In inglese si definisce “preparedness” ed è traducibile con “preparazione”, ossia la capacità di trovarsi con gli strumenti e i piani (per esempio quello pandemico aggiornato) capaci di fronteggiare una determinata emergenza. Il Covid-19 ha dimostrato che tale capacità non è data solo dalle risposte emergenziali della politica messe in campo per arginare le conseguenze sanitarie, economiche e sociali di questa pandemia, ma anche e soprattutto dalle risorse e dall’organizzazione dei diversi sistemi sanitari, un dato, quest’ultimo, fortemente legato alla spesa pro-capite investita nella sanità. Quella italiana, secondo i più recenti dati OECD relativi al 2019, è di 2.473 Euro, il che fa del Belpaese uno dei Paesi dell’Unione europea che spende meno in sanità e tra i pochi ad aver tagliato le risorse destinate a questo settore negli anni della crisi economica tra il 2008 e il 2013. Per l'OECD si tratta di una cifra decisamente inferiore a Paesi come Francia e Germania che ne spendono rispettivamente 3.644 euro e 4.504 euro pro-capite e inferiore anche a quella della media europea che è di 2.572 euro. Il nostro Paese, infatti, è stato tra i pochi ad adottare una strategia restrittiva in ambito sanitario per imboccare la via della ripresa e così negli ultimi anni la forbice con gli altri grandi Paesi industrializzati si è allargata progressivamente.
Partendo da analoghi criteri, ma con diversi parametri, anche Lenstore in una sua ancora più recente analisi ha inserito l’Italia al 17° posto, sempre in una classifica che calcola la spesa in assistenza sanitaria pro capite e che ci pone anche qui dopo molti altri Paesi europei. Mentre l'Italia fa registrare una spesa sanitaria pro capite di 5.642,60 Euro, la Germania arriva a 7.654 Euro, mentre la Francia a 6.121 Euro e la Spagna a 6.035 Euro. Fuori dall’Unione, si assesta su valori analoghi anche il Regno Unito con 6.387 Euro pro capite. A precederci, nonostante registri una percentuale di PIL decisamente minore rispetto al Belpaese, l’Irlanda che si classifica in cima alla lista, se si considerano i paesi che investono di più nel sistema sanitario, con una spesa pro capite pari a 18.588,88 Euro. Per gli analisti di Lenstore “Essendo un paese di soli 5 milioni di abitanti, l’Irlanda trae grande beneficio dalle spese effettuate dal governo per garantire l’assistenza sanitaria a tutti i residenti”. Quasi come l’Islanda che occupa il secondo posto, spendendo 11.184,67 Euro in assistenza sanitaria pro capite, seguita dalla Norvegia che si classifica terza, con una spesa sanitaria di 10.952,14 Euro pro capite, la Svezia con 9.055 Euro, la Danimarca con 8.519 Euro e la Finlandia 8.277 Euro.
Con l’inizio della pandemia, tutti i paesi europei hanno dovuto fare i conti con l’efficienza dei propri servizi sanitari, ed avere a disposizione un numero alto di posti letto negli ospedali e di conseguenza nelle terapie intensive ha fatto la differenza in alcuni stati, specialmente nelle fasi di maggiore emergenza. In questo senso, i dati Eurostat del 2018 ripresi lo scorso anno da Openpolis sul numero di posti disponibili negli ospedali europei, sono utili a capire quanto preparata fosse l’Europa a tale sfida con i suoi 537,84 posti letto disponibili ogni 100mila abitanti nella media dei paesi europei. Un dato che risulta in calo rispetto al 2010, quando i posti letto disponibili erano 574 ogni 100mila abitanti. Osservando poi le differenze a livello nazionale, quella che è emerge è una situazione di ampia disparità tra paesi del nord e dell’est Europa che superano la media dei 537,84 posti ogni 100mila abitanti e altri che non arrivano neanche a 300 posti letto. Su 27 paesi membri, 13 hanno valori superiori alla media europea, come la Germania con più di 800 posti, seguita da Bulgaria 756,91, Austria 727,16 e Ungheria 701,29. In particolare la Bulgaria è tra i paesi europei che nel corso degli ultimi 8 anni ha incrementato maggiormente il numero di posti letto, con 95,25 posti in più ogni 100mila residenti. Gli stati che hanno aumentato questa disponibilità sono solo 4 su 27 e oltre alla già citata Bulgaria, ci sono anche la Romania (+68,34 ogni 100mila abitanti), l’Irlanda (+24,72) e il Portogallo (+7,37). Al contrario, tra le ultime posizioni della classifica ci sono Svezia con 213,79 posti ogni 100mila abitante, la Danimarca con 242,97, il Regno Unito con 249,56 e la Spagna con 297,15. In generale, i paesi scandinavi sono anche quelli che negli ultimi otto anni hanno tagliato il maggior numero di posti letto. La riduzione più drastica è quella della Finlandia (-224,2 posti ogni 100mila abitanti dal 2010 al 2018), seguita da Danimarca (-106,82) e Paesi Bassi (-103,50). In questo quadro l’Italia si trova tra gli ultimi in classifica per disponibilità del servizio, con 314,05 posti letto per 100mila abitanti, seguita solo da Irlanda, Spagna, Regno Unito, Danimarca e Svezia.
