sabato 30 luglio 2022

L’ambiente pandemico

 

Siamo ancora alle prese con il Covid 19 e le sue nuove varianti, ultima in ordine cronologico la Omicron BA.5 con il suo picco di contagi appena superati (si spera) in Italia. Intanto, sebbene i tassi di mortalità da Covid in Europa "siano rimasti stabili nelle ultime cinque settimane", i modelli epidemiologici "indicano che sia i tassi di notifica dei casi che i tassi di mortalità aumenteranno". È quanto scrive l'Ecdc in una nota che accompagna le "Considerazioni preliminari di salute pubblica per le strategie di vaccinazione Covid-19 nella seconda metà del 2022" pubblicate lo scorso 18 luglio. In vista dell'autunno, l'Ecdc indica l'urgenza di stabilire sistemi di sorveglianza solidi e integrati sulla pandemia e in generale sui virus respiratori. Un’emergenza che sembra non avere fine e che vede i progressi medici e l’analisi dei media ancora quasi esclusivamente concentrate sulle priorità immediate: salvare le persone e le economie da questo coronavirus. La nostra risposta a questa emergenza, però, dovrebbe cominciare ad affrontarne le cause di questa pandemia, che non possono essere liquidate con fatalismo. Proviamo a ripercorrere ed analizzare alcune criticità ambientali che il Covid-19 ha fatto emergere in questi anni.


Non era solo prevedibile, era prevista


Questa pandemia, dicono molti esperti, non era né imprevista, né inevitabile. Come ha ricordato già nel 2020 Andrew Cunningham, vicedirettore della Zoological Society of London, “L’emergere e la diffusione del Covid-19 non era solo prevedibile, ma era previsto ci sarebbe stata un’insorgenza virale proveniente dalla fauna selvatica che sarebbe stata una minaccia per la salute pubblica”. Qualche esempio: il virus della Sars che nel 2002-2003 ha causato più di 800 morti ed è costato più di 80 miliardi di dollari a livello globale avrebbe dovuto darci un indizio chiaro: è emerso dai pipistrelli, è passato alle civette delle palme e ha poi infettato le persone nei mercati di animali vivi della Cina meridionale. Nel 2007, lo studio “Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus as an Agent of Emerging and Reemerging Infection”, pubblicato su Clinical Microbiology Rewiews da un team di scienziati dell’università di Hong Kong ci ricordava che “La presenza di un grande serbatoio di virus simili alla Sars-CoV nei pipistrelli ferro di cavallo, insieme alla cultura del consumo di mammiferi esotici nella Cina meridionale, è una bomba a orologeria”. Nel 2012, nel saggio narrativo “Spillover”, lo scrittore e divulgatore scientifico David Quammen, coniugando la storia letteraria e l’analisi scientifica delle grandi epidemie si chiedeva se la prossima non potrebbe saltar fuori da “un mercato cittadino della Cina meridionale”. Nel 2015 è stata la volta del celebre Ted Tolks di Bill Gates nel quale ricordava come “Nel 2014, il mondo ha evitato un'orribile epidemia globale di Ebola, grazie a migliaia di operatori sanitari altruisti e, francamente, grazie a molta fortuna. Con il senno di poi, sappiamo che avremmo dovuto fare meglio”. Un anno dopo, nel 2016 lo studio dell’United Nations environment programme (Unep) “Emerging issues of environmental concern”, ci ricordava che “Le zoonosi [cioè le malattie trasmesse dagli animali all’uomosono ormai una concreta minaccia per lo sviluppo economico, il benessere animale, la salute umana e l’integrità degli ecosistemi”. Perché? Perché, non solo in Cina, il commercio e il traffico di fauna selvatica o di sue parti mette in stretto contatto specie diverse, facilita la ricombinazione genetica tra virus e con essa lo “spillover”, ovvero la capacità di infettare nuove specie, compreso l’uomo. Per questo Quammen,  nel 2020 sul New York Times, ricordava come questi virus siano ormai l’inevitabile risposta della natura ad un “ambiente pandemico” dovuto all’assalto dell’uomo alle risorse naturali, tanto che “Quando avrai finito di preoccuparti di questa epidemia, devi essere già pronto a preoccuparti della prossima”.


