Stiamo assistendo ad un progressivo spostamento delle piogge tropicali verso nord causato da complessi cambiamenti climatici dovuti alle emissioni di carbonio che influenzano la formazione delle zone di convergenza intertropicali, zone che raccolgono circa un terzo delle precipitazioni mondiali (fino a 4 metri di pioggia all'anno). In queste aree lungo o vicino all'equatore gli alisei degli emisferi settentrionale e meridionale si incontrano e si lanciano verso l'alto nelle quote più fredde, aspirando grandi volumi di umidità dagli oceani. Mentre questa aria umida si raffredda a quote più elevate, si formano nubi temporalesche, che consentono temporali torrenziali. A spiegare il fenomeno sono stati Wei Liu, Shouwei Li e Antony Thomas dell’Università della California Riverside (UCR), Chao Li del Max-Planck-Institut für Meteorologie e Maria Rugenstein della Colorado State University con lo studio “Contrasting fast and slow intertropical convergence zone migrations linked to delayed Southern Ocean warming”, pubblicato a fine giugno su Nature Climate Change. Per il gruppo di scienziati “Le emissioni incontrollate di carbonio costringeranno le piogge tropicali a spostarsi verso nord nei prossimi decenni, il che avrà un impatto profondo sull'agricoltura e sulle economie vicine all'equatore”. Ad essere più colpite saranno le regioni tropicali a nord e sud dell’equatore, in particolare i Paesi dell'Africa centrale, il Sud America settentrionale e gli stati insulari del Pacifico e a subirne le conseguenze più drammatiche saranno soprattutto le coltivazioni di caffè, cacao, olio di palma, banane, canna da zucchero, tè, mango e ananas.
Lo studio, che ha tenuto conto di come le emissioni di carbonio influenzano la quantità di energia radiante nella parte superiore dell'atmosfera, ha anche preso in considerazione i cambiamenti nel ghiaccio marino, nel vapore acqueo e nella formazione delle nubi. Questi e altri fattori hanno determinato condizioni che spingono verso nord, fino a 0.2 gradi in media, le zone di convergenza che formano la pioggia. Secondo Ma Liu, professore associato di cambiamenti climatici e sostenibilità al Department of Earth Sciences and Planetary Sciences dell'UCR, “Lo spostamento verso nord durerà solo circa 20 anni prima che forze più grandi derivanti dal riscaldamento degli oceani meridionali spostino le zone di convergenza verso sud e le mantengano lì per un altro millennio”. Liu sottolinea che “Il cambiamento delle precipitazioni è molto importante. Si tratta di una regione con precipitazioni molto intense. Quindi, un piccolo cambiamento causerà grandi cambiamenti economici e sociali che influenzeranno molte regioni”. Per realizzare la previsione il team di ricercatori ha utilizzato sofisticati modelli informatici per prevedere l'influenza atmosferica delle emissioni di anidride carbonica derivanti dalla combustione continua di combustibili fossili e di altre fonti. Come accade anche per simulazioni ancora più complesse, come nel caso della “Gemella della Terra”, “In pratica, cerchiamo di simulare il mondo reale. Nel modello, possiamo aumentare le nostre emissioni di anidride carbonica dai livelli preindustriali a livelli molto più alti” ha spiegato Liu.
Una delle conseguenze di questo spostamento delle piogge tropicali sono i relativi spostamenti anche dei cicloni tropicali che hanno un forte impatto sui trend delle precipitazioni. A seconda di dove si verificano, possono causare fino al 20% delle precipitazioni annue totali sulla terraferma e fino al 40% su alcune regioni oceaniche. Questo rende importante avere una migliore comprensione dell’impatto dei cicloni tropicali sul clima, e verificare le potenziali tendenze associate al riscaldamento globale, un lavoro che lo studio “Freddy: breaking record for tropical cyclone precipitation?”, da poco pubblicato su Environmental Research Letters da Enrico Scoccimarro, Paolo Lanteri e Leone Cavicchia della Fondazione Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC), ha provato a realizzare analizzando le precipitazioni legate ai cicloni tropicali in vari dataset osservativi, con un’attenzione particolare al ciclone tropicale Freddy, che ha interessato l’Oceano Indiano Meridionale nel 2023. Per Scoccimarro, “Una quantificazione affidabile della quantità di acqua associata ai cicloni tropicali gioca un ruolo fondamentale nell’aiutare gli stakeholder e i decisori politici ad anticipare e prepararsi a questo tipo di eventi, che hanno impatti significativi sulla società e sugli ecosistemi”. Lo studio, finanziato dal programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione Europea nell’ambito del progetto Climate Intelligence (CLINT), ha certificato che Freddy è stato il ciclone tropicale più intenso in termini di energia rilasciata e il terzo più mortale mai registrato nell’emisfero australe, con impatti distruttivi in Madagascar, Mozambico, Zimbabwee e soprattutto Malawi. Freddy ha avuto un comportamento piuttosto particolare: si è sviluppato vicino alla costa occidentale dell’Australia all’inizio di febbraio 2023 e poi ha attraversato l’Oceano Indiano meridionale, raggiungendo la costa orientale dell’Africa in poche settimane. Per i ricercatori “Solitamente, i cicloni sono alimentati dal calore e dall’energia dell’oceano, quindi perdono intensità quando toccano terra e tendono a dissiparsi. Insolitamente, invece di dissiparsi dopo l’approdo, Freddy è tornato nell’oceano, dove ha guadagnato più energia e ha invertito la sua direzione, colpendo nuovamente la costa del Mozambico e poi del Malawi”. Questo comportamento insolito lo ha reso il ciclone tropicale più lungo mai registrato, con una durata di 38 giorni , battendo il record precedente di 30 giorni di oltre una settimana e percorrendo una distanza totale di oltre 8.000 chilometri.
Per questo Freddy è stato riconosciuto come il ciclone tropicale più intenso mai registrato in termini di energia ciclonica accumulata (ACE), una misura che esprime l’energia rilasciata da un ciclone tropicale durante la sua vita e che fornisce una stima sia dell’intensità del ciclone, che è solitamente la sua velocità massima, sia della sua durata, dando una misura dell’energia dissipata, che è più rappresentativa dell’attività complessiva del ciclone. Per Scoccimarro “Al CMCC sono stati condotti molti studi per cercare di comprendere gli effetti del cambiamento climatico sui cicloni tropicali. Da un lato è vero che con un clima più caldo abbiamo un’atmosfera più stabile, e quindi ci aspettiamo meno cicloni tropicali. D’altra parte, però, è anche vero che una maggiore disponibilità di energia nell’oceano porta a tempeste più intense. Inoltre, se capita che una tempesta ritorni nell’oceano, ha maggiori probabilità di rafforzarsi nuovamente e colpire di nuovo la terraferma, e questo è proprio quello che è successo di recente con Freddy”. In ogni caso ha concluso Scoccimarro “In media, in un clima più caldo, è più probabile che si verifichino tempeste più intense. In un clima cambiato, probabilmente avremo meno tempeste, ma probabilmente saranno molto più intense”.
Alessandro Graziadei
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