Alidad Shiri è arrivato ragazzino in Alto Adige nell’estate 2005 dall'Afghanistan dove ha lasciato e perso parte della sua famiglia a causa della guerra. Ha raccontato la sua storia in un libro, “Via dalla pazza guerra” di HarperCollins. In Italia ha studiato e si è laureato ed oggi è un giornalista che collabora con varie associazioni: Libera, UNHCR, Caritas, CIAM e domenica scorsa, il 10 settembre, è stato ospite dell'iniziativa di Fondazione Fontana al rifugio Campogrosso all'interno di STRETCHING OUR LIMITS campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi per sostenere le attività de L’Arche Kenya e del Saint Martin. Sono queste due realtà impegnate quotidianamente in Kenya nel costruire società più inclusive, accoglienti e generose, prendendosi cura dei più fragili siano essi persone con disabilità, con problemi di salute mentale, minori svantaggiati, bambini/e di strada, vittime di violenza mettendo al centro le differenze e le fragilità intese come risorse. Con Alidad abbiamo parlato di Afghanistan, di migrazioni ieri e oggi, di discriminazioni e di come una società realmente umana non possa che essere fondata sull’accoglienza non emergenziale e sul rispetto dei più deboli, che vanno accolti come potenziali risorse umane e non come un problema sociale.
In un giorno di agosto del 2005 un tir si ferma in un autogrill vicino a Bressanone e sotto sbuchi tu. Eri partito dall'Afghanistan 4 anni e mezzo prima. Sembra la trama di un romanzo, invece è la tua storia, quella di un bambino migrante che è riuscito ad arrivare vivo in Europa. Perché sei partito e come sei arrivato in Italia?
AS: Sono partito perché non avevo altra scelta, perché rimanere lì era troppo rischioso dato che avevano ucciso già parte della mia famiglia. Affrontare un simile viaggio tra la vita e la morte, tra lacrime e sangue, altrettanto rischioso, era però l’unica possibilità per me di costruirmi un futuro e vivere nella pace. Purtroppo, molti miei compagni sono morti per strada o schiacciati dai camion sotto i quali si erano nascosti. Io sono miracolosamente arrivato e tutto quello che vivo ora è anche per loro, per essere loro voce.
Sei scappato da un Afghanistan in guerra in mano ai talebani e oggi dopo 18 anni poco sembra essere cambiato nel tuo Paese…
AS: In realtà erano cambiate tante cose in 20 anni: una intera generazione almeno nelle città ha potuto studiare; tanti ospedali sono stati costruiti in zone dove prima la mortalità infantile era alle stelle, dove molte donne morivano di parto. Prima non c’erano strade, né servizi di alcun tipo. Anche la libertà di stampa ha finalmente permesso la critica alla politica, alla società, anche alla religione nel suo aspetto opprimente. La questione femminile era stata affrontata con nuove aperture ad ogni livello. Anche la cultura, con l’apertura di teatri e cinema, aveva preso nuovo respiro; la musica era molto apprezzata con concerti in varie città, concorsi musicali televisivi a cui partecipavano giovani donne e uomini. Potevi vedere la gioia sul viso delle persone. Tutto questo veloce cambiamento è stato stroncato nell’agosto 2021 con l’arrivo dei potere dei talebani.
Con il ritorno dei talebani, l'emancipazione femminile delle donne afgane deve fronteggiare ancora più ostacoli di quanti non ne avesse già prima, con diversi divieti in moltissimi contesti di vita, come spostarsi da sole, vestirsi come vogliono, frequentare liberamente la scuola o semplicemente lavorare. Oltre alla loro assenza da qualsiasi ruolo di governo e di responsabilità pubblica. Quali sono oggi le prospettive delle ragazze afghane?