Prevenire è meglio che curare


Secondo la comunità scientifica è quasi sempre un comportamento umano che provoca le epidemie e in futuro ce ne dobbiamo aspettare sempre di più, se non cambieremo alcune abitudini alimentari. Per il professor Cunningham per esempio “I mercati dove si macellano animali selvatici vivi in ogni parte del mondo sono l’esempio più ovvio. […] Gli animali vengono trasportati su grandi distanze e vengono stipati insieme in gabbie. Sono stressati, immunodepressi ed espellono qualsiasi agente patogeno che hanno dentro di loro. Un gran numero di persone in un mercato e in stretto contatto con i fluidi corporei di questi animali crea l’emergenza [della malattia]. Se si vuole uno scenario per massimizzare le possibilità di trasmissione, non si potrebbe pensare a un modo migliore di farlo”. Rispetto all’attuale Covid-19, altre malattie della fauna selvatica passate all’uomo nello stesso modo hanno avuto tassi di mortalità molto più elevati nelle persone, come il 50% per l’Ebola e il 60% - 75% per il virus Nipah. A quanto pare, quindi, se negli ultimi decenni c’è andata “bene” è stato solo perché a morire erano “pochi” e “distanti” con malattie molto pericolose come la Sars, l’Ebola, l’influenza aviaria, la febbre della valle del Rift, il virus Nipah, il virus del Nilo occidentale o il virus Zika, tutte zoonosi che sono rimaste per lo più confinate nei Paesi in via di sviluppo. Analogamente per la direttrice dell’Unep Inger Andersen l’epidemia di Covid-19 è un chiaro avvertimento: “Nella fauna selvatica esistono malattie molto pericolose e la civiltà umana sta scherzando con il fuoco, visto che è quasi sempre il comportamento umano a causare la diffusione delle zoonosi negli esseri umani”. Se da anni il mondo scientifico sostiene che il cambiamento climatico, la deforestazione, la perdita di biodiversità, l’agricoltura e l’allevamento intensivi, l’aumento della popolazione e l’espansione edilizia fin dentro le aree protette, sono tutte occasioni che ci portano sempre più a contato con una fauna selvatica debilitata e sofferente, il problema più urgente rimane quello dei mercati urbani legali e illegali di animali vivi che diventano il posto ideale dove possono propagarsi le malattie infettive.  Per il  Wwf “È comprovato che il contatto con specie selvatiche come pipistrelli, civette delle palme, scimmie e altri animali (prevalentemente uccelli e mammiferi) possa portare all’insorgere e contribuire alla diffusione di gravi zoonosi. Non a caso le ricorrenti esplosioni di epidemie di Ebola sono spesso collegate al consumo di carne di scimmia contaminata”. Per la ong  “Ogni anno, solo in Perù, vengono cacciate e consumate 28.000 scimmie. In Indonesia oltre a scimmie e altri mammiferi selvatici vengono catturate ed esportate 25 tonnellate di tartarughe”, mentre in tutta l’Africa il “bushmeat” è molto diffuso nelle aree urbane e benestanti, dove la carne selvatica viene preferita per il sapore. Secondo l’United Nations Office on Drugs and Crime, parliamo di un mercato che a livello mondiale comporta la perdita di biodiversità, aumenta il rischio di pandemie, ma produce un giro di affari globale tra i 7 e i 23 miliardi di dollari l’anno. La crisi del Covid-19 può offrire un’opportunità di cambiamento. 