Nonostante questi posizionamenti non proprio onorevoli, il nostro sistema sanitario, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, resta uno dei migliori per qualità, accessibilità e soprattutto costi. Istituito nel 1978, pagato con le nostre tasse e dal 1982 integrato con il pagamento dei ticket relativi solo ad alcune prestazioni sanitarie da parte di chi non ha diritto all’esenzione, si è a lungo basato sui principi di universalità delle prestazioni sanitarie, l'uguaglianza nell’accesso alle cure e l'equità di cure a parità di condizioni di salute. Attualmente garantisce ancora una copertura universale in gran parte gratuita, con una copertura totale a beneficio di specifiche categorie come quella delle persone affette da patologie croniche. Eppure si potrebbe fare di più. Molto di più. Come ha rivelato Lenstore nella sua attenta analisi che ha catalogato anche le abitudini di spesa di 24 paesi, esplorando in particolare la spesa effettuata dai governi per la sanità e confrontandola con il capitale investito da questi stessi governi in altri settori, sono gli Stati Uniti, dove la sanità è prevalentemente privata e non pubblica, a vantare la più alta percentuale di spesa sanitaria sul totale del PIL, con il 9,2%. Norvegia e Danimarca si classificano in seconda e terza posizione tra i paesi che spendono la percentuale più alta di prodotto interno lordo in assistenza sanitaria, con una spesa dell’8,2%. L’Italia si classifica solo in 16esima posizione, registrando una percentuale del 6,8% di spesa in assistenza sanitaria sul totale del PIL.
Come mai? Si tratta di scelte politiche. L’amministrazione, il controllo e la distribuzione del budget per la spesa sanitaria in Italia sono controllati dal Governo che utilizza risorse stabilite ogni anno attraverso una legge di Stato che garantisce le entrate sanitarie con i ticket, i ricavi di attività private, di fondi statali e della fiscalità regionale con Irap e addizionale Irpef. È compito dell’esecutivo definire i benefici nazionali garantiti ai cittadini, residenti stranieri compresi, mentre alle regioni, invece, spetta il compito di organizzare, pianificare e fornire i servizi sanitari con il supporto delle autorità sanitarie locali. Capita così che la sanità non rispetti quei criteri di equità auspicati, visto che secondo l’Indice di Performance Sanitaria (IPS), elaborato dall’Istituto Demoskopika, almeno nel 2020 l’Emilia Romagna è stato il miglior sistema sanitario del nostro Paese secondo otto indicatori che valutano, tra le altre cose, la soddisfazione degli utenti per i servizi sanitari, la democrazia sanitaria, la speranza di vita e l’accessibilità dei servizi sanitari, intesa come la capacità di sostenere le spese per le cure. Oltre all’Emilia Romagna in testa alla classifica, i punteggi migliori sono stati realizzati dal Trentino Aldo Adige e dal Veneto che chiude il podio al terzo posto lasciando Campania, Calabria e Sicilia in coda a questa classifica, che ignora alcune eccellenze locali, ma offre purtroppo un quadro sanitario, al pari di quello europeo, estremamente diversificato, come a ricordarci che la nostra salute sia una variabile anche geografica, che non ha sempre lo stesso valore.
Alessandro Graziadei
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