sabato 24 agosto 2024

La contro-urbanizzazione cinese

Dal 2003 la Cina ha avviato un lento percorso di riscoperta delle campagne con un programma che ha tentato di affrontare un drammatico divario economico con le città. Dopo più di vent'anni ed in particolare dopo la fine della pandemia il Covid-19, la campagna è però tornata ad essere, almeno idealmente, l'incarnazione di stili di vita ancestrali e salvifici. Come ha ben descritto Anna Paola Pola “Quando al 16° Congresso Nazionale del PCC, nel 2003, l’allora presidente Hu Jintao ha sancito l’impegno del partito ad affrontare la crisi e lo sviluppo rurale, il dibattito intorno alle “tre questioni rurali” – contadini, villaggi e agricoltura – si era già largamente diffuso in tutto il paese. La riflessione sulle “tre questioni” individuava cause e soluzioni della crisi ben al di là dello spazio rurale, mettendo in discussione le politiche urbane e, più in generale, il modello stesso di sviluppo del paeseDa allora, i provvedimenti messi in campo per lo sviluppo socio-economico delle campagne si sono susseguiti a ritmo incalzante fino alla storica dichiarazione di Xi Jinping che, nel febbraio 2021, ha riconosciuto il superamento della soglia minima di povertà in tutte le contee rurali”. Da allora sono sempre più i residenti urbani che decidono di abbandonare definitivamente la vita frenetica e insalubre delle città per godere delle amenità della vita rurale. Una vera e propria “contro-urbanizzazione”, non senza criticità, visto che se il confluire di nuove risorse e talenti dalle città ha indubbiamente avuto un impatto positivo sulle campagne cinesi, questo fenomeno ha portato a forti tensioni all’interno della società rurale cinese tradizionale.


Uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università delle poste e telecomunicazioni di Nanchino e dell’Università di Nanchino, basato su dati raccolti nella provincia orientale del Jiangsu tra il 2021 e il 2022 e pubblicato nel gennaio 2024 sulla rivista Humanities&Social Sciences Communications, rivela che questo contro-fenomeno migratorio ha interessato principalmente “Cittadini appartenenti alla classe media, di età compresa tra i 38 e i 60 anni e con un profilo culturale medio-alto. Di provenienza eterogenea, la maggior parte ha raggiunto i villaggi rurali del Jiangsu in seguito alla pandemia di Covid-19 per poi stabilirvisi in modo permanente”. Le ragioni che li hanno spinti a trasferirsi in campagna sono molteplici, ma per i ricercatori ha prevalso senz’altro il desiderio di fuggire dai ritmi frenetici e alienanti della città per condurre uno stile di vita più equilibrato, salutare, e umanamente più appagante. Tra l’altro, grazie ai progressi nel sistema dei trasporti e all’efficienza dei servizi di delivery, le distanze si sono ridotte e questi migranti di ritorno possono oggi godersi i vantaggi della vita in campagna senza rinunciare alle principali comodità delle città. “Un altro fattore che ha influito in maniera determinante su questa scelta sono le opportunità che la campagna offre a chi decide di avviare nuove e redditizie attività imprenditoriali. In questo senso, l’intraprendenza dei nuovi migranti è stata agevolata principalmente dall’accessibilità dei prezzi degli affitti, che sebbene siano in continuo aumento, restano comunque più bassi rispetto a quelli delle città” hanno spiegato i ricercatori.


Oggi in Cina, infatti, si moltiplicano gli investimenti e quindi le occasioni di lavoro nel turismo rurale, si aprono ristoranti, caffè, club del benessere e bed & breakfast, che spesso offrono cibo a chilometro zero ed esperienze a contatto con la natura, come la raccolta di frutta e verdura. Si tratta di forme di divertimento sempre più in voga, apprezzate soprattutto da una clientela urbana desiderosa di rilassarsi in campagna per un weekend o di trascorrervi le vacanze. Altri imprenditori locali si sono invece dedicati all’agricoltura biologica, affiancando talvolta alla coltura attività parallele come la vendita dei prodotti online, visite guidate alle fattorie e corsi di educazione ambientale. Con la loro atmosfera, più rilassate le campagne sono poi diventate il luogo ideale anche per numerosi artisti e artigiani che vi hanno stabilito il proprio laboratorio o punto vendita. Queste nuove opportunità non solo hanno consentito ai nativi di trovare un impiego vicino casa, rallentando il flusso migratorio verso i maggiori centri urbani, ma stanno anche convincendo i gruppi dei cosiddetti ongmingong (letteralmente “contadini-operai”) a ritornare al villaggio di origine, dopo aver trascorso gli ultimi anni della loro vita come lavoratori precari nelle città. Come spesso accade ad ogni latitudine, però, la presenza dei nuovi residenti non è sempre ben accolta dai locali e anche per i ricercatori dell’Università delle poste e telecomunicazioni di Nanchino e dell’Università di Nanchino, il processo di integrazione tra autoctoni e migranti risulta spesso difficoltoso. A incidere su questo aspetto vi sono sicuramente le differenze nel modo di pensare, nello stile e nelle abitudini di vita, dovute al diverso background socio-culturale che contraddistingue i due gruppi. Diversamente dai migranti, i nativi tendono a privilegiare le relazioni all’interno della sfera familiare e sostengono una visione quasi confuciana dei rapporti sociali, basata tra le altre cose sul sistema patriarcale e il rispetto degli anziani. Come ricorda anche AsiaNews “Ancorati ai valori tradizionali della cultura cinese, i residenti rurali hanno talvolta accusato i nuovi arrivati di non tener conto dei principi del fengshui quando ristrutturano gli edifici, nuocendo così all’armonia del villaggio. Mentre dal canto loro i migranti, che considerano l’antica arte geomantica mera superstizione, non accettano interferenze sulle loro scelte, così come non gradiscono le critiche sulle loro preferenze estetiche, che secondo i locali distruggerebbero il fascino e l’autenticità dell’ambiente rurale”.


Un’altra questione al centro delle dispute tra i due gruppi riguarda la terra e il possesso di un permesso di residenza rurale. Ai nuovi residenti, infatti, è concesso solo di prendere in affitto i diritti d’uso degli appezzamenti stipulando accordi direttamente con gli abitanti del villaggio che però non forniscono loro alcuna tutela legale. Ciò implica che al momento del rinnovo del contratto, i migranti rischino di perdere in un attimo tutto ciò su cui hanno investito. Secondo uno studio pubblicato nel febbraio 2024 su Habitat International sarebbe proprio questo sistema a proteggere gli interessi dei locali e la stabilità delle campagne, limitando l’intrusione di capitale dai gruppi a medio e alto reddito ed evitando il cambiamento radicale della società rurale. Questo sarebbe il motivo per cui in Cina il processo della contro-urbanizzazione non avrebbe portato per ora ad una trasformazione del tessuto socio-economico come in Europa o negli Stati Uniti. Difficile stabilire se il fenomeno in questione costituisca più un ausilio o un ostacolo alla strategia di rivitalizzazione rurale, sicuramente rappresenta una interessante sfida per il futuro delle campagne cinesi. Intanto oggi, però, sono migliaia i villaggi storici ufficialmente riconosciuti a scala nazionale, mentre ben 30 villaggi cinesi sono inclusi tra i beni dichiarati Patrimonio mondiale dall’UNESCO, con più di 75 potenziali candidature nella Lista nazionale. A questi si aggiunge il più alto numero al mondo di sistemi rurali GIAHS (Globally Important Agricultural Heritage Systems) promossi dalla FAO. Un gran bel risultato!


Alessandro Graziadei

 

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