L’ecologia della malattia 


Lo studio “The Coevolution Effect as a Driver of Spillover”, pubblicato nel 2019 su Trends in Parasitology da un team di ricercatori dell’Auburn University, ha formulato una nuova interessante ipotesi che potrebbe fornire le basi per nuovi studi scientifici che esaminino i collegamenti tra la perdita di habitat e l’emergenza globale provocata dalle malattie infettive da zoonosi. Per la ricercatrice che ha firmato lo studio Sarah Zohdy, della School of Forestry and Wildlife Sciences e del College of Veterinary Medicine della Auburn, è possibile sostenere che a livello globale “La perdita di habitat sia associata a malattie infettive emergenti (emerging infectious diseases o EIDs) che si diffondono dalla fauna selvatica all’uomo, come Ebola, virus del Nilo occidentale, SARS, virus di Marburg e altre”.  Per spiegare i meccanismi alla base di questa associazione il team dell’Auburn ha studiato l’effetto di coevoluzione, che è radicato nell’ecologia e nella biologia evolutiva. Il team ha integrato idee provenienti da molteplici aspetti della biologia, tra cui l’ecologia delle malattie, la biologia evolutiva e la genetica del territorio, per sviluppare una nuova ipotesi sul motivo per cui è più probabile che le malattie si diffondano dalla fauna selvatica all’uomo in habitat disboscati.  Questo approccio mirato all’analisi dell’”ecologia della malattia” si basa soprattutto su un’ipotesi nota come effetto di diluizione. Per la Zohdy “È essenzialmente l’idea che la conservazione della biodiversità possa proteggere l’uomo dalle malattie infettive emergenti.  L’effetto di diluizione evidenzia il ruolo fondamentale che la conservazione della fauna selvatica può svolgere nella protezione della salute umana”.  Seguendo questa ipotesi gli scienziati hanno ipotizzato che, mentre gli esseri umani alterano il territorio con la perdita dell’habitat, “i frammenti di foresta fungono da isole e la fauna selvatica e i microbi che causano malattie che vivono al loro interno subiscono una rapida diversificazione”. In un territorio frammentato vedremmo, quindi, un aumento della diversità dei microbi che causano malattie, “aumentando la probabilità che uno di questi microbi raggiunga le popolazioni umane, innescando dei focolai”. Lo studio, quindi, introduce un meccanismo evolutivo per spiegare l’associazione tra frammentazione dell’habitat e diffusione delle malattie nelle popolazioni umane, una scoperta che potrebbe comportare un cambiamento significativo nel modo in cui vengono percepite le origini di queste malattie.


