato rispetto a quello riportato per il 2010, e aumentato del 16,4% rispetto al 2018. Nonostante le analisi dell’ONU parlino sempre più di crescita esponenziale del numero di persone costrette ad abbandonare il proprio luogo di vita per disastri ambientali e climatici, non esiste una rilevazione quantitativa del migrante ambientale e climatico perché questa figura, che oggi paga un conto che non è suo, non è ancora riconosciuta nella legislazione internazionale.
Alessandro Graziadei
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