AS: Le donne afghane sono veramente eroine per avere sfidato coraggiosamente il maschilismo, il fondamentalismo e con tanto sacrificio essersi battute con tutte le loro forze nell’impresa dello studio ai più alti livelli. Nel Parlamento prima dell’arrivo dei talebani le donne erano presenti attivamente con il 27%, cinquemila donne lavoravano per i due ministeri della Difesa e Interno. Anche nel mondo del giornalismo erano presenti 2500 donne, oltre alle magistrate, avvocate, ingegneri, docenti universitarie e altre professioni qualificate. Oggi tutte queste conquiste sono annullate, perché le donne non possono più né studiare, né lavorare né partecipare alla vita pubblica. Alcune sono scappate nei paesi limitrofi o in occidente per grave rischio della loro vita, ma altre sono rimaste e lottano come possono per non perdere i diritti così faticosamente conquistati.
Come il nascere donna, anche far parte come te di una minoranza etnica come quella degli hazara è pericoloso in Afghanistan. Ci spieghi chi sono gli hazara e perché sono vittime di persecuzione e genocidio in Afghanistan?
AS: Nascere donna è pericoloso in Afghanistan, ma altrettanto, e ancora più pericoloso, è far parte di un popolo come quello degli Hazara. Gli Hazara sono musulmani sciiti, per questo già alla fine dell’Ottocento sotto il dominio del re Abdur Rahman il 62% della popolazione degli Hazara è stata sterminata. In seguito, sotto il primo dominio dei talebani, con il moto “Hazara in Goristan”, che vuol dire “Hazara al cimitero”, solo nella città di Mazari Sharif sono stati uccisi trentacinquemila Hazara. In questi ultimi 20 anni abbiamo visto che erano loro gli obiettivi degli attacchi terroristici nei mercati, nelle moschee, negli ospedali, nei mezzi pubblici, nelle scuole e università. Gli Hazara sono aperti di mentalità e ben disposti al dialogo, anche all’ermeneutica nella religione, amano e apprezzano lo studio per uomini e donne, e tutto questo ha sempre dato molto fastidio al potere dei fanatici come i talebani, a cui ora si aggiunge anche l’Isis. Questi, talebani ed Isis, definiscono gli Hazara come miscredenti, infedeli e si sentono così giustificati nell’ucciderli brutalmente.
Per donne, minoranze etniche e religiose oggi si potrebbe parlare di una “nuova apartheid”?
AS: Assolutamente sì, se alle donne non è permesso di uscire, studiare, lavorare, ridere, ascoltare musica, fare sport, partecipare alla vita sociale: questo cos’è se non apartheid? Mi fa ancora più rabbia che questo accada sotto gli occhi di tutto il mondo e che niente si muova per cambiare la situazione. Come se l’Afghanistan non esistesse più. Le minoranze religiose non hanno alcuna possibilità di esistere, gli sciiti non possono celebrare secondo le loro usanze, nè le altre piccole realtà religiose come cristiani, ebrei e sikh, che hanno dovuto fuggire velocemente.
Sono e sono stati solo i talebani il “male” del tuo popolo?
AS: Anche prima dei talebani c’era una mentalità arcaica, maschilista, l’invasione sovietica, la guerra civile, ma il male maggiore è venuto dai talebani.
Complessivamente, la guerra in Afghanistan ha ucciso circa 176.000 persone, inclusi 46.319 civili. Negli anni successivi all'invasione americana del 2001, più di 5,7 milioni di rifugiati sono tornati in Afghanistan, ma quando i talebani hanno ripreso il potere nel 2021, 2,6 milioni di afghani erano ancora rifugiati e altri 4 milioni erano gli sfollati interni. Scappare dal tuo Paese e tentare il difficile viaggio verso l’Europa rappresenta ancora oggi l’unica speranza per buona parte dei tuoi concittadini?
AS: Vorrei sottolineare che nessuno vuole lasciare il proprio paese, famigliari ed amici, se non è costretto. La maggior parte di chi fugge non cerca di arrivare in Europa, arriva nei paesi limitrofi e di qui fa domanda di protezione internazionale per gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia; solo alcuni per l’Europa. Pensiamo al contrasto dei numeri: l’Italia ha accolto per ora circa cinquemila persone arrivate nei giorni della tragedia dell’agosto 2021. Successivamente dei 1200 previsti tanti non hanno potuto arrivare. Mentre negli Stati Uniti sono già collocati oltre 140 mila afghani e 800 mila domande sono al vaglio; di queste la metà dovrebbe avere una risposta positiva, secondo il governo americano.