Donut Economics


Nel corso degli ultimi due decenni le malattie emergenti hanno avuto un costo di oltre 100 miliardi di dollari, una cifra che per l’Unep “Passerebbe a diversi bilioni di dollari se le epidemie si trasformassero regolarmente in pandemie umane”. Per questo occorre riprogettare da adesso economie più sensate e sostenibili, che mitighino le minacce del cambiamento climatico, della deforestazione, della perdita di biodiversità e quindi anche della diffusione di pandemie da zoomosi, gettando le basi per un’economia verde e circolare. A suggerirlo è stato a più riprese anche il Club di Roma che in questi ultimi anni  ha rilanciato con forza l’idea che “La pandemia richiede una risposta forte e immediata. Ma nella gestione della crisi, anche i governi europei devono guardare al lungo termine”. Come? “Nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria globale e di un’imminente recessione economica, l’importanza dell’European Green Deal è diventata ancora maggiore. Deve essere il quadro di riferimento per rispondere alla crisi attuale e all’emergenza planetaria più ampia di cui è parte”. Il prestigioso gruppo di scienziati, che nel 1972 emise il primo serio allarme ambientale (a lungo ignorato) pubblicando il  famoso  The Limits to Growth  per poi ripetersi nel 1992 con il libro Beyond the Limits, in questi anni pandemici è tornato a mettere in guardia l’umanità con una lettura non scontata e non priva di speranza della grave crisi sanitaria in atto.  Per alcuni illustri esponenti del Club di Roma come Sandrine Dixson-Declève copresidente del Club, Hunter Lovins presidente di Natural Capitalism SolutionsHans Joachim Schellnhuber direttore emerito del Potsdam-Institut für Klimafolgenforschung (PIK) e Kate Raworth dell’Environmental Change Institute dell’università di Oxford, “nel pianeta, tutte le specie, i paesi e le questioni geopolitiche sono interconnesse. I problemi possono essere gestiti solo attraverso un’azione collettiva che inizia molto prima che diventino crisi in piena regola”. In questo senso il coronavirus è stato un decisivo campanello di allarme per almeno due motivi: “è chiaro che dobbiamo smetterla di superare i limiti del pianeta che rendono più probabili le zoonosi che fanno il salto di specie”, ma sappiamo anche “che è possibile apportare cambiamenti trasformativi alle nostre società in una notte”.  Se i governi mondiali si stanno affrettando a proteggere i loro cittadini dal punto di vista medico ed economico a breve termine (chi più e chi meno), è sensato pensare di poter utilizzare questa crisi per inaugurare un cambiamento sistemico globale. Per gli scienziati del Club ad esempio, “non c’è più nessuna buona ragione per non eliminare gradualmente i combustibili fossili e implementare le tecnologie dell’energia rinnovabile, la maggior parte delle quali sono ora disponibili a livello globale e spesso sono anche più economiche dei combustibili fossili” Analogamente anche il passaggio dall’agricoltura industriale a quella rigenerativa, uno dei modi migliori per vivere entro i nostri confini planetari, è immediatamente fattibile e “ci consentirebbe di sequestrare il carbonio nel suolo a un ritmo sufficiente per invertire la crisi climatica, questo migliorerebbe la resilienza economica e ambientale, creerebbe posti di lavoro e migliorerebbe il benessere delle comunità rurali e urbane”.  Riusciremo quindi a vivere in una “Donut Economics” cioè dentro i limiti naturali del pianeta assicurandoci che le comunità emarginate non rimangano indietro? Il gruppo di scienziati consiglia ai politici che vogliono uscire dall’attuale crisi di iniziare a reindirizzare ogni anno i 5,2 trilioni di dollari spesi in sussidi per combustibili fossili verso infrastrutture verdi, rimboschimento e investimenti in un’economia più circolare, condivisa, rigenerativa e low carbon. Del resto tra oggi e il 2030, un’azione più ambiziosa per affrontare i cambiamenti climatici potrebbe fornire oltre 26 trilioni di dollari in benefici economici globali netti, compresa la creazione di oltre 65 milioni di nuovi posti di lavoro low- carbon.  Ce la faremo? Per gli scienziati del Club di Roma sì! “Gli esseri umani sono resilienti e imprenditoriali. Siamo perfettamente in grado di ricominciare. Se impariamo dai nostri fallimenti, possiamo costruire un futuro più luminoso di quello che è attualmente in serbo per noiAccogliamo questo momento di sconvolgimento come un’opportunità per iniziare a investire in resilienza, prosperità condivisa, benessere e salute planetaria". Da tempo abbiamo superato i nostri limiti naturali, adesso è doveroso chiedere ai leader europei di guardare più lontano di quanto abbiano saputo fare fino ad adesso: “andrà tutto bene” solo se non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema!


Il Covid-19 “sostenibile”?


