Sono quattro gli Oscar conquistati dall’Asia durante la 95ma edizione degli Academy Awards. In particolare Michelle Yeoh, la 60enne attrice malaysiana di origini cinesi, è stata la prima donna asiatica a vincere la statuetta per la miglior attrice protagonista con "Everything Everywhere All at Once”, un film che racconta la storia di un’immigrata cinese proprietaria di una lavanderia a gettoni che lotta per arrivare a fine mese. Un successo internazionale per Kuala Lumpur, che però proprio pochi giorni dopo la premiazione agli Oscar della Yeoh, ha dovuto fare i conti in patria con le minacce di morte arrivate al regista Khairi Anwar che è stato accusato dai conservatori islamici del Paese di promuovere l’apostasia con il suo film del 2021 “Mentega Terbang”. Il film, che racconta la storia di una giovane ragazza che dopo la perdita della madre malata terminale cerca il senso della vita e della morte anche in altre religioni, è stato travolto delle polemiche a inizio marzo dopo essere approdato sulla piattaforma di streaming Viu, con sede a Hong Kong, che l’ha ritirato dopo le proteste di alcuni gruppi e movimenti di conservatori islamisti.
Il regista il 16 marzo ha trovato la propria auto danneggiata, ricoperta di vernice e con messaggi di minaccia di questo tenore: “Mentega Terbang non sfidare l'Islam”, “L'Islam sorgerà” e “Tu e la tua famiglia dovete morire”. Anche l'auto appartenente ad Arjun Thanaraju, un attore che ha recitato nel film di Anwar, è stata vandalizzata in maniera simile. Come mai? A quanto pare i conservatori islamisti della Malaysia, forti dei risultati ottenuti alle ultime elezioni del novembre scorso stanno guidando una polarizzazione della società, attaccando anche altri film e canzoni che ritengono contrari ai valori islamici. Khairi ha dichiarato di essere stato attaccato dai conservatori anche sui social, tanto che la campagna di odio religioso scatenata contro di lui, “Sta mettendo in pericolo me stesso, la mia famiglia e il benessere del mio cast e della troupe", ha commentato il regista, che ha evidenziato come “Nessuno dei ministri, ministeri, autorità, sta fermando questo pericolo che ci troviamo ad affrontare”. In realtà il ministro delle comunicazioni Fahmi Fadzil, dopo le minacce ricevute da Khairi, ha esortato i cittadini a non farsi giustizia da soli, ma all'inizio del mese di marzo aveva dichiarato che il film “Ha oltrepassato il limite: voglio ricordare a tutti che anche se vogliamo essere registi, dobbiamo rispettare le leggi che si applicano a ogni lavoro che produciamo”.
Intanto nelle scorse settimane alcune dichiarazioni del presidente del partito Pejuang (Partito dei combattenti per la patria), Mukhriz Mahathir, hanno riacceso i riflettori su uno degli aspetti più discussi nella grande varietà etnica, culturale e religiosa che caratterizza la Malaysia: la lingua dell'insegnamento scolastico. L’uomo politico, musulmano e figlio del “grande vecchio” della politica malaysiana, Mahathir Mohamad, 97 anni, ha utilizzato toni provocatori per contestare la posizione espressa da Lim Kit Siang, parlamentare del Democratic Action Party, sull’opportunità che la carica di primo ministro possa essere aperta in futuro anche a non malesi. Per Mahathir, se è giusto porre il problema, deve essere subordinato alla cancellazione di fattori che alimenterebbero le divisioni su basi etniche e razziali. Tra questi cita le scuole dove vengono insegnate come prima lingua il tamil o il cinese che, a suo dire, “Alimentano diverse identità tra i giovani malaysiani e quindi ostacolano una piena integrazione”. “I nostri padri fondatori non avrebbero dovuto accettare di lasciare che l’insegnamento in altre lingue, un lascito della colonizzazione britannica, potesse continuare dopo l’indipendenza, perché avrebbero dovuto capire che questo avrebbe alimentato maggiori divisioni nella popolazione”.
Una posizione che alimenta una campagna nazionalista e intollerante. Attualmente le scuole dove l’insegnamento utilizza il mandarino e il tamil, lingue delle minoranze di origine cinese e indiana che contano rispettivamente il 20,8% e il 6,2% della popolazione, hanno come materie obbligatorie anche il malese e l’inglese. L’integrazione tuttavia non è completa più che per la conservazione di tratti linguistici e culturali propri delle minoranze, per il marcato sbilanciamento dell'istruzione in favore dell’identità malese (e musulmana), cavallo di battaglia della politica fin dall’indipendenza e oggi più che mai in voga. A fine febbraio alcuni appartenenti al movimento giovanile del partito islamista e filo-malese Parti Islam Se-Malaysia (Pas) hanno marciato a Setiu Terengganu, nello Stato peninsulare di Terengganu, indossando abiti verdi di ispirazione militare e medievale con tanto di scudi, lance e spade (fittizi). Una manifestazione di adesione all’Islam militante all’interno di un evento di due giorni in cui era presente il leader del partito, Abdul Hadi Awang, noto per i suoi interventi provocatori verso le altre fedi ed etnie e da sempre schierato a favore del suprematismo dei malesi musulmani sulle altre componenti etniche e religiose della Malaysia. Dopo la manifestazione il ministro per lo Sviluppo islamico, Mohd Na'im Mokhtar, ha diffuso un comunicato di condanna in cui si chiede ai musulmani di non farsi coinvolgere in azioni che possono incentivare divisioni e incomprensione nella comunità.
Secondo la rivista del Pime AsiaNews “L’islamismo, tuttavia, non solo cerca di giocare la carta etnica e religiosa a suo favore, ma anche di alimentare i rapporti con gruppi all’estero: nel caso del Pas sono stretti e storici quelli con i Fratelli musulmani. Quella di Setiu Terengganu non sembra sia stata una manifestazione in grado di sollevare consenso nell’opinione pubblica. Al contrario, sulle piattaforme social c’è chi ha accusato il Pas di atteggiamento provocatorio rievocando eventi negativi del passato, e chi invece lo ha criticato di diffondere un messaggio ambiguo, forse a favore del radicamento dell’Isis in Asia, senza volerlo esprimere apertamente”. Ma in questa Malaysia sospesa tra conservatorismo e modernità c'è spazio anche per quest'ultima: in aprile la Camera bassa del Parlamento di Kuala Lumpur, ha votato a favore di una riforma per abolire l’obbligo di pena di morte e l’ergastolo per alcuni reati. La normativa passerà ora all’altra Camera, e, se approvata, sarà inviata al re per la firma e la conseguente conversione in legge. Grazie alla nuova norma oltre 1.300 detenuti nel braccio della morte potrebbero essere risparmiati dal patibolo se entro 90 giorni dall’entrata in vigore presenteranno una richiesta di revisione del loro caso. Certo, in base agli emendamenti approvati sarà a discrezione dei singoli giudici poter sostituire la pena di morte con altre punizioni, tra cui la fustigazione e la reclusione fino a un massimo di 40 anni, ma per il vicedirettore di Human Rights Watch per l'Asia, Phil Robertson, il voto è “Un importante passo avanti per la Malaysia”, che dovrebbe guidare “la leadership regionale incoraggiando altri governi dell’Asean (l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) a ripensare al loro uso continuato della pena di morte”. Secondo i dati ufficiali, solo in Malaysia, tra il 1992 e il 2023 sono stati impiccati 1.318 prigionieri...
Alessandro Graziadei
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