Tante persone si domandano perché le persone in fuga dai paesi di origine non arrivino regolarmente in Europa, magari in aereo e con regolari documenti, anziché affidarsi a lunghissime, costosissime e pericolosissime traversate via terra o via del mare. Ci spieghi perché e quali sono le poche opzioni legali e sicure?
AS: Perché non hanno il visto di ingresso. Per questo tentano di arrivare con i mezzi che possono, pagando i trafficanti, rischiando la vita come abbiamo visto nelle tragedie di Cutro, Lampedusa e tante altre. Molte persone sono anche disperse nella rotta balcanica, oppure morte ancora prima sulle montagne tra l’Iran e la Turchia.
Dopo la creazione dell’area Schengen nel 1990, l’Unione Europea si è impegnata nella creazione di un sistema comune europeo di asilo (CEAS) volto a gestire un approccio unico degli Stati membri in materia di migrazione e a cercare di migliorare il quadro legislativo esistente, che si basa sulla Convenzione di Ginevra, sul Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) e sull’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. A partire dal 2015, poi, con l’Agenda Europea sulla Migrazione, la Commissione europea ha predisposto specifici fondi per finanziare lo sviluppo e la realizzazione di un programma di reinsediamento comune europeo, dando una spinta importante a vari Paesi europei ad aprire nuovi programmi di migrazione regolare e a potenziare quelli esistenti. Eppure migrare significa ancora rischiare di morire in un viaggio incerto e crudele come è tragicamente accaduto anche a tuo cugino nel naufragio di Cutro. Italia e Europa sembrano più interessate ad “esternalizzare” i confini piuttosto che a strutturare un condiviso piano di accoglienza. Non è cambiato nulla dal 2005 ad oggi?
AS: Purtroppo la situazione di chiusura dei confini è ancora peggiorata e questo pur nell’alternarsi dei colori dei governi di centro, sinistra e destra.
Quest’anno, hai scritto, “Festeggio la maggiore età della mia seconda vita” quella italiana. La tua è una storia che dimostra che chi arriva vivo e riesce ad entrare all’interno di un percorso di accoglienza può crescere, studiare, laurearsi, lavorare e diventare una risorsa come cittadino. È un’ipotesi che sembra purtroppo una fortunata eccezione o potrebbe diventare la normalità?
AS: Penso che dovrebbe diventare normalità la mia situazione: ogni persona, se avesse la possibilità di studiare sentendosi accolta in un clima di fiducia, potrebbe dare il massimo ed esprimere la proprie attitudini e potenzialità come risorsa per tutti, contribuendo al miglioramento della società.
Esiste una forte necessità di una buona governance della migrazione perché essa è oggi una caratteristica strutturale dell’economia globale. Nel perseguire politiche che rendano la migrazione uno strumento di prosperità condivisa e un punto di forza per lo sviluppo economico e la crescita delle economie dei Paesi di partenza che ruolo potrebbe avere la cooperazione internazionale?
AS: Si, è un argomento molto interessante quello della cooperazione internazionale, però nel mio caso e nelle situazioni che abbiamo trattato si tratta dei rifugiati o richiedenti asilo in seguito a migrazioni forzate. La cooperazione internazionale è fondamentale nel caso di migrazioni in seguito alle conseguenze dei cambiamenti climatici, siccità e povertà che purtroppo si stanno moltiplicando in tante parti del mondo. L’Occidente ha sfruttato nella storia territori del mondo ricchi di risorse e ancora oggi in modi nuovi continua lo sfruttamento producendo una sempre maggiore disuguaglianza. È molto importante il ruolo della cooperazione internazionale, però con un atteggiamento umile, non con l’arroganza di chi vuole imporre propri modelli, o cerca di sfruttare le conflittualità interne.
Alessandro Graziadei
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