Nei mesi di lockdown il traffico aereo si è ridotto in tutto il mondo e la quasi totalità delle persone è rimasta a casa, lavorando a distanza. Come conseguenza del blocco delle principali industrie, e dell’utilizzo limitato delle automobili, in Europa le emissioni di NO2 e, in misura ridotta, di PM2.5 hanno subito una drastica diminuzione, come hanno mostrato anche le immagini satellitari. Per gli studiosi del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr), però, i “benefici” portati dai lockdown sull’inquinamento sono stati effimeri e di breve durata, e non tutti si sono rivelati sostenibili e utili per un cambio di rotta nello sviluppo scorsoio responsabile del cambiamento climatico. Per quanto riguarda le emissioni di alcuni gas serra siano diminuite per effetto delle misure di contenimento della pandemia, questa riduzione ha prodotto un effetto scarso o nullo sulle concentrazioni totali di inquinanti accumulate in atmosfera per decenni. “Infatti, - hanno spiegato Francesca Gorini e Fabrizio Bianchi dell'Istituto Fisiologia Clinica Cnr di Pisa - è da tempo ben documentato che per un calo significativo e permanente dovrebbe verificarsi un cambiamento strutturale di lungo termine nelle economie nazionali, risultato che può essere raggiunto solo attraverso la ratifica degli impegni ambientali presi (COP21)”. Inoltre, la diminuzione delle emissioni di inquinanti osservata in alcuni paesi è stata solo temporanea, per questo gli indicatori finora disponibili non permettono ottimismo sui cambiamenti del sistema economico mondiale, ancora proiettato verso un ritorno allo stato originale.  È importante ricordare che se tra gli effetti indiretti che il nuovo coronavirus ha prodotto sull’ambiente vi sono principalmente la riduzione dell’inquinamento atmosferico e acustico in concentrazioni che torneranno presto a salire,  vi sono altresì molti effetti negativi correlati all’aumento dei rifiuti domestici e sanitari. L’aumento di acquisti online con consegna a domicilio, per esempio, ha generato un ampio incremento dei rifiuti organici e inorganici, che si sono andati a sommare all’aumento dei rifiuti sanitari a cominciare dai dispositivi di protezione personale (dpi).  “Basti pensare - hanno spiegato i ricercatori - che gli ospedali di Wuhan hanno prodotto una media di 240 tonnellate di rifiuti sanitari al giorno durante l’epidemia, rispetto alla loro media precedente inferiore alle 50 tonnellate. In altri paesi come gli Stati Uniti, c’è stato un largo aumento di rifiuti derivati da dispositivi di protezione individuale come maschere e guanti, mentre sono stati interrotti i programmi di riciclo dei rifiuti in alcune città americane, per la preoccupazione sul rischio di diffusione del Covid-19 nei centri di riciclaggio”. In Italia le cose non sono andate meglioI rifiuti sanitari come maschere, guanti, farmaci usati o scaduti che possono essere facilmente mescolati con i rifiuti domestici, dovrebbero  essere trattati come rifiuti pericolosi e smaltiti separatamente da operatori municipali specializzati. Dovrebbero appunto... Infine, nonostante la gravità della pandemia, esiste un’evidente asimmetria tra la giusta attenzione per le conseguenze sanitarie della pandemia e l’ingiusta disattenzione per i danni  sanitari dell’inquinamento. "I numeri parlano da soli: nel mondo nove persone su dieci respirano oggi aria inquinata che uccide 4,2 milioni di persone ogni anno, mentre sono state stimate 412.000 morti premature in tutta Europa, di cui 374.000 nei 28 Paesi UE (e 58.000 in Italia), per esposizione alle PM2,5". Sebbene le stime di impatto siano relative ai dati del 2016 e in diversi paesi sviluppati si stia assistendo ad un progressivo miglioramento, sulla base dei dati ambientali più recenti la situazione mondiale non dovrebbe cambiare radicalmente nei prossimi anni. In Italia per esempio ci si attende un sensibile miglioramento, ma difficilmente scenderemo sotto i 30.000 decessi da inquinamento ogni anno.  


Per ora il tema dell'inquinamento e della salute è al centro della riflessione e dell’azione principalmente di ong, associazioni e comitati impegnati a vari livelli sui grandi temi ambientali, e mentre si assiste ad un progressivo consolidamento del legame tra scienza e cittadini, appare ancora un miraggio in questo campo quello tra scienza e politica (e lo sarà anche in campagna elettorale, se escludiamo qualche spot da un milione di alberi).


Alessandro Graziadei


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